Omelie 2018 di don Giorgio: SESTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

7 ottobre 2018: SESTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 45,20-24a; Ef 2,5c-13; Mt 20,1-16
Prima di soffermarmi sulla parabola di Gesù, non posso tralasciare di fare qualche riflessione sul primo brano, che fa parte del cosiddetto Secondo Isaia: un profeta anonimo vissuto negli anni successivi al 538 a.C., quando il re persiano Ciro, vinti i Babilonesi, aveva permesso agli Ebrei esuli a Babilonia di tornare nella terra dei padri, abbandonata nel 586 a.C., al momento della distruzione di Gerusalemme.
“I superstiti delle nazioni”
La cosa interessante del brano è l’invito rivolto dal Signore a tutti i “superstiti delle nazioni” (gli scampati delle guerre, coloro che sono riusciti a sopravvivere nelle grandi prove), perché si presentino all’appello di Dio e testimonino, come in un processo, le ragioni  del Bene e i torti del Male.
Dicendo “ragioni del Bene” e “torti del Male” forse esco da una visuale teologica degli eventi narrati nella Bibbia, ma già il testo dell’anonimo profeta intende allargare il discorso, oltre dunque la religiosità del popolo eletto, che si sentirà tanto eletto da chiudere agli altri popoli la possibilità di accostarsi al Dio dell’Alleanza.
Qui sarei tentato di chiarire che il più grosso sbaglio degli ebrei, ed è stato anche delle religioni monoteiste, non esclusa quella cattolica, consiste proprio nel ritenersi gli esclusivi detentori della rivelazione di Dio, quando invece, se Dio ha scelto un capostipite, lo ha fatto unicamente perché diventasse il portavoce del Dio Padre universale.
La Chiesa di Cristo, ad esempio, non è “cattolica” nel senso che deve includere entro la cerchia delle sue mura strutturali ogni abitante della terra. La sua vera missione consiste nell’annunciare al mondo la verità di un Dio che è all’interno, ovvero nel fondo di ogni essere umano, il quale poi sarà libero di appartenere a questa o a quest’altra struttura religiosa o, addirittura, di non appartenere a nessuna religione.
Lo scopo della Chiesa non è quella di fare proseliti, come del resto già Cristo aveva condannato il proselitismo ebraico. Lo scopo della Chiesa, casomai, è quello di convertire ogni uomo o donna perché riscopra quel mondo interiore, che è l’elemento costituivo di ogni essere umano.
Le ragioni del Bene e i torti del Male
Tornando all’espressione le “ragioni del Bene” e i “torti del Male”, possiamo chiederci in che cosa consista il Bene e in che cosa consista il Male, se vogliamo capire le ragioni del primo (il Bene) e i torti del secondo (il Male).
Forse bisognerebbe tenere qualche lezione di Filosofia antica e anche di Mistica medievale, ma credo che avremmo tra il pubblico neanche una decina di persone interessate all’argomento.
Eppure, è una questione di vita e di morte. Non parlo in senso fisico, ma nel senso più ontologico, ovvero di quell’essere umano che è il nostro vivere, se è tenuto sveglio, o il nostro morire, se lasciato addormentato.
Il Bene, dunque, non è qualcosa di esteriore al nostro essere interiore, e il Male agisce all’esterno del nostro essere, bloccando il nostro vivere interiore.
La parabola dei lavoratori a giornata
Passiamo al brano evangelico della parabola dei lavoratori a giornata. Una parabola che è stata variamente interpretata, ovvero letta da angolature diverse, anche nel senso sindacale. Immaginate la faccia di un sindacalista che interpretasse la parabola di Gesù applicandola al mondo del lavoro. Eppure, anche se l’intento di Gesù volava ben al di sopra di questioni strettamente sindacali, sono convinto che si potrebbero trovare spunti interessanti per scompaginare quel concetto rigidamente sindacale di rapporto “lavoro, lavoratore e compenso economico (la cosiddetta busta paga)”.
Non entro in questa discussione, che potrebbe comunque essere interessante, ma vorrei fare qualche personale osservazione.
Dico subito che questa parabola mi ha sempre colpito, per le parole con cui il padrone della vigna risponde ad uno degli operai della prima ora che contestava il fatto che anche gli operai dell’ultima prendessero la stessa paga: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?».
Allarghiamo il concetto di giustizia dal campo strettamente sindacale a quello della giustizia divina, e potremmo trovare anche le ragioni per cui, nei nostri rapporti di lavoro o sociali, qualcosa non funzioni o, meglio, funzioni ma in modo così strutturale da non permettere quelle relazioni profondamente umane che richiederebbero una visione ben più alta dell’essere umano.
Nella parabola c’è un aspetto che forse pochi hanno evidenziato o, meglio, avrebbero potuto e dovuto evidenziare con più forza, ed è il rapporto tra giustizia e bontà.
Sì, dire giustizia e dire bontà sono la stessa cosa, perché bontà deriva da bene, per cui tutto si deve svolgere nell’ambito del bene. Il bene ha diversi aspetti, che vanno al di là degli aspetti strettamente giuridici o sindacali, e al di là di quell’egoismo individualista per cui l’ego diventa il criterio di valutazione di ogni diritto (naturalmente il mio) e di ogni dovere (naturalmente quello degli altri).
Quando noi credenti parliamo di giustizia aggiungiamo anche la carità, ma purtroppo la carità viene solitamente intesa come qualcosa che dà un tocco di compassione. E la società non accetta un simile “pietoso” connubio: giustizia-carità, ma chiede e pretende che la giustizia sia strettamente giustizia, ovvero un dare per avere, ma mai un avere per dare.
Se invece di parlare di carità parlassimo di bene e dicessimo che la giustizia strettamente intesa come “dare per avere” non rispecchia il bene diciamo anche sociale, forse potremmo mettere qualche pulce nell’orecchio di tanta gente abituata a ben altri linguaggi, tipicamente individualisti.
Più l’egoismo trasforma la giustizia in un individualismo come isola sperduta nell’oceano, più necessita una educazione che metta in primo piano quel bene universale, che per noi credenti è un’emanazione del mondo del Divino.

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