Omelie 2023 di don Giorgio: Penultima dopo l’Epifania

12 febbraio 2023: Penultima dopo l’Epifania
Bar 1,15a.2,9-15a; Rm 7,1-6a; Gv 8,1-11
Mai, o quasi mai, quando spiego i brani della Messa, vado a rileggere i commenti precedenti sugli stessi brani. Tuttavia, talora faccio qualche eccezione, come nel caso del terzo brano della Messa di oggi. Trattandosi di ricerche esegetiche, inerenti al testo del brano e ad una vicenda un po’ singolare, mi rifaccio a ciò che ho detto nel passato.
Secondo gli studiosi, il brano sarebbe stato inserito nel quarto Vangelo, ma non rispecchierebbe lo stile dell’autore. In breve, questa pagina è fuori posto. In alcuni manoscritti antichi compare addirittura nel Vangelo secondo Luca. Ma c’è di più. Nei primi secoli l’episodio non è stato accettato dalla Chiesa ufficiale, fino a quando san Gerolamo non l’ha inserito nella sua traduzione latina della Bibbia (tra il IV e il V secolo dopo Cristo). Perché è successo questo? L’episodio dell’adultera faceva così tanto paura? A causa della rigida disciplina ecclesiastica allora vigente a proposito della colpa di adulterio, la Chiesa gerarchica dei primi secoli temette che il comportamento di Gesù potesse essere frainteso. Per evitare equivoci, il brano è stato tolto dal Vangelo.
Una breve riflessione. Così dicevo in una omelia di 9 anni fa, precisamente il 23 febbraio del 2014: “Oggi potremmo anche sorridere davanti a questo atteggiamento censorio della Chiesa, ma non sorridiamo troppo: la Chiesa, fino ad oggi, ha interpretato un po’ a modo suo la Parola di Dio. I Vangeli, ad esempio, sono una prova di interpretazioni ai fini ecclesiastici di parole e di fatti di Gesù, che perciò non corrispondono esattamente a quanto Gesù avrebbe detto o avrebbe fatto. Ecco perché insisto nel dire che bisogna tornare alla radicalità del Vangelo: radicalità non vuol dire estremismo, ma significa tornare alle radici, alle origini, alla fonte genuina. Un conto è bere l’acqua alla sorgente, un conto è bere l’acqua, dopo che si è inquinata percorrendo chilometri e chilometri di strada, tra boschi e prati. Ma la Chiesa non ha aspettato troppo tempo: fin dall’inizio si è preoccupata di incanalare l’acqua sorgiva a modo suo”.
Soffermiamoci ora sul primo brano, tolto dal libro di Baruc, un profeta già dal nome un po’ strano e poco conosciuto anche da parte degli stessi cristiani. In breve, Baruc è stato il segretario del profeta Geremia, il quale è vissuto tra il VII e il VI sec. a.C., esercitando la vocazione profetica durante il regno degli ultimi re di Giuda, assistendo così alla rovina di Gerusalemme, consumatasi nel 586 a.C., sotto l’incombere delle armate babilonesi.
Il primo versetto del brano introduce ciò che gli studiosi chiamano “preghiera penitenziale”: era una pubblica confessione dei peccati che faceva parte della celebrazione comunitaria secondo delle date ben stabilite, ovvero: nel “giorno di festa” e negli “altri giorni opportuni”. Come si svolgeva? Tutto il popolo – re, capi, sacerdoti, profeti, padri e figli, quindi nessuno escluso – si sentiva solidale nella colpa, ancor più odiosa perché era la risposta ingrata ai gesti d’amore e di salvezza da Jahvè, così era chiamato il Dio d’Israele.
Specifichiamo meglio: il movimento di questa supplica penitenziale era duplice: da un lato, si evocavano gli interventi divini, a partire dalla liberazione dalla schiavitù egiziana; dall’altro lato, si ripeteva la risposta ostinata di Israele al suo Dio, una risposta intessuta solo di ingratitudine verso di Lui e di infedeltà, cioè di idolatria e di ingiustizia.
Vorrei chiarire, facendo qualche riflessione che ritengo importante.
