L’EDITORIALE
di don Giorgio
I preti milanesi soffrono
perché il loro vescovo non dimostra
alcuna paternità spirituale
Chi l’avrebbe detto che sulla figura, tanto ieratica quanto tradizionalista, come il cardinale di Genova, Giuseppe Siri, noto per il suo dogmatismo inflessibile, criticato e anche sbeffeggiato dai modernisti e innovatori, avrei cambiato idea, se non altro per la sua grande umanità verso i suoi preti?
E il libro, consigliatomi da un amico prete, “Paternità spirituale del card. Giuseppe Siri -Lettere personali ai suoi sacerdoti (1946-1987), a cura di Giulio Venturini, ed. Cantagalli”, è arrivato al momento giusto, ovvero quando, da anni ormai, si respira poco, se non pochissimo aria di umanità o di paternità nella Chiesa istituzionale. Mi riferisco in particolare alla mia diocesi.
Sì, sembra oggi particolarmente strano, se non impossibile sentir parlare di umanità nella Chiesa gerarchica, dove paradossalmente c’è anche tanto populismo, sotto versioni diverse e ingannevoli, ma ben poca paternità spirituale, ed è questa che conta, necessaria in momenti di tensioni, di contestazioni, di ribellioni, ed è facile, istintivo farsi prendere da parte dei vescovi atteggiamenti di chiusura, di irrigidimento destinati a creare allontanamenti o perdizioni dei “loro” preti, ridotti a stracci, anche disperati, addirittura “fuori di testa”. Potrei fare esempi. Il cardinale Giovanni Colombo viveva di paura, anche perché come cardinale di Milano era capitato male, nel tempo sbagliato, nel luogo sbagliato: erano gli anni del ’68. Me lo ricordo ancora quando si arrabbiava, rosso in faccia urlando contro i preti dissidenti, in particolare contro i preti operai. Scene che non dimenticherò mai. Anche nei miei riguardi. Anche se in buona fede Colombo distrusse la personalità e anche la vocazione di numerosi preti. Ci volle poi un cardinale come Martini, successore di Colombo, perché si ricucisse il rapporto umano tra il pastore e i preti: ma già alcuni preti erano finiti male. Poi arrivò il cardinale Tettamanzi, e l’aria divenne ancor più respirabile. Ma si sa, attorno ad ogni cardinale, anche santo, c’è sempre un giro di segretari che vogliono fare il cane da guardia, quasi a difendere l’inetto padrone dai figli dissacratori. Poi venne il cardinale Scola, e tutto si chiuse, i preti ebbero di nuovo problemi a causa di un pastore per nulla paterno. E la cosa si aggravò con l’arrivo di Delpini, una autentica mummia asessuata, perciò senza alcun sentimento verso i suoi preti.
Ora, leggere il libro su Giuseppe Siri, in cui si eleva la sua paternità spirituale verso i suoi preti, mi fa star meglio, come se ciò mi ridesse fiducia in una prossima Chiesa gerarchica dove la paternità prevalga sulle rigidità istituzionali.
Mi limiterò a citare alcuni giudizi, sufficienti per farcene una idea: sotto una scorza dogmatica c’era un grande cuore, a differenza di chi fa il populista, e poi trascura i primi elementari rapporti umani.
Mons. Mario Grone, che fu l’ultimo segretario del Cardinale Giuseppe Siri, nel suo libro “Accanto al mio Cardinale Giuseppe Siri”, ha ricordato:
«Nell’esercizio della paternità verso i suoi sacerdoti, l’Arcivescovo non si lasciava andare a gesti particolarmente espansivi. Non ne sarebbe stato capace; il suo stile era diverso, tutto suo, inconfondibile, caratterizzato da un comportamento riservato, dignitoso e controllato.
Considerava i preti come «la luce dei suoi occhi» prendeva cura di loro con grandissima tenerezza, nella consueta discrezione. Lo sapevano bene gli interessati, alcuni dei quali ebbero in proposito espressi quanto mai significative. Proverbiale e più volte ricordata quella di uno stimato docente di Teologia: “Se il Cardinale non avesse tanto cuore quanta intelligenza sarebbe un mostro; ma mostro non è!”, e quella di un parroco che aveva avuto modo di frequentarlo assiduamente: “Forse non lo abbiamo capito, ma ci ha voluto un bene immenso. Non lo dava da vedere, non permetteva che tu glielo dicessi, ma alla fine ti accorgevi che un reciproco amore ci legava».
Si trattava di un amore autentico, grande e nobile, vissuto nel profondo e partecipato attraverso le sublimi e misteriose vie dello spirito. Il suo amore si traduceva in gesti di delicatezza, in atteggiamenti ispirati a comprensione, fiducia e perdono. Nelle maggiori solennità dell’anno era solito invitare a pranzo un certo numero di sacerdoti i quali, non circondati da parenti o amici, avrebbero consumato il loro pasto in solitudine. Perché il clima di festa fosse autentico desiderava che il pranzo venisse preparato con particolare cura. Sedendo a tavola insieme con il loro Arcivescovo gli invitati avrebbero gustato un buon cibo, ma soprattutto un clima di autentica fraternità, con soddisfazione di tutti, a cominciare dal loro illustre ospite.
