L’EDITORIALE
di don Giorgio
Voce libera come alternativa a una pastorale del vuoto
Vorrei chiarire una cosa, e mi sento quasi costretto a farlo per evitare che si fraintenda qualche espressione, mia o di qualche amico/a che mi difende.
Senza l’intenzione alcuna di fare polemica, ma solo per chiarezza – questo è dialogare dialetticamente – vorrei dire che, quando lancio una sfida al vescovo di Milano, attualmente è Mario Delpini, invitandolo a dialogare con me, non è affatto un tentativo di cercare un compromesso, come se da parte mia ci fosse la proposta di rinunciare a qualcosa di mio, perché lui, il vescovo, a sua volta rinunciasse a qualcosa di suo.
Il dialogo di Gesù con la donna di samaritana mi è sempre di esempio, diciamo un paradigma di quel dialogare dialetticamente alla ricerca del Meglio, diciamo della Verità, che richiede un cammino progressivo, diciamo dialettico.
Mi spiego meglio. Se vorrei aiutare una persona in difficoltà, lo faccio non darle una mano a continuare nel suo sbaglio, ma per farla uscire dalla sua difficoltà o dal suo errore.
Qualcuno mi accuserà di essere un presuntuoso, fatelo pure, ma sono troppo convinto che la pastorale di Delpini non porta lontano, perché si è già arenata in una pastoia anche di buone intenzioni, ma di una tale contorsione mentale per cui, ogni volta che parla Delpini, lo sento fuori di quella spiritualità che è richiesta dal Vangelo più radicale.
Si aiutano le persone: a migliorare, non dando una mano se stanno facendo male una cosa, tanto più se la cosa è il regno di Dio, più terreno che spirituale.
Non aveva detto Cristo stesso che il suo regno è dentro di noi? Che significa “dentro di noi”? A Pilato cosa aveva risposto? “Il mio regno non è di questo mondo”, e per “mondo” intendeva qualcosa di tenebroso, di carnale.
Certo che ho un grande desiderio (presunzione?), ed è quello di convertire il vescovo milanese, perché possa rientrare in quel sé, dove attingere alla Sorgente divina.
Qualcuno vorrebbe convincermi che Delpini ha in realtà una sua profonda interiorità. Può farsi. Posso anche crederci. Ma dalle sue parole e dal suo modo di gestire la diocesi non sembra che traspaia tale spiritualità. Se uno è ricco dentro, non può tenere tale ricchezza per sé, e, quando agisce pastoralmente, non può tirar fuori il peggio del peggio.
Tale discrepanza tra l’interiorità eventuale e il proprio agire da pastore non è sopportabile, e mi fa dubitare se la spiritualità attinga alla Sorgente divina.
Ho sentito altri suoi interventi: li ascolto perché spero che migliori, ma nulla: proprio non ce la fa! O è tonto oppure il suo ego lo acceca.
Parlare a dei giovani e non caricarli di valori interiori è inconcepibile per un pastore d’anime (se posso usare tale terminologia). Rispondere alle loro domande anche intelligenti, con risposte poco intelligenti è assurdo per uno che è rivestito di un dovere, che è quello di educare puntando al Meglio, e il Meglio non è star fuori del proprio essere, con parole che scivolano via come su un pavimento di marmo.
Se i giovani accettano un confronto, ponendo domande intelligenti, come tradire le loro attese con risposte evasive, con quel suo modo di comunicare che non si capisce dove vorrebbe arrivare, forse perché non ha idee chiare, forse perché proprio manca di dialettica. E che cos’è la dialettica?
Senza scomodare Hegel con sua teoria della tesi, antitesi e sintesi (comunque, interessante e da tener presente), basterebbe meditare sul colloquio tra Gesù e la Samaritana: Gesù rispondeva alle domande di quella donna con altre provocatorie domande così da elevarla per farla scendere poi nel Pozzo del Mistero divino, per attingere quell’Acqua zampillante per la vita eterna, ovvero la Grazia.
Con quei giovani del Collegio San Carlo, in occasione della celebrazione di don Giovanni Barbareschi, Delpini rispondeva con poco mordente alle domande sulla libertà, sui regimi dittatoriali, ecc. ecc.
Non so se è timido perché teme ritorsioni quando parla di politica o di dittature. Per me ha idee confuse, superficiali, e dice cose diplomaticamente dissennate.
Già il fatto di avere una responsabilità pesa, ed è un cappello che copre verità scottanti.
Ne sapeva qualcosa anche Carlo M. Martini che parlava sì, ma non poteva essere ancora più chiaro.
Ogni santo quando era in vita aveva già come aureola un cappello sopra la testa che copriva l’intelletto divino.
È così. E quando la Chiesa poi, dopo secoli, vuole canonizzare un “eretico” da essa stessa condannato, subito gli mette sopra un cappello condannandolo per la seconda volta.
Ogni canonizzazione è una fregatura per il profeta. Meglio rimanere “spiriti liberi” per sempre per mantenere la propria libertà interiore.
Spero che Meister Eckhart resterà così com’è, senza avere un’aureola che faccia da cappello inibitorio.
07/10/2023
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