“Io al mio popolo gli ho tolto la pace…”

L’EDITORIALE
di don Giorgio

“Io al mio popolo gli ho tolto la pace…”

Parlando con quei pochi amici con cui riesco ancora ad avere un contatto, dopo le solite mormorazioni per questo e per quest’altro che non va, comprese lamentele su una chiesa allo sbando, alla fine riesco sempre a dire ancora: “Io non mollo, vorrei sempre dire ciò che penso, e lottare nel mio piccolo, sempre comunque con uno sguardo a quanto capita nel mondo!.
Forse non sono un tizio che amerebbe vivere nella quiete, tanto più se la quiete fosse quella apparente pace per una guerra fredda, quando i cannoni tacciono perché l’uno ha paura dell’altro, e si temono coprendo le proprie paure.
Se Cristo è venuto non per portare la pace, ma una spada, ci chiediamo come intendere evangelicamente le parole “pace” e “spada”.
E allora di che pace parla il Signore? Non certo della pace come la intendiamo noi, perché altrimenti non avrebbe portato la spada. E perché dice che lui è il portatore della spada? Proprio la parola “spada” contiene il segreto per intendere anche la parola “pace”.
Mentre Matteo usa la parola “spada”, Luca parla di “divisione”. Possiamo dire allora che si tratta di una “spada che divide”.
Non sto qui a elencare tutte le varie interpretazioni, più o meno accomodanti di esegeti o di commentatori che preferiscono accarezzare o lisciare le parole di Cristo.
Vorrei solo riportare ciò che ha scritto don Lorenzo Milani, parlando della propria esperienza tra la “propria” gente. Era cosciente che fare l’educatore fosse un segno di contraddizione, come lo era stato per lo stesso Cristo.
In una magnifica pagina di “Esperienze Pastorali”, un testo di sociologia religiosa stampato nel 1958, dove don Lorenzo rilegge i sette anni trascorsi a San Donato di Calenzano, scrive cosi:
“Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo. Nel popolo di quel mio amico (escluso il periodo strettamente elettorale) si battaglia accanitamente solo per Coppi e per Bartali. Nel mio si battaglia pro o contro un metodo di apostolato, un modo di fare il prete o di affrontare una questione morale o sindacale. Quel mio amico secondo me insegna poco e a pochi, io invece avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco”.
Due parole: tensione, rigore. Sta qui, soprattutto, la “scomodità” di don Milani che ancora oggi darebbe fastidio se si comportasse come educatore allo stesso modo di allora, in qualsiasi parrocchia del mondo. Ma oggi don Milani è stato annacquato tirandolo da una parte e dall’altra, senza capirne lo spirito evangelico che lo aveva animato negli anni del suo apostolato, prima a Calenzano e poi a Barbiana.
Si tradisce don Milani ogniqualvolta lo addomestichiamo. Sarà sempre scomodo, tanto più oggi: se don Lorenzo fosse qui, darebbe ancora più voce alla radicalità evangelica, visto che di Cristo è rimasto neppure l’ombra, nella stessa gerarchia e tra le comunità cosiddette cristiane.
Fisicamente qui o no, don Milani è sempre lo stesso: uno che, come è stato Cristo, “misura i nostri ritardi, i nostri compromessi che, a poco a poco, abbiamo chiamato mediazioni, i nostri opportunismi che abbiamo elevato sempre più a necessari. Una scomodità che proviene dalla sua dedizione radicale, consumata senza un attimo di sosta fino alla morte”.
E allora perché scandalizzarsi se un prete si rende “pietra d’inciampo”, che scandalizza proprio perché urta l’opinione pubblica omologata sullo standard di una convenienza sociale che ha tolto ogni radice che affonda nell’essere.
Oggi a urtare non sono i preti ballerini, o che danno spettacolo anche dissacrante sull’altare. Urtano i preti che prendono sul serio il Vangelo, nella sua radicalità.
Il ministro di Cristo non si diverte a dividere il paese, ma se lo divide è perché è una spada a doppio taglio: separa il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia.
Capitava di sentire qualcuno tra i miei parrocchiani di Monte: “Vengo in chiesa per cercare un po’ di pace, e il prete non fa altro che scombussolarmi l’anima…”. Ero in fondo contento quando l’omelia diventava anche a casa motivo di discussione.
In realtà il cristiano di oggi quale pace vuole? Chiudersi in un piccolo angolo, e avere le massime soddisfazioni emotive e anche carnali. Irrita un prete che fa discutere, che ci mette in crisi, che ci fa sentire talora un verme.
Ma succede come quando si andava a scuola, e si trovavano professori severi, che insegnavano da veri maestri esigenti. Li ritenevamo troppo esigenti. Dopo anni e anni, ricordiamo ancora, ringraziando quei professori, mentre abbiamo dimenticato perfino il nome di altri professori del tutto accondiscendenti, con un fare da buonista.
Concludo, citando un brano che fa parte della Prefazione a “Esperienze pastorali”, scritta da monsignor Giuseppe D’Avack, arcivescovo di Camerino.
«Il suo lavoro, caro don Lorenzo, mi richiama un episodio di venti anni fa, con Pio XI. Mi aveva fatto un pacato e delicato accenno di rimprovero; ma poi, con quella sua squisita finezza di carità soprannaturale, mi fece un lungo discorso, inteso a spiegare il rimprovero, ed a… corroborare il rimproverato di fronte ai suoi collaboratori; e concludeva: “… perché, vede? sant’Ignazio, che di passioni se ne intendeva, ha una magnifica pagina in cui dice che tutte le passioni si devono reprimere, ma dell’irascibile un poco bisogna conservarlo”; per noi e per quelli che ci devono ascoltare. Lei (don Lorenzo) ha fatto così. Mi parte dunque che stia in buona compagnia».
11 gennaio 2025
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