Quando i preti diocesani evadono dal loro posto di lavoro, per andare all’estero, per problemi personali… Gente complessata, che va altrove, perché qui in Diocesi è dura fare il prete in loco…

Quando i preti diocesani

evadono dal loro posto di lavoro,

per andare all’estero, per problemi personali…

Gente complessata, che va altrove,

perché qui in Diocesi è dura fare il prete in loco…

Parliamo di preti diocesani  fidei donum. Anzitutto, chi sono?
L’espressione fidei donum (in latino: “dono di fede”) indica i preti, i diaconi e i laici diocesani che vengono inviati a realizzare un servizio temporaneo (6-15 anni, normalmente) in un territorio di missione dove già esiste una diocesi, con una convenzione stipulata tra il vescovo che invia e quello che riceve il “missionario” (o i “missionari”).
I preti ambrosiani sono circa 1760. I preti milanesi fidei donum sono una trentina.
Dico subito che i tempi cambiano, come anche la scelta dei vescovi, ma il problema resta di fondo, ovvero che c’è sempre quella tentazione di evadere altrove, fare il missionario, andando in Africa o nel Sud America, lontano dal proprio campo di lavoro.
Succede più o meno così.
Anni fa, ancora anni ’50, si entrava in seminario da piccolo, o nel pre-seminario di Masnago (Va) o nel seminario di San Pietro M. Già in prima media c’era la cerimonia della vestizione (sono stato uno dei primi a portare la talare in terza media), e così si iniziava la cosiddetta “gavetta seminarista”: dura disciplina (secondo le Regole risalenti a San Carlo), e una scuola esigentissima con ritmi quotidiani da mettere subito a dura prova i piccoli scolari, con professori che tuttora ricordo per la loro seria preparazione da far invidia alle università di oggi. Eravamo in tanti, poi man mano lungo il percorso seminaristico, negli anni delle medie, del ginnasio e del liceo, diversi lasciavano il seminario o erano invitati a lasciare per diversi motivi che al momento nessuno di noi conosceva. L’idea fissa inculcata dai superiori era questa: ci si preparava a diventare preti, ministri di quel Cristo che chiedeva a ciascuno di noi il massimo impegno, con guide spirituali (i cosiddetti Padri spirituali) che sostituivano gli psicologi di oggi (su cui non vorrei soffermarmi perché altrimenti ne direi di tutti i colori). E così gli anni passavano, dalle medie (tre anni) al ginnasio (due anni) al liceo (tre anni), e poi si passava in teologia (quattro o cinque anni) preceduta dall’anno propedeutico (a Saronno).
L’idea fissa, ripeto, era: diventare preti diocesani, ovvero al servizio della diocesi milanese. Capitava che qualcuno (pochissimi in realtà) negli anni teologici cambiasse idea, ed entrasse tra i missionari del Pime. In quegli anni cardinale di Milano era Ildefonso Schuster, che, pur essendo un benedettino, aveva capito e fatto proprio il principio che egli riteneva irremovibile: si diventava preti diocesani al servizio della propria comunità parrocchiale, dedicando i primi anni all’oratorio, senza evadere altrove. O così, oppure non si diventava preti diocesani. Mi ricordo di aver mangiato parecchia polvere in oratorio, con poche strutture, ma sempre strapiene di ragazzi e di giovani. Poi vennero gli anni dei Movimenti ecclesiali (pensate a Cl), che distrussero il concetto e il senso di parrocchia e di oratorio. I preti diocesani furono tentati di evadere dalla loro vocazione diocesana, entrando in questi Movimenti, tradendo anche la “spiritualità diocesana”. Venne meno, cioè, ciò che era la caratteristica principale dell’essere prete diocesano: a servizio della comunità parrocchiale, da amare fino alla follia.
