L’EDITORIALE
di don Giorgio
Dico la mia
sul Sinodo e sulle comunità profetiche
La tentazione c’è che anch’io dica qualcosa sul fallimento almeno temporaneo del Sinodo, che doveva concludersi giorni fa con l’approvazione da parte dei Delegati (un migliaio?) delle 50 Proposizioni “imposte” in una formulazione che è stata ritenuta troppo sintetica, e non rispondente “pienamente” alle proposte discusse negli anni di preparazione.
Dico subito che non mi sono mai interessato del Sinodo nel suo svolgimento, nelle sue assemblee, nelle sue discussioni, ecc. ecc. E il motivo è semplice: non credo in questi Sinodi che finiscono immancabilmente in documenti che rimangono solo carta, tra l’altro subito superati dal tempo richiesto per un Sinodo così complesso anche per una composizione di delegati, tra preti, suore e laici, compreso i vescovi, che, al di là di una apparenza di democraticità, rendono ancora più inutili le conclusioni, frutto di compromessi vari.
Questi Sinodi – ne è prova la storia dei Sinodi precedenti – non servono a nulla, se non per tastare una Chiesa ancora ingessata, e tale resterà, nonostante i Documenti anche quando fossero “profetici”. I Documenti conciliari non ci insegnano proprio nulla? Nella gran parte ancora nel cassetto.
La Chiesa istituzionale – quella dello Spirito santo non ha bisogno di Sinodi – è ingannevole, soprattutto quando sembra voler essere democratica. Alla fine, nulla cambia, ma l’apparenza ha i suoi effetti sotto le vesti di una profezia che la vede soltanto l’ingenuo o l’illuso.
Se mi dite che i Sinodi servono per conoscersi e confrontarsi al di là dei confini delle proprie Diocesi, piccole o grandi che siano, posso anche darvi ragione, ma non credo che lo scopo o l’intento di un Sinodo sia solo per trovarsi insieme, pregare, riflettere, come tra “amici” finora sconosciuti.
E allora siamo chiari: se la Chiesa è uscita, almeno in qualcosa (qualche piccolo passo c’è sempre, volere o no) dai suoi ranghi dogmatici o moralistici, o da schemi strettamente istituzionali, ciò non è stato per assemblee o ritrovi o convegni, tanto meno se si tratta di movimenti di massa (nel senso di tanta gente che si muove), ma per aperture coraggiose, magari isolate, di “qualcuno” che ha aperto strade nuove, e questo “qualcuno”, attenzione!, ha sempre fatto danni e procurato involuzioni paurose, retrograde, quando ha imposto il suo ego sotto le vesti di carismi per nulla “pentecostali” (mi riferisco alle realtà dello Spirito santo). Anche nella Chiesa istituzionale non mancano guru o santoni, i fondatori indiscussi, non importa se moralmente discutibili, psichicamente instabili, visionari ingannevoli.
La Chiesa non si è mai rinnovata nel senso più positivo, in linea con la Buona Novella, per l’apporto di Movimenti ecclesiali, veri cancri diabolici, ma ha avuto scossoni salutari anche solo per la testimonianza di un prete ritenuto “pazzerello”, come don Lorenzi Milani, o per un parroco di campagna, come don Primo Mazzolari.
Ma siamo chiari. Se è vero che la rivoluzione può venire dalla base, dal piccolo, non dobbiamo prendere come esempio esperienze tutte fallimentari di comunità di base che alla fine sono diventate per soli iniziati. Certo, non rinnego gli sforzi lodevoli e coraggiosi di comunità di base dei tempi del ’68, le uniche a contrapporsi a una chiesa rigidamente chiusa. Ma, secondo me, il guaio è stato quel loro contrapporsi alle comunità parrocchiali, chiudendosi a loro volta, senza capire che dovevano essere un fermento stesso della comunità parrocchiale. Certo, è facile giudicare oggi, ma è doveroso tener conto delle vicende del passato per ricavare un insegnamento per l’oggi, e oggi mi sento di dire che ogni parrocchia, qualora ancora ce ne fossero, dovrebbe essere una comunità di base, tale da stimolare le altre, la stessa diocesi, per un confronto sincero, coraggioso, e vorrei dire “umile”, ovvero senza gelosie, come se fosse una umiliazione che una grossa parrocchia, pur sterile e immobile, dovesse confrontarsi con una piccola parrocchia, già aperta e profetica.
