Omelie 2023 di don Giorgio: SESTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

8 ottobre 2023: SESTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Gb 1,13-21; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10
Il libro di Giobbe è considerato uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi, e può essere anche definito come il testo più “squisitamente filosofico” dell’Antico Testamento, nonché uno dei più affascinanti per contenuto, profondità e livello letterario dell’intera Bibbia. In breve, è la storia di una famiglia felice, sulla quale si abbatte la bufera di una serie impressionante di sciagure, che lasciano inebetito su un cumulo di immondizie il protagonista, che secondo i critici era uno sceicco orientale non ebreo.
Dopo un lungo travaglio tra dubbi e accuse nei riguardi di Dio e nei riguardi dello stesso Giobbe da parte di alcuni suoi amici che ragionavano secondo antiche concezioni della giustizia e della retribuzione (tu sei punito o premiato da Dio per ciò che hai commesso di bene o di male), Giobbe alla fine trova la soluzione al problema del male, che tocca anche l’innocente: in breve, Dio è il Bene Assoluto che però è Misterioso nel suo volere; bisogna credere in Dio ciecamente, senza discutere; le sue ragioni sono al di sopra delle nostre capacità intellettive.
Ed ecco le parole di Giobbe: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
È interessante sottolineare la distinzione che Giobbe fa tra il sentire (o l’ascoltare) e il vedere. “Io ti conoscevo solo per sentito dire”, confessa Giobbe. Naturalmente si riferiva alle parole degli amici, più o meno falsi, o a quel modo tutto umano di pensare Dio.
Noi crediamo di sapere qualcosa di Dio, per sentito dire, ascoltando più voci, quelle che magari ci fanno comodo. Ma ci sono anche voci che feriscono la nostra fede, che, se è ancora vacillante, va in crisi.
Tutti oggi parlano di Dio, anche coloro che dicono di non credere in Dio. Dicono la loro, e così siamo immersi in una marea di opinioni, di supposizioni, di credenze, di dicerie più o meno strampalate su Dio e la religione. Già prendere il cristianesimo come una religione, siamo già sballottati fuori del pensiero di Cristo, e l’inganno miete vittime soprattutto tra i cristiani, i quali sono convinti di essere membri e seguaci di una religione, tra l’altro ritenuta l’unica autentica, e il danno è ancora maggiore.
Possiamo parlare di “bailamme religioso o anti-religioso”, per cui, come dice la parola bailamme, è una babele, una confusione, un pandemonio, uno strepito di parole, di gesti, di suoni così assordanti da stordirci le orecchie.
Giobbe è passato dalla conoscenza per sentito dire alla visione di Dio tramite gli occhi dello spirito. Dalla conoscenza per orecchie Giobbe dopo un lungo percorso giunge alla visione mistica. “Ora i miei occhi ti hanno veduto”.
Noi parliamo di Parola di Dio come se fosse un suono o una voce fisica, o qualcosa di emozionale: sentiamo, ascoltiamo dall’esterno, e così veniamo a conoscere, ma che cosa conosciamo? Sì, “che cosa”?
Non sono le parole che ci fanno vedere Dio, ma il nostro intelletto, che valuta, saggia, setaccia quel mondo di inutili parole che talora possono ferire le nostre orecchie.
E così Giobbe riconosce di aver capito di non aver capito nulla: confessa di essersi perso in un labirinto di ragionamenti vacui, vuoti, senza senso.
Possiamo parlare di un Giobbe filosofo, che ricorda la sapienza di Socrate. Giobbe apre finalmente gli occhi, scoprendo e riconoscendo la sua “piccolezza” di fronte al suo Dio. Si è nascosto in sé, per dare spazio all’immenso Dio.
La Chiesa parla di umiltà come virtù, ma intendendola come sottomissione a un dio religioso, imposto come un ente che solo la Chiesa sa decifrare, però a modo suo, ovvero come un ente, un qualcosa da adorare. Ecco l’idolatria, che gli antichi profeti condannavano, ma che oggi nessun profeta condanna.
Umiltà è riconoscersi piccolo, tanto piccolo che il proprio ego scompare nel nulla, per dare spazio all’infinito, che è Dio, come Sommo Bene.
Se è Bene Sommo o Assoluto non c’è ragionamento umano che tenga, che abbia senso: Il Bene Assoluto non ammette diritti, ma solo doveri. I nostri diritti umani davanti al Bene Sommo scompaiono, devono scomparire nel dovere di contemplarlo in una fede sempre più pura.
Ma attenzione: questo non significa che dobbiamo a occhi chiusi subire accettando tutto ciò che è ingiusto su questa terra. E anche qui, prima dei diritti, ci sono i doveri in nome di quella giustizia che ci impone di lavorare per sradicare la zizzania, in ogni campo, sociale, politico e religioso: ma, ecco il punto, si lavora, anche duramente, arando la terra incolta o un deserto di sabbia cotta dal sole, sapendo, ecco la Fede, che ogni nostro gesto è permettere al seme sotterrato di riemergere e di crescere, senza porci tante domande che vorrebbero mettere sotto accusa Dio.
Siamo noi gli artefici del male: un male che ricade anche sugli innocenti, e sui giusti costretti a subire angherie per colpa di una società corrotta, e la cosa assurda, lo ripeto, è assistere o, meglio, trovarci in mezzo a una lotta (quando c’è), per far valere solo diritti, che poi, nella maggioranza dei casi, vanno a togliere o a dimenticare i doveri.
Un’ultima riflessione sulle parole di Giobbe all’inizio del dramma: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore».
Parole che possono avere diverse interpretazioni. Do la mia. Siamo nati fisicamente nudi. Ci hanno messo un vestitino subito dopo la nascita, e il nostro corpo crescendo verrà coperto di altri vestiti, di ogni genere, e, al di là della carnalità di un vestito più o meno di marca, pensiamo alle strutture imposte da un ego mai sazio di vestirci per denudarci della nostra essenzialità che è senza vestito.
Il Signore ci ha dato la vita, e ci ha tolto quel superfluo che ci ha tolto la vita.
Nel terzo brano della Messa Gesù ci dice che dobbiamo essere “servi inutili”, ovvero senza pretese, senza diritti, senza quel sapere, potere e avere che sono gonfi di orgoglio, per vivere di essenzialità, anche fisica, se vogliamo essere figli di Colui che non ci vuole schiavi ma al servizio del Bene Sommo, che non vuole nessun condizionamento di figli degeneri.
Certo, dire oggi che dobbiamo essere “servi inutili”, credo che sarebbe una provocazione da querela.

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