Omelie 2022 di don Giorgio: PRIMA DI QUARESIMA

6 marzo 2022: PRIMA DI QUARESIMA
Gl 2,12b-18; 1Cor 9,24-27; Mt 4,1-11
È iniziata la Quaresima: uno dei due periodi (l’altro è l’Avvento) che la Liturgia chiama “forti”, nel senso che richiedono un particolare impegno da parte dei cristiani a vivere più intensamente i Misteri principali della nostra fede: l’incarnazione del Figlio di Dio (Avvento/Natale) e la sua passione, morte e risurrezione (Quaresima/Pasqua).
Forse lo sbaglio sta nell’intendere ancora oggi tale impegno come qualcosa di esteriore: qualche gesto nel campo caritativo, qualche preghiera e qualche pratica religiosa in più, qualche fioretto o rinuncia, ecc. ecc.
Non parliamo del digiuno, una parola che fa paura, tanto più se c’è una crisi che ci spoglia del superfluo e anche del necessario, anche se fatichiamo a capire la differenza tra il superfluo e il necessario tanto sono diventati una cosa unica.
Ho detto “qualcosa”, ed è già tanto, perché la maggior parte dei credenti neppure sa che inizia la Quaresima e che cos’è la Quaresima.
Un tempo “forte”, dunque, sì, ma nel senso di una intensità di Fede purissima, che si spoglia di esteriorità per puntare alla Essenzialità divina.
Si tratta o no di vivere un Mistero divino, e il Mistero non riguarda forse lo Spirito? Lo Spirito va adorato in “spirito e verità”, ha detto Cristo alla Samaritana.
E qual è l’assurdo dei cristiani, stimolati da una Chiesa istituzionale, chiusa in un mondo strettamente religioso? L’assurdo sta nell’aggiungere “qualcosa” di esteriore a una Fede che, essendo purissima, non ha bisogno di nulla.
Arriva l’Avvento, e siamo preoccupati di aggiungere cose. Arriva Quaresima, e siamo preoccupati di aggiungere altre cose.
Eppure tutto ci parla di deserto: Cristo viene condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo, ovvero da colui che, come dice il nome, ci separa dalla nostra realtà interiore.
Il deserto parla di essenzialità. In che senso?
A me piace andare alla origine del significato di ogni parola, ciò che chiamiamo il senso etimologico. La parola “deserto” non è solo un sostantivo, ma anche un aggettivo col significato di “solo, abbandonato”. Il latino “desertum” deriva dal verbo “deserere” che significa “abbandonare”. “Deserere”, a sua volta, è composto da “de”, con valore negativo, e “serere” (legare) quindi “non più legato”.
Possiamo dire che si è nel deserto quando si è soli, soli con se stessi, con il sé interiore, che è proprio come un deserto, in quanto non è più legato a qualcosa. Andiamo nel deserto per spogliarci di ciò che ci lega: lega il nostro spirito a qualcosa di carnale.
Prima ho detto che Cristo viene condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. L’evangelista Marco così scrive: “E subito lo Spirito (lo stesso che era disceso su Gesù nel battesimo) lo sospinse nel deserto, e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana”.
A proposito, non capisco perché la Chiesa ultimamente abbia cambiato l’espressione tanto discussa del “Padre nostro”: “e non c’indurre in tentazione…”, quando Gesù stesso è stato “indotto” dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo.
Tentare significa mettere alla prova. Ed ecco la domanda: In che senso Dio ci mette alla prova? Ci hanno sempre insegnato che non è Dio, ma è il diavolo o satana a tentarci.
Dio ci mette alla prova, quando ci spoglia del nostro superfluo, quando ci rende nudi nella nostra realtà interiore. Il contrario di ciò che vorrebbe fare il diavolo, il quale ci tenta offrendoci un mucchio di cose, come ha tentato di fare con Gesù nel deserto.
Dio, dunque, ci mette alla prova, spogliandoci dell’avere, del potere, del sapere tutto nostro. Dio o non Dio, tutto è una tentazione, una prova. La nostra esistenza è una prova. Ogni giorno siamo sottoposti a delle prove. Guai se non fosse così! Diversamente, la nostra esistenza non sarebbe un vivere, ma un continuo adattamento ad una società che omologa il pensiero, e il nostro comportamento.
Perché ci si adatta a questa società che pianifica il nostro modo di sopravvivere? Perché sfuggiamo alle occasioni che sono prove, per cui dovremmo confrontarci in continuazione con il nostro essere. La cosa assurda è vedere queste occasioni di confronto come se fossero delle tentazioni da cui liberarci.
Dobbiamo sì pregare Dio perché ci liberi dal Maligno, e non tanto dal male, perché il male in sé non esiste, se non in quanto mancanza di bene. Sant’Agostino diceva che il male è un bene mancato, o un bene a cui manca ancora qualcosa per essere bene, ovvero il male è un bene imperfetto.
Che Dio ci liberi dal Maligno, sì, ma in quanto il Maligno ci toglie le prove divine.
Ed è proprio nel deserto, tornando a quanto dicevo poco fa, che il Maligno vorrebbe tentarci offrendoci cose, proprio perché il deserto di per sé è privo di cose.
Il Diavolo non ci tenta quando viviamo in una società che già di per sé è una continua tentazione. Il Diavolo se ne sta tranquillo su una collina a osservare la scena del nostro incretinimento.
Ma vorrei aggiungere che è proprio lo Spirito santo a spingerci nel deserto, perché nel deserto siamo a confronto con la nudità del nostro essere. E il diavolo nel deserto cerca di giocare la sua carta migliore: rifarsi alla stessa parola di Dio, che può essere letta in modo del equivoco. Il diavolo dice a Gesù: “Sta scritto…”, e Gesù ribatte: “Sta anche scritto…”.
Le peggiori tentazioni diaboliche non sono quelle che provengono dal di fuori della Chiesa o di una religione in genere, ma a tentare il credente separandolo dalla sua realtà divina è lo stesso dio religioso, che si fa oggetto idolatrico.
Pensiamo alla predicazione dei profeti dell’Antico Testamento, il cui messaggio non era di indirizzo moralistico, ma teologico: i profeti condannavano duramente il peccato di idolatria, ovvero di sostituzione del vero Dio con le false divinità.
Cristo farà lo stesso con la religione ebraica, e non inventerà una nuova religione, ma darà inizio a quel Cristianesimo che non è una religione, ma quella Via, “odòs” in greco, che conduce dall’esterno all’interno.
Siamo continuamente tentati di stare all’esterno del nostro essere. Ma Dio ci offre continue occasioni, o prove, perché rientriamo dentro di noi.
“Tornate” o “ritornate”, un verbo che troviamo frequentemente nella predicazione profetica. Un verbo che la Chiesa dovrebbe ripetere, dando al verbo “tornare” tutto quel senso di conversione di cui parlava Gesù Cristo. Conversione, ovvero: fermarsi e fare marcia indietro.

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