Mi ricordo che il cardinale Giovanni Colombo, con cui spesso litigavo, in un incontro mi disse: “Non pensare di andare in Africa, perché l’Africa è qui”. Non alludeva agli extracomunitari, che allora non c’erano ancora. Lo contestai, ma poi apprezzai le sue parole profetiche. Capii l’inganno di evadere solo perché qui, in diocesi, la realtà era dura e insopportabile.
Mi ricordo che il cardinale Carlo M. Martini disse la stessa cosa, ma con un ragionamento ancor più stilettante, riferendosi ai preti diocesani: “Si va altrove per cercare di risolvere i propri problemi personali, ma ricòrdati: se vai Africa o in Sud America porti con te i tuoi problemi personali, e laggiù restano tali e quali come erano prima e torni ancora con i tuoi problemi personali irrisolti”.
Capii al volo ciò che intendeva dire, e, a parte il fatto che mai mi era venuto in mente di tradire la mia vocazione diocesana, andando altrove, ma le parole di Martini mi stimolarono ancora di più a lottare per il posto che mi veniva assegnato, sempre con il principio: agire in loco, pensando in grande.
Certo, ogni vescovo ha le sue idee o fissazioni, ma una cosa è certa: un conto è dire a un prete diocesano, che qui non si trova più a suo agio, o perché si sente stretto, come dice il tizio, per cui vorrebbe andare chissà dove per allargare la sua vocazione: “Vai pure! Sei il migliore! Tu sì che hai capito la radicalità del Vangelo! Tu sì che hai scelto un campo di lavoro più duro e eroico!”, e un conto dirgli: “Visto che sei in difficoltà, sei in crisi esistenziale, prova a superarla altrove!”. Anche in questo caso un ragionamento sbagliato: gli africani o i sudamericani non sono un lettino psicanalitico per i tuoi problemi personali.
Non tocca a me dare duri giudizi sulle scelte di alcuni preti diocesani di fuggire dalla realtà locale per andare a fare l’eroe a Cuba o in Turchia, ma non posso non dire la mia: qui in diocesi mancano i preti, perché ci sono meno vocazioni, non si riesce più a tappare i buchi, a sostituire qualche prete anziano o che muore, ci sono parrocchie scoperte, ci sono comunità dove nessuno vuole andare a fare il parroco (vedi Cernusco Lombardone), e poi si permette ad alcuni preti diocesani di fuggire dalla realtà locale, non solo, ma si dà l’idea da parte del vescovo (che va a visitarli a Cuba o in Turchia) che questi preti sono i “migliori”, gli eroi del momento.
E allora diciamola tutta: se alcuni preti hanno seri problemi di identità, caro Delpini, lasciali pure andare anche in Russia, ma non puoi ritenere “inferiori”, abbandonandoli al loro destino, i “tuoi” preti che, tra difficoltà enormi, rimangono fedeli alla loro vocazione diocesana. Tu corri dietro a tre o quattro preti complessati o a una suora laica alla ricerca di chissà che cosa, e trascuri i quasi duemila preti che servono ogni giorno la “tua” diocesi? In che mondo vivi?
Ancora. Se qualche prete vuole andare in Anatolia, lascialo pure andare, ma tappagli la bocca, per evitare che dica scemenze da esaltato “fallito”.
No, tu tappi la bocca a chi rimane qui in diocesi e ha il coraggio di dirti che sei un vescovo “fallito”, perché anche tu evadi dalle tue responsabilità di vescovo “diocesano”.
***
Questo prete “diocesano”, pieno di boria, è normale? Perché si è fatto prete “diocesano?
da www.chiesadimilano.it