Non desta certo meraviglia sapere che con generosità venisse in soccorso dei sacerdoti che versavano in difficoltà economiche, ma era il modo con cui compiva tale gesto a toccare nell’intimo. Non faceva la carità “dal balcone” (espressione da lui usata per disapprovare coloro che si degnavano di aiutare i bisognosi facendo piovere dall’alto il loro gesto di beneficenza) ma, attenendosi all’insegnamento di Cristo: “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra», preferiva intervenire indirettamente e con espedienti talvolta singolari, affinché non fosse scoperta la fonde del gesto benefico e nessuno avesse a sentirsi umiliato.
Cuore di padre, l’Arcivescovo sapeva comprendere, scusare e non raramente difendere coloro che con fiducia gli aprivano il loro animo.
È profondamente vero quanto ebbe a scrivere il dott. Umberto Bassi in un articolo apparso su «Il Lavoro» il 3 febbraio 1989: “Questa roccia tenerissima non sempre ha conosciuto gli uomini e c’è stato chi ne ha approfittato”; ma il criterio che lo guidava era questo: “È meglio passare cento volte per stupidi, che una sola volta per ingiusti!”.
Qualcuno lo pensava n ingenuo. Non dice però san Paolo che “la carità tutto crede, tutto spera”? Un padre e una madre che non ammettono la colpevolezza di un loro figlio o che, comunque, non perdono la fiducia in lui sono semplicemente ingenui o autenticamente buoni?
Il Cardinale era troppo intelligente per non capire i problemi. Diverse, secondo le circostanze, erano le strade scelte per risolverli: quella della «testa» per combattere l’errore; quella del «cuore» per ricondurre il fratello sulla retta via. In questa luce, si comprende come l’Arcivescovo ebbe ad interessarsi, anche a livello nazionale e sempre con paterna dedizione, di non pochi casi dei sacerdoti in crisi o in situazioni morali particolarmente delicate».
Attento alle condizioni sanitarie e finanziarie dei suoi sacerdoti, interviene con donazioni, anche cospicue, talora anonimamente, per emergenze personali e pastorali, quasi giustificandosi: «è legittimo che un padre si preoccupi sempre dell’avvenire dei figli».
Tipica la chiusura delle missive, con invito pressante: “vieni”; “fatti vedere”; “scrivi”.
Un Pastore sempre fiducioso nei buoni propositi dei suoi sacerdoti.
Mai sospettoso. Sempre pronto a scusare, cogliendo e vagliando le cause di difficoltà o di malesseri, affioranti dalle situazioni psicologiche o ambientali.
Sullo sfondo del suo pensiero, il riferimento, talora esplicito, a due lettere pastorali specifiche: Sacerdozio secondo il Vangelo (Giovedì Santo 1962) e Distribuzione razionale del lavoro nel clero parrocchiale (1luglio 1962).
Partecipando al Sinodo dei Vescovi del 1977, sulla formazione del clero, esortava i Confratelli:
«Occorre facilitare in ogni modo i colloqui col proprio Clero in tutti i giorni liberi da solennità.
Queste udienze debbono avere la virtù della pazienza e della umiltà.
In esse, se reazioni occorrono, sì rimandino: non si sbaglierà mai.
Mai umiliare nessuno, lodare fin che si può, curare i termini perché non debordino mai, quando si deve fare una osservazione.
Lasciar parlare senza assumere arie di sopportazione e di sufficienza, senza alcuna fretta. Essere parchi, ma precisi nei consigli ascetici, che possibilmente non debbono mancare.
Non dire ad altri – qualunque sia il loro grado di collaborazione – quello che si è appreso nei colloqui coi sacerdoti, a meno che non ci sia una ragione di ufficio o di pratica da svolgere. Rispondere sempre e subito alle lettere del proprio Clero, possibilmente scrivendosele di persona.
Non lasciar passare nessuna anche piccola colpa, ma, data la attestazione della presenza a quanto accade, essere di grande misericordia e bontà.
Esser vicini a tutti i lutti e a tutte le liete circostanze dei propri sacerdoti, visitarli sempre se ammalati ed assicurarsi di persona che loro manchi nulla.
La formazione la si potrà ulteriormente favorire con corsi, ritiri, ma la vera formazione la dà il Vescovo sacrificando se stesso, per essere sempre padre, inalterabilmente.
La burocrazia ha la sua parte, ma la parte principale tocca allo spirito e, in esso, alla virtù.
Un Vescovo non può mai vendicarsi e deve stare attento a non essere guidato, in nulla, dalle proprie simpatie od antipatie. Purtroppo molti Vescovi non fanno così e credono di salvare tutto con gesti pubblicitari, con posizioni oltranziste. Sbagliano».
Mi fermo qui. Credo che qualche idea ci siamo fatti della paternità spirituale del cardinale Giuseppe Siri, e di quanto siano ben lontano i vescovi di oggi: forse qualcuno si salva, non certo l’attuale arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che fa di tutto per apparire un pastore senza emozioni, senza cuore, senza paternità. Talora mi faccio un esame di coscienza: non è che sia prevenuto oppure lo giudico male perché faccio di tutto per rifiutarlo? Ma quando sento alcuni preti, quelli che riesco ancora ad avvicinare, che anche loro si lamentano, perché hanno un vescovo senza paternità, allora, più che un conforto (male comune mezzo gaudio!), mi chiedo il perché abbiamo un vescovo che non si renda conto dell’insofferenza del suo clero, e continui a fare la trottola impazzita.
Un rigurgito di umiltà! Riconosca di essere incapace di emozioni umane, e che è giunto il momento di lasciare.

08/02/2025
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