
da La Repubblica
12 AGOSTO 2023
La rinascita di Cengio,
orti al posto dei veleni.
Là dove c’era l’Acna ora c’è la biodiversità
dal nostro inviato Massimo Calandri
Ospitava una delle aziende più inquinanti d’Italia. Oggi il Comune della Liguria produce verdure d’eccellenza
Cengio (Savona) — «La natura è più forte dell’uomo», sorride la gente di Cengio, il paese che ospitava la famigerata Azienda coloranti nazionali e affini. L’acronimo, Acna, fa ancora paura solo a pronunciarlo. Era la fabbrica dei veleni, chiusa nel 1999, che per più di un secolo ha intossicato e ucciso, inquinando l’aria, i campi e il fiume Bormida di cui Beppe Fenoglio scriveva: «Ha l’acqua color del sangue raggrumato, ti mette freddo nel midollo».
Quella stessa terra che sembrava maledetta, tra le province di Savona e Cuneo, al confine tra Piemonte e Liguria, ha saputo rigenerarsi nel giro di pochi anni. Anche con l’aiuto dei suoi abitanti. E adesso festeggia l’ingresso di un secondo prodotto tra le eccellenze alimentari italiane: alla Zucca di Rocchetta, la sola cucurbita al mondo ad avere una “carta di identità”, inserita nell’Arca del Gusto di Slow Food, si aggiunge il moco. Un legume autoctono che in queste valli veniva coltivato già quattromila anni fa, e i contadini del posto hanno saputo recuperare. Tra pochi giorni nascerà ufficialmente il Presidio del Moco delle valli della Bormida.
Ai “tesori” di Cengio bisogna poi aggiungere un’altra pianta tipica che si è tornati a raccogliere — organizzano pure una sagra quest’estate — lungo le rive del fiume: le foglie e i bulbi dell’aglio ursino hanno straordinarie proprietà depurative, diuretiche, ipotensive, abbassano il colesterolo e riducono la presenza di metalli pesanti.
Gianpietro Meinero, 75 anni, questa storia la conosce e la può raccontare meglio di ogni altro. Il padre, Luigi, entrò in fabbrica nel 1920, quando si produceva dinamite e si avvelenava già l’ambiente con gli scarichi, tanto che il pretore di Mondovì all’inizio del secolo scorso aveva fatto chiudere alcuni pozzi. Dal 1925 lo stabilimento si converte nella produzione di coloranti, e 4 anni dopo ecco l’Acna: «Seimila operai, a quei tempi», dice Gianpietro. Nel 1938, la prima causa intentata da alcuni contadini. «Ventiquattro anni dopo, il tribunale diede loro torto: condannandoli al pagamento delle spese processuali». Ricorda quando, non ancora ventenne, tornò in paese dopo il servizio militare: «Avevo perso l’abitudine a Cengio: l’odore dell’aria era diverso dal resto del mondo. E per la prima volta mi resi davvero conto di quanto fosse enorme, immobile, quella nuvola bianca sopra la fabbrica». Ci finì a lavorare anche lui, come operaio: si ritrovò all’ospedale a Savona. “Cistite emorragica”. Un lungo calvario di esplosioni, fughe di gas, morti, altri incidenti ancora. La consapevolezza che la fabbrica stava uccidendo la valle: mezzo secolo di proteste, scioperi, e quella nuvola bianca non se ne andava. A lungo sindacalista, Meinero ha pagato due volte: «Sapevo che la fabbrica avvelenava la valle, però lottavo per proteggere i posti di lavoro: non volevo chiudesse, non volevo inquinasse. Un dramma interiore che non mi ha più lasciato». Finalmente nel 1999 lo stop allo stabilimento e la bonifica del sito, dismesso, che è sempre in corso.
Meinero si è poi occupato delle denunce di malattie professionali di chi lavorava nella fabbrica del veleno: «Ho visto consumarsi decine e decine di persone». Ma nel 2005 conosce Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food. «Gli ho raccontato che la nostra era ancora una terra buona, e forte. Che alcuni contadini avevano preservato i semi di una zucca antica — dicono che Cristoforo Colombo se la fosse portata in America, essiccata — , dal sapore speciale perché impregnata dell’aria che arriva dal mare: la Zucca di Rocchetta». Nasce una “carta d’identità”, un’associazione di produttori. Coltivata in numero limitato e solo in alcuni terreni mappati: pesata, marchiata, certificata, il suo cordino col piombo fissato con la ceralacca.
È stato solo l’inizio. «Dalle nostre parti si raccoglieva il moco già nell’Età del Ferro: è una cicerchia, un cecio piccolo e verde. Sembrava perduto dopo la guerra, invece. Lo abbiamo recuperato, per ora ne facciamo quattro quintali l’anno: si ottiene una farinata deliziosa, condita con l’aglio ursino». Anche l’assessore Gianfranco Bosetti è tutto orgoglioso per questo nuovo Presidio Slow Food, ma ci tiene a raccontare dell’area naturalistica del rio Parassacco intorno, un paradiso di piante, animali («Nel rio ci sono i gamberi di fiume come più di un secolo fa: l’acqua è di nuovo da bere») e sentieri. «Un tempo dicevi Cengio, e pensavi: inquinamento. Un quarto di secolo dopo, il primo pensiero è: ambiente».
Perché sì, la natura è più forte dell’uomo.
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