Sant’Anna di Stazzema è memoria e futuro

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Sant’Anna di Stazzema è memoria e futuro

Michele Morabito
11 Agosto 2024
Alcuni anni fa l’allora direttore del Tirreno Stefano Tamburini iniziò il suo editoriale sulla ricorrenza della strage con la frase “Almeno una volta nella vita bisognerebbe andarci a Sant’Anna di Stazzema…” perché è proprio così, perché i luoghi come Sant’Anna hanno dentro qualcosa di particolare, qualcosa che ti avvince.
Quando si va a Sant’Anna si torna diversi: sarà quella strada di montagna, dove ad un certo punto si perde anche il segnale del telefono e si resta da soli con i luoghi, con gli spazi, con sassi che ti parlano, alberi che raccontano, ogni cosa ricorda quella strage, ma oggi parla anche di vita.
Tutto a Sant’Anna è più difficile, la strada tortuosa in cui ad un certo punto il paese spunta lontano nelle sue borgate più basse, Coletti e i Merli, quindi l’Ossario che domina dal 1948 la piana della Versilia da una parte e dall’altra i gruppi di case che hanno ciascuno un nome.
Poi si perde la comunicazione e ci si perde in Sant’Anna, la chiesa, il Museo storico, il negozio di alimentari Gamba che è un presidio del paese, gestito da una famiglia di superstiti della strage, dove si trova il pane fatto in casa e la focaccia.
Poi si fa i conti con la Storia, la pesantezza della stessa che oggi è declinata nel senso della vita, della speranza, del futuro.
Dieci anni fa Sant’Anna non era nei libri di storia, non era nei radar dei luoghi della memora, qualcuno artificiosamente tirava fuori la frottola della colpa dei partigiani. Dal 2000 Sant’Anna di Stazzema è l’unico Parco Nazionale della pace d’Italia e d’Europa con omologhi solo nei luoghi dell’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki nel mondo.
Da qualche mese è stato riconosciuto a Sant’Anna dalla Commissione Europea il Marchio del patrimonio europeo che contraddistingue i luoghi che hanno contribuito alla definizione dell’identità europea.
Un lavoro duro che ha portato a riconoscimenti come quello che a sorpresa è stato concesso da Articolo 21 alcuni anni fa come spazio di democrazia e di libertà.
Oggi si possono fare concerti sulla piazza della chiesa perché non c’è miglior modo di onorare le vittime che vivere anche per loro, parafrasando una frase di Don Ciotti, con rispetto verso loro e verso i luoghi.
Qualcosa è cambiato a Sant’Anna in uno spazio che è sempre lo stesso con gli stessi platani a dominare la piazza della Chiesa, l’Ossario che veglia dall’alto, la vecchia scuola elementare trasformata in Museo Storico della Resistenza nel 1991 che assume alla fine la medesima funzione, solo che oggi i ragazzi educati si contano nell’ordine delle decine di migliaia.
Sant’Anna di Stazzema è memoria e futuro, un passato pesante e una eredità da trasmettere alle future generazioni perché non ci siano altre Sant’Anne, come diceva un superstite recentemente deceduto.
Sono passati 80 anni, cifra tonda: l’importante è esserci stati in questi anni e esserci nei prossimi anni, senza più far cadere il buio su una storia così attuale, basta guardare al massacro di civili in Ucraina o nella Striscia di Gaza, ancora i civili come strumenti di guerra, come ottanta anni fa, ancora con vane scuse.
Verrebbe da dire che la storia non insegna nulla e si ripete: non insegna a chi non vuole ascoltare e non si ripete nello stesso modo. Per questo è bello il progetto iniziato per l’80° da parte del Parco Nazionale della pace di Sant’Anna di Stazzema e Associazione Martiri di recupero dei volti delle vittime, che saranno poi parte di un progetto di realtà immersiva per collocare le vittime ciascuna nel luogo in cui è stata uccisa.
Le sfide della memoria sono aumentate con la generazione dei testimoni che si va via perdendo e che ci chiede di non dimenticare. Noi saremo qua, testimoni dei testimoni, come lavoratori, giornalisti e come cittadini, perché il vento cattivo delle guerre possa prima o poi posarsi.
(Michele Morabito è Direttore del Parco Nazionale della Pace di Sant’Anna di Stazzema – Giornalista Pubblicista – Vice presidente Gruppo Stampa Versilia)
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da www.santannadistazzema.org