L’antico popolo ebraico dava un’enorme importanza alle pubbliche preghiere penitenziali con relative pubbliche confessioni dei peccati. Non credo che nelle liturgie di quei tempi fossero contemplate le confessioni individuali o private. Qui vorrei fare un aggancio alla nostra confessione (o riconciliazione), uno dei sacramenti più controversi per quanto riguarda il suo sviluppo diciamo liturgico o rituale, passando solo in seguito, dopo secoli, dalla confessione comunitaria alla confessione individuale. E si è dimenticato, cosa gravissima, dell’atto penitenziale che ancora oggi è all’inizio della celebrazione eucaristica; atto penitenziale con cui vengono assolti, ovvero perdonati da Dio, tutti i peccati cosiddetti veniali. Questo per dire una cosa, tra altre: lungo i secoli nella Chiesa si è perso il valore comunitario da intendere in senso solidaristico del fatto di essere un popolo. Si è data una estrema importanza all’individuo, dimenticando il suo aspetto sociale o comunitario.
L’avete notato: tutto il popolo, compresi re, capi, sacerdoti, profeti ecc., faceva insieme penitenza: il vero peccato è sì anche quello del singolo, ma ha sempre un risvolto sociale che non si può trascurare. Una volta si parlava di colpevolezza “in solido”: ogni mio gesto coinvolge altri. Pensate alla guerra, che è la conseguenza di un male che si è ramificato nella coscienza singola di tutti. Messi insieme i peccati dei singoli, si crea una mentalità che diventa come una miccia. Talora ci si giustifica dicendo: “Tutti fanno così, e perché io non dovrei farlo?”, dimenticando che nel “tutti fanno così” ci sono già anche io.
Una cosa andrebbe detta: a confessare i peccati è stata sempre la povera gente, mentre re e potenti, compresa la Chiesa istituzionale, creando tutta una serie di peccati (talora inventati di sana pianta!), diventata una ossessione in certi periodi storici medievali (c’erano elenchi così lunghi e complessi di peccati che il confessore aveva in mano un manuale scritto da consultare per imporre ad ogni singolo peccato una propria penitenza), e così si creava una distorsione della coscienza, con una sudditanza anche psicologica: più peccati, più sudditanza. Perché dimenticare ciò che Cristo ha fatto, eliminando tutti i precetti, erano 613, tra positivi e negativi, riducendoli a un solo comandamento?
Un’altra cosa da evidenziale: nelle pubbliche confessioni dei peccati, che troviamo nella Bibbia non c’è mai, dico mai, un accenno a qualche alibi o giustificazione da parte del popolo pentito. Se leggete l’inizio del versetto 15 trovate queste parole: “Direte dunque: Al Signore, nostro Dio, la giustizia; a noi, invece, il disonore del volto…”.
Ho confessato anche io tantissimo nel mio ministero pastorale: la mia stizza era quando venivano persone a confessarsi giustificandosi o accusando gli altri.
Ultima cosa: il sacramento della confessione non è, non dovrebbe essere un elenco talora allucinante di peccati da confessare, da togliere al momento con l’assoluzione del prete. La cosa da non dimenticai mai è la conversione interiore.
Se la Chiesa istituzionale ha sbagliato creando tutta una serie quasi infinita di peccati per legare la coscienza dei singoli al bisogno di confessarsi, lasciando poi la coscienza ancora distorta, la conversione di cui parlava Cristo puntava all’essenza, che richiedeva solo una cosa: una coscienza libera, attraverso il distacco dalle cose. Sta qui il punto fondamentale. Che cosa significa togliere i singoli peccati di volta in volta, se poi la coscienza resta com’era prima? La conversione punta all’interiorità del nostro essere, per purificarlo così da accogliere in pienezza il mondo dello Spirito. Più purifico il mio essere, meno compirò manchevolezze.

1 Commento

  1. Martina ha detto:

    GRAZIE don Giorgio.
    Sei colui che apre in un mondo chiuso.
    Porti la Luce in un mondo di tenebre, e per questo, non vieni capito.
    Fai tutto senza perché… cioè senza mezzi fini.
    come sempre bellissima anche questa tua omelia.
    Si parte e ci si eleva.
    Grazie, aiuti a svelare ciò che è nascosto.

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