13 aprile 2025: DELLE PALME E DI PASSIONE
Is 52,13-53,12; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11
Anzitutto, e soprattutto, per ogni ministro di Cristo la Settimana Santa è il cuore dell’Anno liturgico. Per me lo era, soprattutto quando pastoralmente ero responsabile della comunità di Monte: la Settimana santa era attesa, e vissuta pienamente, rendendo partecipe la stessa comunità cristiana, a partire dai chierichetti, che avevano un ruolo importante, diciamo indispensabile. Mi impegnavo al massimo nel curare le cerimonie liturgiche, nei riti, nelle letture, nelle luci, nei suoni, e la gente capiva, era come presa da qualcosa che quasi la elettrizzava, ma nel profondo, e non solo emotivamente.
Settimana Santa, detta anche autentica, quella vera, quella che dà origine a tutte le settimane dell’Anno liturgico. Una Settimana da vivere il più intensamente possibile, nella spogliazione di ogni attività fuori posto: una Settimana che non sopporta qualsiasi rumore, qualsiasi cosa esteriore che possa rompere quel profondo dialogo con il Mistero divino, che è una esigenza del nostro star bene, dentro. E anche fuori.
La domenica delle Palme, così chiamata nel rito ambrosiano, o di passione, così chiamata nel rito romano, è l’ingresso alla Settimana Santa: è un invito perché si entri nel piccolo triduo (i primi tre giorni) e nel grande triduo (giovedì, venerdì e sabato) con la massima concentrazione così da rivivere intensamente il Mistero pasquale, che è passione, morte e risurrezione di Cristo.
Soffermiamoci sul brano di Isaia, che parla del “servo di Dio”, nel testo del “quarto carme”, che è il più noto per la sua drammaticità e nello stesso tempo per la promessa di Dio di un ribaltamento radicale: dalla passione alla risurrezione.
Chi è in realtà questo “servo del Signore”? È Dio stesso che lo presenta. Non avrà mai un nome, né una genealogia, ma solo un titolo, in ebraico ‘ebed, «Servo del Signore».
La parola “servo” non deve intendersi secondo il significato negativo che “servo” ha assunto nel tempo: uno schiavo senza libertà.
Cristo stesso ribalterà questo concetto negativo, dicendo: è mio discepolo colui che serve Dio e gli altri. Servire Dio è entrare nella Grazia liberante. Servire Dio nella libertà da ogni altra schiavitù, carnale e spirituale. La schiavitù spirituale è la peggiore di tutte: il mio corpo può essere costretto a vivere in una prigione, ma il mio spirito resta libero. Posso essere libero come corpo, in una società che però schiavizza le anime.
L’espressione biblica “servo del Signore” non indica uno stato di inferiorità, come sentirsi uno schiavo costretto a obbedire agli ordini di un padrone.
Il termine “servo” del Signore era stato assegnato già ai “grandi” della storia della salvezza, da Abramo a Mosè, da Davide ai profeti, e la stessa madre di Cristo, divenuta consapevole della sua missione unica, si autodefinirà «Serva del Signore».
Ci si è interrogati spesso: chi è questo personaggio che sale alla ribalta in quattro canti, incastonati nei capitoli 42, 49, 50 e 53 del libro di Isaia? Capitoli che di per sé non sono di Isaia, profeta vissuto nell’VIII secolo a.C., ma di un anonimo profeta, vissuto due secoli dopo, nel VI secolo, durante l’esilio babilonese, chiamato dagli studiosi “Secondo Isaia”.
Chi è allora questo “Servo del Signore”? Molteplici sono stati i tentativi di identificazione, sia individuali (un profeta perseguitato? Geremia? lo stesso Mosè? un maestro di sapienza?), sia collettivi (il popolo di Israele, oppure gli Ebrei fedeli al Signore che stanno per rimpatriare dall’esilio di Babilonia, a causa dell’editto liberatorio di Ciro?).
Ora, la tradizione cristiana non ha avuto esitazione nell’identificare il Servo del Signore nel Messia sofferente, ovvero nel Cristo stesso, il Figlio di Dio che si è incarnato per morire sulla croce per l’umanità, per poi risorgere per la stessa umanità.
Il quarto carme, che è il brano scelto dalla liturgia per la Messa di questa domenica che introduce la Settimana santa, è una drammatica descrizione di un Servo, umiliato e sofferente, anzi, è vittima espiatoria per i peccati del popolo: sono i tratti che si imprimono in Gesù nella sua passione e morte, ma anche nella sua glorificazione perché, dopo la fine tragica, il Servo «vedrà la luce… sarà onorato, esaltato, innalzato grandemente» proprio come accadrà al Cristo risorto e asceso nella gloria della sua divinità.
Come noi cristiani dobbiamo leggere questo brano sul Servo del Signore?
Entriamo nella Settimana santa, che può assumere un duplice aspetto: un aspetto ritenuto negativo per eventi di sofferenza, di abbandono, di solitudine, di apparenti sconfitte, e un aspetto altamente positivo: la croce è già nella Luce della Risurrezione. L’evangelista Giovanni vede la Croce in un alone di Luce, a differenza dei tre Sinottici (Marco, Matteo e Luca) che vedono la croce immersa nelle tenebre.
Il credente nel Risorto non può non credere che già nel negativo, nella sofferenza, nelle guerre, nelle atrocità di criminali, nella imbecillità che prende ogni istituzione, anche religiosa, ci siano già segni di luce e di risurrezione. Certo, ci vuole fede, fede pura.
C’è risurrezione se prima c’è una caduta. Non posso parlare di risurrezione, se prima non c’è una morte. Mi verrebbe da dire: più cadute, più morte, e più possibilità di risurrezione. Certo, non devo fare il male, ma se c’è, come lo affronto? L’innocente condannato ingiustamente, come dovrebbe comportarsi? Lottare solo contro una ingiustizia, oppure vivere l’ingiustizia come segno già di risurrezione?
Io la penso così, non so voi: chi ha permesso al mondo di sopravvivere fino ad oggi: i potenti onnipotenti sempre vincenti, o i giusti sempre perdenti, proprio perché condannati per la loro giustizia? E se la Chiesa oggi c’è ancora, non è tanto per i loro santi che hanno compiuto chissà quali miracoli o per le loro virtù esemplari, ma per tutti quegli spiriti liberi condannati, ma proprio per questo semi di risurrezione.
E concludo magari scandalizzando. Non voglio sperare, ma voglio credere. Ovvero, io non spero, ma credo. Ho sentito in un video l’intervento di un monaco che ha parlato per due ore sulla speranza. Non ci ho capito nulla, o meglio ho capito che Dio mi chiede più fede nella sua Realtà che è presente.
Quando parlo dell’Eterno presente, intendo dire che non ha senso sperare quando l’Eterno è già qui, ora.
E allora devo credere con tutta l’anima che i semi dell’Eterno presente sono nascosti ovunque, anche nelle sofferenze, nelle tragedie, nelle guerre, nelle violenze, nella imbecillità o nella indifferenza di una massa senza più cervello.
Sì, non devo sperare, ma credere, ed è la fede, e non la speranza, che può spostare anche le montagne. Non aspetto che le montagne si spostino, chissà per quale miracolo. Credo, e le montagne si sposteranno già ora, qui. Se il mondo non cambia, non è perché ho poca speranza, ma perché ho poca fede.
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