L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema

Gli antefatti

Nulla lasciava presagire…

La Versilia in quel periodo costituiva il fronte occidentale della Linea Gotica e un’intera divisione di Waffen-SS era dislocata nel tratto compreso dalla foce del fiume Serchio (ai confini con la provincia di Pisa) alla foce del fiume Magra (ai confini con la provincia di La Spezia).
La popolazione civile, secondo le disposizioni tedesche fatte proprie dai gerarchi fascisti provinciali, avrebbe dovuto evacuare l’intera area per spostarsi a Sala Baganza, un comune al di là dall’Appennino, in provincia di Parma. L’ordine impartito era assurdo e impraticabile essendo impossibile trasferire, senza mezzi di trasporto, una così consistente massa di persone, d’animali e di vettovagliamento. In ogni caso, per la popolazione civile della piana della Versilia, era necessario sottrarsi ai rischi della battaglia e sfollare in zone apparentemente più sicure.
Fu così che anche il piccolo e nascosto paese di Sant’Anna di Stazzema, raggiungibile solo attraverso mulattiere, dette accoglienza a diverse centinaia di rifugiati.
Provenivano in gran parte dalla piana della Versilia, ma anche da località più lontane. Fra le vittime, infatti, anche i Tucci da Foligno, i Pavolini da Piombino, i Bonati e gli Scipioni da La Spezia, gli Scalero da Genova, i Cappiello da Napoli, i De Martino da Castellammare di Stabia, i Danesi da Pavia, i Ficini dall’Isola d’Elba e molti altri.
La popolazione, di fatto, quasi si quadruplicò fino ad arrivare a circa 1500 unità.
C’era il problema di trovare un tetto dove rifugiarsi, ma soprattutto c’era il problema di trovare di che sfamarsi, ma c’era lo stesso la speranza di essere al sicuro dalla furia della guerra.
All’alba del 30 luglio 1944 si era verificata una battaglia tra i partigiani della X bis brigata Garibaldi, attestati sul monte Ornato, e le truppe tedesche, terminata con la ritirata dei nazisti e l’attestazione dei partigiani in una zona più interna, in direzione di Lucca.
Il 5 agosto i tedeschi ordinarono lo sfollamento del piccolo paese di Sant’Anna di Stazzema. L’ordine venne annullato pochi giorni dopo, dietro l’assicurazione che nel paese non stazionavano partigiani. Così la vita degli abitanti di Sant’Anna e degli sfollati riprese il suo ritmo normale. Nulla lasciava presagire lo scatenarsi della furia nazista.

Il 12 agosto del ’44

Fu un massacro…

All’alba del 12 agosto, reparti di SS, in tutto alcune centinaia, in assetto di guerra, salirono a Sant’Anna da Vallecchia-Solaio, Ryosina, Mulina di Stazzema e Valdicastello, utilizzando quali portatori alcuni uomini catturati precedentemente nella piana della Versilia.
Verso le sette il paese era ormai circondato. Gli abitanti non pensavano ad una strage, ma piuttosto ad una normale operazione di rastrellamento. Molti uomini infatti fuggirono, nascondendosi nei boschi.
Troppo tardi si accorsero delle reali intenzioni dei nazisti.
Così lo scrittore Manlio Cancogni narra gli avvenimenti di quella terribile giornata:
« I tedeschi, a Sant’Anna, condussero più di 140 esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto una piazza di tenera erba, tra giovani piante di platani, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Breve è la giustizia dei mitragliatori; le mani dei carnefici avevano troppo presto finito e già fremevano d’impazienza. Così ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Intanto le case sparse sulle alture, le povere case di montagna, costruite pietra su pietra, senza intonaco, senza armature, povere come la vita degli uomini che ci vivevano erano bloccate. Gli abitanti erano spinti negli anditi, nelle stanze a pianterreno e ivi mitragliati e, prima che tutti fossero spirati, era dato fuoco alla casa; e le mura, i mobili, i cadaveri, i corpi vivi, le bestie nelle stalle, bruciavano in un’unica fiamma. Poi c’erano quelli che cercavano di fuggire correndo fra i campi, e quelli colpivano a volo con le raffiche delle mitragliatrici, abbattendoli quando con grido d’angoscia di suprema speranza erano già sul limitare del bosco che li avrebbe salvati. Poi c’erano i bambini, i teneri corpi dei bimbi a eccitare quella libidine pazza di distruzione. Fracassavano loro il capo con il calcio della «pistol-machine», e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case. Sette ne presero e li misero nel forno preparato quella mattina per il pane e ivi li lasciarono cuocere a fuoco lento. E non avevano ancora finito. Scesero perciò il sentiero della valle ancora smaniosi di colpire, di distruggere, compiendo nuovi delitti fino a sera. A mezzogiorno tutte le case del paese erano incendiate; i suoi abitanti fissi e gli sfollati erano stati tutti trucidati. Le vittime superano di gran lunga i cinquecento, ma il numero esatto non si potrà mai sapere. “Alcuni scampati all’eccidio erano corsi in basso a portare la notizia agli abitanti della pianura raccolti in gran numero nella conca di Valdicastello. La notizia la portavano sui loro volti esterrefatti, nelle parole monche che erano appena capaci di pronunciare e dalle quali chi li incontrava capiva che qualcosa di terribile era accaduto pur senza immaginare le proporzioni. Della verità cominciarono invece a sospettare nelle prime ore del pomeriggio quando le prime squadre di assassini scendendo dalle alture di Sant’Anna, si annunciarono sull’imbocco della vallata a monte del paese. Li sentivano venir giù precipitosi, accompagnati dal suono di organetti e di canzoni esaltate, e quel ch’è peggio dal rumore di nuovi spari, da nuove grida, che non convinti di aver ben speso quella giornata, i tedeschi la completavano uccidendo quanti incontravano sul sentiero della montagna. Alcuni che al loro passaggio s’erano nascosti nelle antrosità della roccia vi furono bruciati dentro dal getto del lanciafiamme. Una donna che correva disperata portando in salvo la sua creatura, raggiunta che fu, le strapparono dalle braccia il prezioso fardello, lo scagliarono nella scarpata e lei stessa l’uccisero a colpi di rivoltella nel cranio. Molti altri furono raggiunti dalle raffiche di mitragliatori mentre fuggivano saltando per le balze della montagna, come capre selvatiche contro le quali si esercitava la bravura del cacciatore. Quando i tedeschi raggiunsero Valdicastello cominciando a rastrellare gli abitanti, il paese era già stretto dall’angoscia; gli abitanti serrati nelle case e nascosti alla meglio; la strada deserta; tutti oppressi da un incubo di morte. Il passaggio dei tedeschi dal paese si chiuse con la discesa del buio sulla valle, dopodiché ottocento uomini erano stati strappati dalle case e condotti via, e un’ultima raffica di mitragliatrice accompagnata da un suono più sguaiato e atroce di organetto, aveva tolto la vita ad altri quattordici infelici, scelti a caso».

