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05 Giugno 2023
Cronache da Pulitzer.
Impagnatiello, la nascita della privacy,
la morte della deontologia
di Mattia Feltri
Centotrent’anni fa, contro il far west dei giornali di Pulitzer e Hearst, due giuristi definirono la privacy. Anche noi l’abbiamo codificata e poi buttata nel cestino. Una perfetta alleanza di mercato fra produttore, distributore e consumatore
Nel 1890 uscì sull’Harward Law Review un saggio a firma di due giuristi, Luis Brandeis e Samuel Warren, intitolato “The Right to Privacy”, il diritto alla privacy. Warren partiva da una questione privata e non la dissimulava: il matrimonio della figlia di cui i giornali avevano dato conto con la sfrenatezza cui erano soliti, e in particolare riportando il giudizio molto brusco dato nel corso della cerimonia da uno dei parenti della sposa su uno dei parenti dello sposo, o viceversa, non ricordo più, ma non è importante. Brandeis e Warren teorizzarono il diritto “To Be Let Alone”, di essere lasciati soli, o meglio: lasciati in pace. E più precisamente il diritto non soltanto “di impedire che della propria vita privata si offra un ritratto non veritiero, ma di impedire che questo ritratto sia in alcun modo eseguito”. Cioè: non era importante che il giudizio fosse stato pronunciato oppure no, ma che un fatto privato fosse stato reso pubblico.
Il loro problema – cito da “Il diritto nell’età dell’informazione” di Ugo Pagallo – è che la giurisprudenza si era fin lì occupata di tutelare i cittadini da atti violenti contro la persona e i suoi beni, e un articolo non era equiparabile a una randellata in testa. Anzi: solo la randellata in testa era atto violento. Ma per Brandeis e Warren i diritti non sono codificati una volta per sempre: se ne aggiungono di nuovi col mutare delle sensibilità e l’evolvere della tecnologia. Un articolo di giornale, in tempi in cui di giornali se ne vendevano a tonnellate, era contundente quanto e più di un randello.
Uno degli aspetti divertenti, diciamo così, è che l’articolo sulla figlia di Warren era uscito sul New York World, di proprietà di Joseph Pulitzer, a cui dobbiamo la più antica scuola di giornalismo, alla Columbia University, e il più importante premio giornalistico. Molto meritorio, senz’altro, ma l’eccellente opinione attuale su Pulitzer non era condivisa dai contemporanei, perché in quegli anni di fine Ottocento se le dava di santa ragione col grande rivale William Randolph Hearst – ispiratore di Orson Welles per Quarto potere. Hearst era l’editore del New York Journal, e contendeva a Pulitzer il primato in fatto di vendite, un duello combattuto con le armi del sensazionalismo e del cinismo e su un terreno ancora senza regole. Mi tocca aggiungere un ultimo dettaglio, molto illuminante su Pulitzer: editore geniale, aveva trasformato i giornali imponendo uno stile narrativo ispirato alla prosa di Charles Dickens, di modo che l’informazione fosse pure intrattenimento, e fosse attraente anche per la popolazione meno istruita. Finché l’intrattenimento non cominciò a prevalere sull’informazione. E lì arriva il saggio di Brandeis e Warren.
Un centinaio di anni più tardi, siamo nell’Italia del 1997, si approva il “Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”. Prima di indugiare in qualche dettaglio, vorrei ricordare le esibite commozioni, lo scorso 30 maggio, al novantesimo anniversario della nascita di Stefano Rodotà che, da garante della privacy, in quel 1997 fu protagonista nell’adozione del codice scritto con l’Ordine dei giornalisti. “Ah, quanto ci manchi”, è stato scritto da bravi giornalisti in memoria di Rodotà, morto il 23 giugno del 2017. Ma che si deve pensare di un giornalismo nostalgico di Rodotà mentre ignora o contravviene quotidianamente quanto è stato scritto da Rodotà e dall’Ordine dei giornalisti – che intanto fischietta – ventisei anni fa?
All’articolo 5 si legge: “Il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti”. All’articolo 6: “La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile anche in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”.
Secondo voi – propongo un solo esempio – pubblicare le chat, in riquadri festosamente colorati, fra una donna morta ammazzata e il suo assassino, è rubricabile sotto il titolo “essenzialità dell’informazione”? E pubblicarle era “indispensabile anche in ragione dell’originalità del fatto”? Voglio dire: informarci sugli scambi WhatsApp fra Giulia e Alessandro poche ore prima che Alessandro ammazzasse Giulia, aggiunge qualche cosa a un racconto giustificato dall’interesse pubblico? Violare un atto così intimo, così privato, su cui una povera donna uccisa a coltellate più nulla può eccepire, è informazione essenziale?
Da non so quanti giorni siamo sommersi da un profluvio di dettagli compiaciuti e morbosetti, e pure da commenti sulla cui legittimità nulla c’è da eccepire. Il nostro bel Codice deontologico garantisce a tutti, in comunione con la Carta costituzionale, libertà di parola e di pensiero, e quindi è solamente un problema mio se non capisco dove voglia andare a parare un opinionista intento a dirci che Impagnatiello è un mostro, mentre un altro rettifica, è molto mostro, è mostrissimo, aggiunge il terzo, e poi arriva il filosofo a domandarsi, dall’alto degli studi del pensiero, come diavolo l’assassino sia stato educato da sua madre, e cioè è un problema mio se non capisco perché uno dovrebbe scomodarsi con giornali e talk per imbattersi in giudizi già pronunciati in birreria. Quanto ci è stato inutile leggere e amare e glorificare Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij?
Pulitzer aveva compreso in quale meccanismo infernale si era infilato, ed è nota la sua sentenza: “Una stampa cinica e mercenaria prima o poi creerà un pubblico ignobile”. Soltanto, non so se sia nato prima l’uovo o la gallina, perché mi pare una perfetta armonia di interessi, fra lettori affamati di brivido, giornalisti entusiasti di spacciarglielo, e inquirenti alla grande distribuzione. La macchina dell’intrattenimento funziona alla grande, tutti felici, le poche vittime ridotte al silenzio dalla massa d’urto, o dalla morte, come la povera Giulia.
Ps. Nessuno è innocente: di questa storia anche noi abbiamo pubblicato notizie troppo frettolosamente e senza prima porci le giuste domande. Avere evitato l’enfasi non ci assolve dalla colpa. Me ne dispiaccio e chiedo scusa.
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