Omelie 2025 di don Giorgio: QUINTA DI QUARESIMA

6 aprile 2025: QUINTA DI QUARESIMA
Dt 6,4a; 26,5-11; Rm 1,18-23; Gv 11,1-53
Anche i brani della Messa di questa domenica, quinta di Quaresima, ci aiutano a pensare (usando l’intelletto attivo), a riflettere (un pensare che si ripete) e a contemplare (quando il pensare e il riflettere si abbandonano quasi passivamente nella luce della Grazia divina).
Il primo brano inizia: “Ascolta, Israele”. Come vedete, la Bibbia insiste in modo direi ossessivo, quasi fino alla noia, nel dovere primario e preliminare dell’ascolto.
A me sembra che soprattutto oggi abbiamo disimparato ad ascoltare. Ci hanno educato a tutto, in primis a rivendicare diritti e diritti, staccandoli dai doveri, e il primo dovere è ascoltare la Parola che è la Verità. Gesù ha detto a un gruppo di ebrei, suoi simpatizzanti che poi lo contesteranno tentando anche di lapidarlo: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Rimanere significa vivere nella e della Parola, che è il Logos eterno. Vivere è la testimonianza di obbedienza alla parola che si ascolta, e la si ascolta anzitutto nel proprio essere interiore.
Il primo brano lo ritengo fondamentale: è come una sintesi della storia d’Israele perché diventi memoria come un chiodo fisso per ogni israelita, e la prima cosa è: prendere consapevolezza della propria origine umile e povera. “Mio padre (Abramo) era un Arameo errante”: quindi, era un forestiero, forse politeista, senza dimora fissa, dunque senza una casa, senza un lavoro retribuito secondo leggi sindacali.
Ecco, ogni ebreo non deve mai dimenticarlo, quando richiama la propria identità: chi era? Era membro di un popolo che il Signore ha voluto, ha liberato, ha condotto in uno spazio proprio e gli ha dato terra e doni della terra, quindi tutto in modo gratuito.
I doni, che dovranno essere motivo di gioia e di ringraziamento, vanno vissuti e condivisi. Qui il discorso si farebbe lungo, sorprendente, anche scandaloso.
Sulla proprietà privata staremmo qui delle ore nel tentativo tanto ambizioso quanto inutile di correggere quel concetto per cui ciò che è mio è mio, allargando il diritto di possesso sul criterio dell’avere che produce avere, o sul possesso di beni in nome del dio soldo. In altre parole, la proprietà privata ha dei limiti, stabiliti dai diritti altrui, in nome della destinazione universale dei beni. Come ha detto Benedetto XVI in un messaggio quaresimale del 2008: la terra non è proprietà di nessuno, perché è di Dio Creatore, il quale l’ha destinata come gestione o amministrazione in modo tale che ogni abitante abbia lo stesso pezzo di terra. Non è un discorso comunista, è un discorso prettamente cristiano.
Il primo brano ricorda anche due categorie di persone, che non avevano la possibilità di possedere qualcosa in proprio, ovvero di che vivere dignitosamente: i leviti e i forestieri.
Chi erano i leviti? Erano i discendenti di Levi, uno dei figli di Giacobbe. Solitamente vengono collegati spesso ai sacerdoti, ma avevano funzioni distinte. I sacerdoti nel tempio sacrificavano a Dio e offrivano incenso. I leviti svolgevano compiti di servitori, organizzatori degli aspetti esterni del culto, ed erano cantori. Pur parlando di 48 città affidate ai leviti, essi non possedevano nulla, e quindi vivevano di carità, ricevendo dagli altri ebrei la possibilità di vivere. La stessa cosa va detta per gli stranieri con precarietà di lavoro.
Ecco allora l’invito: quanti posseggono, anche i sacerdoti del tempio, devono mantenere la memoria di questa rivoluzione storica, che il popolo ha vissuto e di cui è consapevole, e ringrazia. Va ricostituita la gioia piena della liberazione, insieme con il levita e il forestiero.
La prima definizione della Messa era “fractio panis”, spezzare il pane. Il pane, più si spezza più si moltiplica. Più si tiene per sé, più si creano divisioni tra ricchi e poveri. Più ci si accaparra la terra facendo l’ingordo e l’egoista, più si viola ogni senso di giustizia. Lo vediamo oggi. L’America vuole tutto, la Russia occupa terre non sue, lo Stato d’Israele non permette ai palestinesi di avere un loro pezzo di terra.
E poi ci scandalizziamo se l’Apostolo Paolo, nella sua Lettera ai cristiani di Roma, scrive: «L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia». “Ira di Dio”: espressione appropriata, anche se forte, magari paradossale in bocca a Dio. E l’ira di Dio è da accogliere, testimoniando il nostro sdegno e la nostra volontà di potersi opporre alle ingiustizie anche con la forza. La pace richiede giustizia, e la giustizia non è distribuirsi le terre conquistate tra vincitori delinquenti e opportunisti sulla pelle dei vinti, vittime di soprusi che gridano vendetta o l’ira al cospetto di Dio.
Passiamo al terzo brano. Mi soffermo sulle due parole urlate da Cristo verso la tomba dove era stato sepolto Lazzaro: “Vieni fuori”.
«Vieni fuori!». Fuori da che cosa? Dalla tomba! Si viene “fuori” da una tomba per entrare nella vita. Si viene “fuori” dalla tomba di una carnalità putrefatta. In questa società carnale, il corpo è già morto! Eppure non ci accorgiamo, e ci sembra di vivere. Sta qui il dramma: credere di vivere, e siamo cadaveri.
«Vieni fuori!». Dunque, usciamo dalla carnalità putrefatta – anche se apparentemente dirompente, ma è tutta una finzione – per rientrare nella vita, che è dentro di noi. Siamo fuori di noi stessi, e “fuori” si è come in una tomba, e Cristo ci urla di uscire dalla tomba di una esistenza cadaverica per rientrare dentro di noi. Anche il cadavere di Cristo è uscito dalla tomba, ed è Risorto nella sua potenza divina. Non più come corpo, ma come Spirito. Ed è nello Spirito che noi possiamo risorgere, già ora, in questa travagliata esistenza.
Ogni religione è una struttura che nasce, vive e muore nel tempo, e perciò teme l’Eterno presente, che è Dio. Ogni struttura è in conflitto con l’Eterno presente. A prevalere è la struttura che è temporale, ovvero legata al tempo che passa.
La Chiesa, come ogni religione, ha tentato e tenta tuttora di spostare l’Eterno, che essa chiama vita eterna, dopo la morte fisica o dopo la fine di questo mondo. Qui sta l’inganno: far credere che la vita eterna sta nel “dopo tempo”.
Cristo, davanti alla tomba di Lazzaro, urla: «Vieni fuori!». Urlare davanti a un cadavere che senso può avere? Forse ce l’ha, sordi come siamo di fronte ad ogni richiamo; ma non basta urlare, se poi il cadavere riprende vita, ma rimane fasciato dalle bende.
In quell’urlo di Cristo: «Vieni fuori!», vedo un riferimento a quanto è scritto nel libro del Deuteronomio, quando Mosè invita i suoi a ricordare ai figli ciò che ha fatto il Signore, liberandoli dalla schiavitù egiziana: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente… ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci» (Dt 6,21-23).
“Venire fuori” dalla tomba, regno della morte, e “uscire” dalla schiavitù dell’Egitto richiamano la libertà. Credo che sia questo il significato della risurrezione di Lazzaro, un anticipo di quello che Cristo avrebbe poi fatto sulla croce, donandoci lo Spirito della Libertà.

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