Dopo il massacro

Dal racconto di Don Giuseppe Evangelisti

Nelle prime ore del pomeriggio, gli uomini, tornati dai loro rifugi, e gli altri pochi sopravvissuti, provvederono a soccorrere i feriti, a trasportarli all’ospedale da campo di Valdicastello e a dare sepoltura ai resti, per lo più carbonizzati, dei cadaveri in fosse scavate negli orti. Ricorda don Giuseppe Evangelisti:
«La scena che maggiormente dava sgomento era quella della piazza della chiesa: una massa di cadaveri al centro, con la carne quasi ancora friggente; da una parte il corpo di un bimbo sui tre anni, tutto enfiato e screpolato dal fuoco, con le braccia irrigidite e sollevate come per chiedere aiuto, ed intorno lo scenario delle case che mandavano ancora nell’aria bagliori e scoppiettii, la chiesa con la porta spalancata, lasciava vedere un grande braciere al di dentro, fatto con le panche e i mobili, e nell’aria il solito fetore di carne arrostita che levava quasi il respiro e che si espandeva a tutta la vallata. La sepoltura di queste salme fu fatta il giorno 14 e vi presero parte una trentina di volontari venuti dalla Culla. Fu un lavoro abbastanza difficile e rischioso, specialmente per i grandi nuvoli di mosche, le cui punture avrebbero potuto causare infezioni mortali. Non avevamo maschere, non avevamo disinfettanti. Avevamo solo una piccola bottiglia di alcool e un po’ di cotone per tamponarci il naso. Anche qui un episodio che ci commosse tutti: fra quei cadaveri c’era una famiglia numerosa, quella di Antonio Tucci, un ufficiale di marina oriundo di Foligno, ma di stanza a Spezia, che con vari sfollamenti si era ritrovato quassù. La sua famiglia era composta da 8 figli (con età da pochi mesi fino a 15 anni) e la moglie. Mentre si stava apprestando la fossa, ecco arrivare il Tucci correndo e gridando come un forsennato, per buttarsi tra quel groviglio di cadaveri: “Anch’io con loro!” urlava. Bisognò immobilizzarlo finché non si fu calmato. Rimase per qualche giorno come semipazzo. I cadaveri della piazza della chiesa furono 132, fra cui 32 bambini. Altri 8 cadaveri erano dietro il campanile e pare fossero quelli che i tedeschi avevano prelevato in basso per portare le munizioni».
Nei giorni immediatamente successivi i sopravvissuti, temendo che i nazisti potessero tornare al paese per completare l’opera di annientamento della piccola comunità, si rifugiarono nei ricoveri di fortuna offerti dagli anfratti delle montagne. Per più di un mese, nascosti in grotte, in piccoli metati, nelle gallerie delle vicine miniere, come bestie ferite, ignari di quanto accadeva in Versilia, accompagnati dallo sgomento delle violenze subite, circa 180 persone sopravvissero fra gli stenti, con ortaggi raccolti durante la notte negli orti abbandonati.
Dopo il mese di settembre, con l’arrivo degli alleati, i superstiti fecero ritorno al paese, nelle poche case rimaste integre, o in quelle ricoperte con la paglia per superare i rigori dell’inverno.
Solo dalla fine del 1945, con la Liberazione e la fine del conflitto, fu possibile avviare la ricostruzione del paese. Si ricavarono le travi necessarie dai castagni, furono riattivate le fornaci per produrre la calce, si recuperarono dalla cava d’ardesia le piastre per ricoprire i tetti.
Per cancellare i segni più evidenti del dramma che si era consumato, vennero stuccati i fori dei proiettili sulle facciate delle case, riverniciato l’interno della chiesa, tolte le canne dell’organo mitragliate dai nazisti. Furono opere dettate dall’esigenza, fortemente sentita dagli abitanti del paese nel periodo immediatamente successivo alla strage, di dimenticare l’accaduto e ricreare le condizioni per una vita normale.
Altrettanto forte fu il desiderio di dare degna sepoltura alle vittime. Nel 1945 il Comune di Stazzema bandì un concorso per onorare, con un Monumento Ossario, i martiri dell’eccidio. Molti dei superstiti premevano affinché il Monumento fosse eretto sulla piazza della chiesa, teatro di uno degli episodi più efferati della strage. Prevalse però l’esigenza di rendere visibile l’opera dai monti circostanti, dalla valle e perfino dal litorale tirrenico. Fu pertanto scelto il Col di Cava.
Nel 1947 cominciarono i lavori di edificazione del Monumento Ossario, dove vennero traslati i resti delle vittime dalle fosse comuni. Il Monumento venne inaugurato ufficialmente il 12 agosto del 1948, nel IV Anniversario della strage.