Queste piccole testimonianze profetiche, “piccole” perché agiscono in un contesto “piccolo”, non dovranno essere sotto la protezione della gerarchia. O, meglio, diciamo che la gerarchia indirettamente dovrebbe stare a osservare, anche approvare, ma senza porre alcun condizionamento.
Se una parrocchia, ad esempio, ritiene opportuno sospendere la figura del padrino o della madrina nei sacramenti, come del resto hanno fatto alcuni vescovi del sud, non vedo perché tale scelta non dovrebbe essere per lo meno positivamente discussa, da introdurre man mano nelle altre parrocchie. Non c’è bisogno di un Sinodo per capire la validità di queste scelte pastorali, che, proprio perché nascono nel “piccolo”, offrono opportunità che hanno una loro validità, perché accettate anche dalla gente comune. Lo stesso, e non è una scelta solo pastorale, si dovrebbe dire delle confessioni per i bambini e della loro presenza durante la Messa festiva. Non è solo questione di buon senso, o di motivazioni di carattere solo psicologico. La confessione dei bambini è del tutto assurda, tanto più che, anche per la gente adulta, all’inizio della Messa c’è il Rito penitenziale con la assoluzione del celebrante per eventuali manchevolezze. I bambini dai 0 ai sei o sette anni non dovrebbero partecipare alla Messa festiva, per motivazioni che gli stessi bambini capiscono. E che dire della celebrazione comunitaria degli anniversari di matrimonio? È una festa comunitaria o non è una ricorrenza che divide la parrocchia tra chi può celebrarla e chi non può celebrarla?
Ma non vorrei che tutto il mio discorso sulla parrocchia come comunità di base si riducesse a qualche novità, tra l’altro per nulla innovatrice. C’è ben altro perché la parrocchia, finché resterà tale, esca da una fissità tale da essere già in via di declino. Ma il problema rimane, ed è la località della gente, che non va sradicata perciò dal suo contesto anche ambientale, riducendo la parrocchia a qualcosa di evanescente, e qui il discoro si farebbe lungo e impegnativo, ma anche qui a tentare nuovi sperimenti dovrebbero essere quei parroci di montagna, rimasti soli a gestire pastoralmente tre o quattro parrocchie dislocate nei punti più nevralgici. Perché dovrei aspettare le indicazioni di un Sinodo, sapendo che le leggi o indicazioni che usciranno sono sempre sulle generali, vanno bene per tutti e non vanno bene per nessuno. Perché imporre a tutte le parrocchie o comunità pastorali le stesse direttive? Ognuna applica la cosiddetta “epicheia”, termine greco che significa “giusta misura”, o semplicemente il buon senso, per cui devo applicare la legge secondo il caso concreto. Aristotele definisce l’epicheia come un correttivo della legge, laddove la legge è difettosa a causa della sua universalità. E, in tal caso, lasciando a ciascuna comunità di applicare la legge con buon senso si può avere quella libertà che potrebbe essere una testimonianza profetica per altre comunità.
Anche i Sinodi, volere o no, sono sempre il risultato di compromessi, di generalizzazioni che chiedono di essere applicate caso per caso, con quel criterio che non è di comodo, ma saggezza, ed è qui, soprattutto nel piccolo, che può aprirsi un mondo nuovo.
Non è necessario avere tante lauree per capire la realtà, anzi paradossalmente i più colti sembrano i più chiusi: lo Spirito ama il piccolo, e nel “piccolo” c’è il seme del Grande. Solo una fede umile e coraggiosa permette alla Grazia di compiere i miracoli.
12 aprile 2025
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