L’elenco delle vittime

Elenco incompleto

Il ruolo dei collaborazionisti
I fascisti locali le guide delle SS tedesche

All’epoca Sant’Anna era ancora più defilata e di difficile accesso di quanto lo sia oggi; per raggiungerla si dovevano percorre le vecchie mulattiere che da Valdicastello (Pietrasanta) e dal versante di Stazzema vero e proprio raggiungevano il villaggio di Sant’Anna dopo almeno due ore di difficile e faticosa marcia. Fu proprio questa caratteristica che spinse nell’estate del 1944 un migliaio di sfollati a raggiungere questi luoghi ritenuti praticamente inaccessibili.
Eppure il 12 agosto 1944 Sant’Anna venne circondata da quattro colonne SS tedesche. Le quattro compagnie si mossero dalla zona di Pietrasanta intorno alle tre di notte percorrendo quattro diverse direttrici e raggiungendo verso le sei del mattino la vallata del paese. La salita fu pertanto compiuta durante la notte, e fu quindi essenziale la guida di italiani, per lo più versiliesi, profondi conoscitori dei luoghi, per raggiungere i vari borghi del paese.
Alcuni superstiti dell’eccidio hanno rilasciato precise testimonianze in merito all’operato di questi italiani rinnegati. Individui col volto coperto, che parlavano italiano, addirittura in dialetto versiliese.
Con la partecipazione attiva alle stragi dell’estate 1944, i fascisti scrissero la pagina più infame della loro collaborazione con l’occupante nazista, dopo essersi già macchiati di gravissime colpe, dalla fucilazione di partigiani, alle violenze e ai soprusi commessi ai danni della popolazione.
Dichiarazioni di testimoni oculari, utilizzate durante i processi a carico dei criminali nazifascisti:
– “dal punto dove ero nascosto sentivo parlare anche in italiano” (F.B., superstite dell’eccidio).
– “Vedi che c’è qui se te sorti! Mi disse un individuo in tuta mimetica che impugnava una pistola, mentre cercavo di uscire dalla casa” (B.B, superstite dell’eccidio).
– “Dai mora! Gridava un milite che trascinava una mucca” (E.M., superstite dell’eccidio)
Enio Mancini, altro superstite, afferma che nel borgo di “Sennari” notò almeno due o tre squallidi personaggi mascherati che parlavano versiliese. «Quando già predisposti al muro di una casa con la mitragliatrice ormai pronta a far fuoco arrivò l’ufficiale nazista che in tedesco impartiva degli ordini per noi incomprensibili uno di questi tradusse in perfetto italiano “via svelti scendete a Valdicastello”; un altro disse alla nonna che chiedeva di potersi prendere gli zoccoli: “brutta vecchiaccia di ben altro ti devi preoccupare”; un altro, ancora, togliendo la mucca dalla stalla la sollecitò: “dai mora”.”
Le sorelle Alba e Ada Battistini più volte hanno testimoniato il particolare di un bue ferito con un colpo di pistola alla testa, non ancora morto, al quale si avvicinò un uomo esclamando: “brutto mostro ‘un voi morì”.
Alfredo Graziani, il 12 agosto 1945, pubblicò una sua memoria del tragico evento nella quale testualmente riportava: “che vi fossero anche italiani, camuffati sotto la divisa SS, e che non fossero pochi, è stato accertato”. Graziani riportava nella sua pubblicazione anche un brano pubblicato sulla “Nazione del Popolo” 29/6/45 dallo scrittore Manlio Cancogni che testualmente recitava: “Dei nomi, uno sopra tutti, girano da tempo sulle bocche degli abitanti dell’intera regione e ci si aspetta, forse invano, che prove definitive confermino la verità del sospetto.
Italiani comunque hanno partecipato a esecuzioni del genere in altre parti d’Italia. La mente recalcitra. Italiani che non si limitarono alla infamia opera di spie, di carcerieri, di aguzzini nelle celle di tortura e nel campi di concentramento, ma che vollero anche macchiarsi del delitto più atroce: la strage degli innocenti. «Vollero» è l’espressione giusta, perché non potevano esservi comandati, e comunque avrebbero potuto facilmente sottrarvisi. “Volero”, alcuni per vera deformità morale, ma i più per criminale vanità, per servile bisogno d’imitazione. Volevano non sentirsi minori dei loro Padroni; dimostrare d’essere capaci di ciò in cui loro eccellevano; dimostrarlo a se stessi e a quanti non lo credevano. Volevano partecipare anch’essi al «gioco» senza preoccuparsi se nella posta vi; erano vite umane e la loro stessa anima. Ma non si trattava ,di vite e di anime per loro, come per i tedeschi, incapaci di commozione e gelati dall’indifferenza.
Ma per gli italiani che parteciparono all’eccidio di Sant’Anna come si può parlare d’indifferenza? Non erano gente venuta da fuori; la regione non era per essi un luogo qualunque di passaggio, privò di memorie e di affetti. L’indifferenza lamentata per gli altri non possiamo ammetterla nei loro riguardi, sé non a patto di riconoscervi un cinismo ancor più terribile. Quello era pur sempre il paese della loro infanzia. Ne conoscevano certamente tutte le pieghe, le forme, i colori e persino quell’odore che ciascuno porta nel proprio animo dovunque vada per ricordarlo e riconoscerlo, nei momenti di maggiore dolcezza. Era il paese nel quale erano cresciuti e a ogni casa, a ogni sentiero, a ogni albero, a ogni volto umano era legata una parte della loro vita. Era uomini più umani che altrove, quelli sui quali . puntarono le armi omicide, case dense della loro stessa vita quelle a cui appiccarono voluttuosamente le fiamme, tenera erba della loro infanzia, accarezzata dai loro passi, quella che intrisero di sangue.
Su quelle pendici, forse, s’erano trovati in altri tempi durante una passeggiata domenicale. Si erano seduti su quelle balze all’ombra dei castagni e abbandonata liberamente la vista alla vallata avevano anch’essi sentito un attimo di struggente felicità. un amore più tenero per le cose, e un pensiero di gratitudine per i beni della vita s’era forse levato da loro cuore.”

LA RICERCA DELLA VERITÀ
Introduzione

Le prime indagini sull’eccidio di Sant’Anna furono condotte nell’ottobre del 1944, da una Commissione Militare Americana e, nel 1947, dal Servizio Investigativo Britannico. Esistevano già al tempo elementi precisi per l’identificazione dei responsabili.
Per cinquant’anni, tuttavia, fino al 1994, non si è riusciti a giungere ad una verità definitiva circa il crimine di Sant’Anna. Quell’anno, a Roma, mentre prendeva avvio il procedimento penale contro Eric Priebke innanzi al Tribunale Militare, a Palazzo Cesi, sede della Procura Generale Militare, veniva scoperto un armadio (ribattezzato poi “Armadio della Vergogna”) contenente 695 fascicoli per i quali, a seguito di un’ordinanza del Procuratore Generale Militare, Enrico Santacroce, il 14 gennaio 1960, veniva disposta una “provvisoria archiviazione”. Il Consiglio della magistratura militare deliberava, in data 7 maggio 1996, una indagine conoscitiva sulle ragioni dell’occultamento dei fascicoli. Nel frattempo, due di quei fascicoli, il n. 1976 ed il n. 2163, l’8 marzo 1995 venivano trasmessi alla Procura Militare di La Spezia: erano i fascicoli relativi al massacro perpetrato a S. Anna di Stazzema. Il processo penale, iniziato il 20.04.2004, vedeva inizialmente alla sbarra tre imputati (Sommer, Sonntag e Schönemberg), ciò anche a seguito dell’iniziale proscioglimento di altri tre, con sentenza emessa dal G.U.P., Dott. Rivello, successivamente rinviati a giudizio dalla Corte d’Appello Militare di Roma (Bruss, Rauch e Schendel).
Nuovi e decisivi elementi per giungere all’individuazione dei responsabili sono stati forniti dalla giornalista tedesca Cristiane Kohl che ha pubblicato, sul Suddeutsche Zeitung, i risultati di una lunga ricerca effettuata negli archivi militari tedeschi, in collaborazione con lo storico Carlo Gentile. Nello svolgimento del processo venivano quindi rinviati a giudizio altre quattro ex SS, quali Concina, Gropler, Richter e Göring, quest’ultimo peraltro reo confesso.
Il 22 giugno 2005, alle ore 19.40, il Tribunale Militare di La Spezia, emetteva dispositivo di sentenza, con il quale dichiarava colpevoli tutti i dieci imputati, condannandoli alla pena dell’ergastolo.
Mentre sotto il profilo giudiziario un punto fermo è stato messo, sotto il profilo politico, la Commissione parlamentare d’inchiesta , istituita con la legge n. Legge 15 maggio 2003, n. 107 e la cui attività è stata prorogata con la Legge 25 agosto 2004, n. 232, prosegue le proprie indagini circa le cause dell’archiviazione provvisoria e quelle dell’occultamento dei fascicoli. Gli elementi probatori contenuti nei 695 fascicoli riguardano eccidi che hanno provocato circa 15.000 vittime.

Un lungo silenzio

Per quasi cinquant’anni la memoria delle 560 vittime innocenti di Sant’Anna di Stazzema, tra cui moltissime donne e bambini, è stata dimenticata dal nostro Paese. Eppure, subito dopo la fine della guerra, giunsero a Sant’Anna diverse Commissioni investigative, prima inglesi, poi americane, infine, prima del processo di Bologna, italiane: le nuove autorità ricostituite (polizia e carabinieri) ascoltarono i superstiti, raccolsero informazioni, stilarono rapporti.
Nelle testimonianze rese vennero narrati i fatti ed identificati anche alcuni soggetti coinvolti nella strage, soprattutto collaborazionisti italiani. Ma tutta questa documentazione probatoria sembrò sparire nel nulla.
I parenti delle vittime ed i superstiti manifestarono apertamente ed in molte sedi (come documentato da una serie di telegrammi inviati all’allora Ministero della Guerra ed alle Corti militari alleate, in cui molti superstiti chiedevano di essere ascoltati come testimoni), il proprio disappunto per la quasi totale assenza delle istituzioni, sia per quanto riguardava il supporto materiale e psicologico ai superstiti, sia per la mancanza di risultati nelle indagini condotte.
Molti chiesero fin da principio l’inclusione dell’eccidio del 12 agosto 1944 tra i capi d’accusa contestati al Feldmaresciallo Kesselring, cosa che non avvenne.
Nel 1948, nell’ambito del processo al gen. Max Simon, comandante della XVI Panzergrenadierdivision SS, tenutosi a Padova da un Tribunale militare inglese, alcuni superstiti dell’eccidio di Sant’Anna furono finalmente ascoltati come testimoni. L’eccidio di S. Anna risultava come uno dei sei capi d’imputazione attribuiti a Simon. Per tale crimine, come per tutti gli altri, il Comandante Simon fu riconosciuto colpevole, e condannato a morte per fucilazione; condanna commutata in ergastolo nel 1948. Simon fu infine graziato.
L’Eccidio di S. Anna fu capo d’imputazione anche nel processo, celebrato nel 1951 presso il Tribunale Militare di Bologna, da Corte militare Italiana contro il Maggiore Walter Reder, Comandante del XVI Gruppo Esplorante SS. A differenza degli altri capi d’accusa a lui imputati (Marzabotto, Bardine – S. Terenzo), per il massacro di S.Anna, Reder fu assolto per “insufficienza di prove” con sentenza emessa il 31 ottobre 1951.
Da allora, dal 1951, la memoria dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema è caduta in una sorta di oblio. Non si seppe che fine avessero fatto le indagini giudiziarie, Gli esecutori materiali non erano stati individuati: per Sant’Anna sembrava non ci fossero colpevoli.
Il paese era ancora del tutto isolato: non c’era strada, non c’era telefono. Per i pochi rimasti a combattere perché si facesse giustizia, era estremamente difficile farsi ascoltare.
Fino alla prima metà degli anni ’90, nessuno parlò più di Sant’Anna di Stazzema. Le motivazioni sono molte e controverse. Sicuramente ebbero un peso decisivo questioni di diplomazia internazionale nel dopoguerra e il timore dei successivi governi di riaprire ed affrontare con trasparenza una delle pagine più buie della storia del nostro paese.
Le prime informazioni sulle responsabilità dell’eccidio emersero nel 1995 quando, su richiesta ufficiale del Comune di Stazzema e dell’Associazione Martiri di Sant’Anna, vennero inviati dall’Archivio di Stato americano, i fascicoli (desecretati dopo 50 anni) relativi alle indagini compiute dalle Commissioni Investigative nel periodo immediatamente successivo all’eccidio.

L’armadio della vergogna

A Palazzo Cesi, palazzo cinquecentesco in via degli Acquasparta, a Roma, sede della Procura Generale Militare, affluirono, dopo la Liberazione, i fascicoli relativi a centinaia di crimini compiuti dai nazifascisti, nel periodo 1943 – 1945, ai danni di vittime civili.
Su quei fascicoli erano annotati i nomi delle vittime, i nomi degli assassini, le località dei crimini. Un’istruttoria per ogni fascicolo, un processo per ogni istruttoria. Se ne sarebbero dovute occupare le Procure Militari Distrettuali, destinatarie istituzionali di quelle carte.
Tutto invece rimase sepolto in quel palazzo. Non ci furono istruttorie, non si celebrarono processi. Tutto rimase avvolto nel silenzio: prove, testimonianze, nomi.
Nel maggio del 1994, per caso, a Palazzo Cesi, fu ritrovato un armadio, protetto da un cancello, chiuso a chiave, con le ante rivolte verso il muro. Era l’Armadio della Vergogna; conteneva un grande registro, con ben 2273 voci, su cui era annotato tutto quel che conteneva o aveva contenuto: 695 fascicoli; in 415 i nomi dei colpevoli.
Al numero 1 l’eccidio delle Ardeatine, con i nomi di Herber Kappler, Erich Priebke, e altri assassini che, grazie a quell’armadio, godettero di 50 anni di libertà. E così per i nazifascisti di Sant’Anna di Stazzema. Di Marzabotto, di Fivizzano, ecc.
Fu la ragion di Stato ad imporre l’occultamento di quei fascicoli. La motivazione fu quella della guerra fredda. Nel mondo suddiviso in due blocchi, la nuova Germania doveva entrare nella Nato, come baluardo contro l’avanzata sovietica. Si preferì tacere i crimini commessi dal nazismo ed aprire una nuova pagina.
Ma ancora oggi sono troppe le domande rimaste aperte, come ferite profonde nell’intera nazione: chi dette l’ordine dell’occultamento? Chi si assunse quella drammatica responsabilità? Chi chiederà perdono a nome dello Stato per questa colossale ingiustizia?

Le indagini
Tutte le tappe

clicca qui per una ricostruzione approfondita delle tappe che hanno segnato la storia del procedimento penale sull’eccidio di Sant’Anna
Le prime indagini sull’eccidio di Sant’Anna furono condotte nell’ottobre 1944, da una Commissione Militare Americana, che raccolse alcune testimonianze, senza però acquisire elementi utili all’identificazione dei responsabili.
Nel febbraio 1947, si levarono vibranti proteste da tutta la Versilia, in occasione dell’apertura del processo a carico del generale Kesselring, in quanto tra le imputazioni a suo carico figurava anche la strage del 12 agosto 1944.
Fu allora che il Servizio Investigativo Britannico inviò in Versilia un ufficiale che acquisì dichiarazioni di superstiti e testimoni, che consentirono di inserire l’eccidio di Sant’Anna tra i capi d’accusa del generale Max Simon, comandante della XVI Divisione SS, processato a Padova da una Corte Militare Alleata nel giugno 1947. Per questo e per altri eccidi commessi in Italia ed in Emilia, gli venne inflitta la condanna a morte, poi commutata in ergastolo; tuttavia, come accadde per molti altri criminali nazisti, Simon venne graziato dopo aver scontato solo pochi anni di carcere.
Durante il processo emersero anche le responsabilità del maggiore Walter Reder, comandante del XVI Battaglione della XVI Divisione SS, il quale, estradato in Italia, fu giudicato dal Tribunale Militare di Bologna nell’ottobre 1951. Il maggiore austriaco fu riconosciuto colpevole delle stragi di Valla, Vinca, Bardine San Terenzo, Marzabotto, ma venne assolto per quella di Sant’Anna di Stazzema. Condannato a morte, sentenza commutata in ergastolo, Reder ha scontato la pena nel carcere militare di Gaeta fino al 1985 quando, graziato dal Governo Italiano, è rientrato in Austria, dove è morto nel 1991.
Nel 1996, grazie anche alle richieste del Comune di Stazzema e del Comitato per le Onoranze ai Martiri di Sant’Anna, la Procura Militare di La Spezia ha riaperto le indagini sull’eccidio.
Nel frattempo, decisivi elementi per giungere all’identificazione dei responsabili, sono stati forniti dalla giornalista Cristiane Kohl, la quale ha pubblicato sul quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung, i risultati di una lunga ricerca effettuata negli archivi militari tedeschi, in collaborazione con lo storico Carlo Gentile. Il servizio giornalistico, comprendente anche l’intervista ad un soldato delle SS presente a Sant’Anna, insieme a tutta la documentazione raccolta, sono passate al vaglio della Procura Militare di La Spezia.
Il casuale rinvenimento di 695 fascicoli relativi alle stragi nazifasciste, conservati in un armadio nei sotterranei della Procura Militare di Roma, “provvisoriamente archiviati” dal governo italiano negli anni ’50, in periodo di piena “guerra fredda”, per motivi di diplomazia internazionale, ha aperto nuove prospettive per l’individuazione dei colpevoli.
Grazie all’azione svolta dal Comitato per la Verità e la Giustizia, costituitosi a Stazzema nel settembre 2000, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, il 6 marzo 2001, al termine di un’indagine conoscitiva, insediata per discutere sui 695 fascicoli occultati nell’”Armadio della vergogna”, ha concluso i suoi lavori chiedendo l’istituzione di una Commissione Parlamentare di inchiesta, ai sensi dell’art. 82 della Costituzione, al fine di far luce sulle cause che portarono all’occultamento delle prove e all’insabbiamento di tutte le denunce relative ai crimini commessi dai nazifascisti.
Il 22 giugno 2005 si conclude il processo ai responsabili dell’eccidio di Sant’Anna. Il Tribunale Militare di La Spezia emette il dispositivo di sentenza, con il quale dichiara colpevoli tutti i dieci imputati, condannandoli alla pena dell’ergastolo.

La Commissione

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Il processo

Il 22 giugno 2005 il Tribunale Militare di La Spezia, dopo 61 anni dall’eccidio, davanti a decine di superstiti, in un’atmosfera di forte tensione emotiva, ha emesso la sentenza di condanna all’ergastolo per le SS colpevoli del massacro.
La sentenza è stata confermata dlla Corte di Appello Militare di Roma il 21 novembre 2006 e ratificata definitivamente dalla Prima Sezione penale della Cassazione l’8 novembre 2007.
Di seguito il dispositivo di sentenza:
REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE MILITARE DI LA SPEZIA
– Dispositivo di sentenza-
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Militare di La Spezia all’odierna pubblica udienza ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente
SENTENZA
* * *
DICHIARA
BRUSS Werner, CONCINA Alfred, GÖRING Ludwig, GROPLER Karl, RAUCH Georg, RICHTER Horst, SCHENDEL Heinrich, SCHÖNEMBERG Alfred, SOMMER Gerhard e SONNTAG Heinrich, tutti contumaci,
COLPEVOLI DEL REATO LORO RISPETTIVAMENTE ASCRITTO
e, ritenute sussistenti per tutti le circostanze aggravanti contestate, con esclusione di quella di cui all’art. 47 c.p.m.p. e, per il solo Göring anche di quella di cui all’art. 58, comma 1, c.p.m.p., li
CONDANNA
ALLA PENA DELL’ERGASTOLO
nonché in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali, con le conseguenze di legge […]
La Spezia, 22 giugno 2005
Il Presidente
Dr. Francesco UFILUGELLI

Atti processuali

Sentenza del Tribunale Militare di La Spezia
del 2005 con cui si condannano alla pena dell’ergastolo dieci SS che presero parte all’eccidio
Il Museo Storico di Sant’Anna di Stazzema è stato inaugurato nel 1982, dal Presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini, ed è dedicato ai temi della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e degli atroci eccidi nazi-fascisti.
Il percorso museale accompagna i visitatori con una narrazione che parte dalla data dell’armistizio del settembre 1943 per arrivare ai terribili eventi dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, avvenuto all’alba del 12 agosto 1944, in cui morirono per mano dei nazi-fascisti circa 540 persone tra uomini, donne e bambini.
Al suo interno il Museo è ricco di contenuti multimediali e di un importante centro di documentazione (Archivio e Biblioteca)
È possibile visitare i luoghi che furono il doloroso teatro dell’eccidio: la piazza della Chiesa e i borghi del paese su cui si abbatté la furia omicida dei nazi-fascisti. Nel percorso è possibile seguire delle opere artistiche che raffigurano la via Crucis, ponendo a parallelo tra la passione di Gesù Cristo e i principali avvenimenti della strage di Sant’Anna,
Luogo simbolico è il Monumento Ossario, il sacrario dove riposano le vittime della strage, in un punto panoramico che abbraccia idealmente tutta la Versilia.

 

 

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