«Vado in Turchia per creare ponti

tra cristianesimo e islam»

Affascinato da una terra in cui si è sviluppata la Chiesa delle origini, il prete ambrosiano don Attilio Cantoni sarà «fidei donum» in Anatolia. Consapevole di far parte di una esigua minoranza, spiega: «Voglio essere compagno di strada dei pochi cristiani, aperto al dialogo con chi è “altro” rispetto a noi»
di Annamaria BRACCINI
10 Agosto 2023
«Ho chiesto io di andare in Anatolia come fidei donum». A raccontarlo, non senza una certa emozione nella voce, è don Attilio Cantoni, classe 1965, originario dello storico quartiere milanese di Quarto Oggiaro, prete ambrosiano dal 1991. Con lui parliamo della sua prossima partenza per la terra di missione, dove tuttavia ha già trascorso alcuni mesi per imparare la lingua e cercare di comprendere la realtà in cui opererà (come testimoniano molti video del suo canale YouTube.

Perché questa scelta?

Negli anni scorsi sono stato qualche volta in Turchia perché da quasi un trentennio conosco il padre gesuita Paolo Bizzeti, attuale vicario apostolico in Anatolia, con cui ho fatto degli Esercizi spirituali. Questo è il primo motivo che mi ha avvicinato alla Turchia, anche se ho sempre nutrito interesse per questa terra nella quale si è sviluppata la storia della salvezza, a partire da Abramo. Non dimentichiamo che la Chiesa delle origini, così come la conosciamo, si è consolidata proprio in Turchia, a partire da Antiochia. Mi affascina il fatto che proprio in quella terra generativa della fede i cristiani siano oggi pochissimi. Per esempio a Trabzon (Trebisonda), capoluogo dell’omonima provincia situata sulla costa nord-orientale che si affaccia sul Mar Nero, dove studio la lingua, i cristiani sono 70 su una popolazione di circa un milione di abitanti. È una sfida che sento di dover accettare anche come prete ambrosiano. Le realtà sono ovviamente diverse, ma anche in Lombardia siamo ormai una minoranza, anche se spesso ci comportiamo come se non lo fossimo e non riusciamo a cambiare il nostro modo di essere, cercando di sperimentare strade nuove perché il Vangelo possa parlare ancora agli uomini di oggi.
Con quale spirito parte?
Con il desiderio di capire e non certo di guardare agli altri come se fossero persone da conquistare. Dovrò fare bene i conti con la mia umanità: vorrei incontrare la gente non tanto per convertire qualcuno, ma per creare dei ponti tra il mondo islamico e i cristiani.
Che cosa si aspetta? Una missione nella povertà dei numeri e, magari, anche della predicazione del Vangelo, nel senso che si rivolgerà a un numero limitato di fedeli?
Sì, ma non mi scoraggio. Sono pochi coloro che frequentano la chiesa e, inoltre, bisogna considerare che, nella stragrande maggioranza, si tratta di stranieri e non di nativi turchi perché molti sono i rifugiati cristiani provenienti dall’Iran e dall’Iraq. Vi è poi un folto gruppo di giovani africani che sono in Anatolia per borse di studio. Mi aspetto di essere compagno di strada di questi credenti, di poter con loro camminare alla sequela del Signore, essendo sempre aperto al dialogo con chi è “altro” rispetto a noi. Ritengo che la conoscenza diretta permetta quella pacificazione umana che è sempre possibile quando si supera l’ignoranza che crede di vedere nemici ovunque.
È la sua prima esperienza come fidei donum?
Sì, è la prima e per me arriva a un’età matura, perché ho 58 anni. Finora ho svolto il mio ministero pastorale in diverse zone della Diocesi: a Cremnago, Inverigo, Romano Brianza, Dervio e, ultimamente, a Bruzzano. Penso spesso ad Abramo e Sara che partirono quando erano già avanti negli anni per ascoltare la voce che li chiamava a vita piena. Ovviamente, non mi paragono ad Abramo, ma la sua vicenda illumina ciò che mi appresto a vivere. Mi sento, come è accaduto in tanti momenti difficili o cruciali della mia vita, accompagnato dal Signore e da tanti amici che ho conosciuto nel mio impegno sacerdotale. Credo che accettare quello che il Signore e lo Spirito suggeriscono sia una forma di intelligenza, oltreché di necessaria docilità. Non dico che tutto sia o sarà facile; d’altra parte, nessuna nuova esperienza è senza rischi e incognite, ma devo andare: ne sono convinto più che mai.
In alcune riflessioni postate sui social dimostra entusiasmo e una totale disponibilità a vivere questa esperienza. Tuttavia non si può negare che la Turchia è un Paese obiettivamente non facile per i cristiani. La paura è anche quella di andare in una terra così complessa?
No, anche se ricordo che proprio a Trebisonda, nel 2006, hanno ucciso don Andrea Santoro e che a Iskenderun è stato assassinato monsignor Luigi Padovese, allora Vicario apostolico per l’Anatolia. Una delle paure più forti, per quanto mi riguarda, è invece non riuscire a imparare la lingua locale, di non riuscire a comunicare, a rendermi disponibile anche solo nell’ascolto. Mi sono dato il termine di un anno e mezzo come massimo per apprendere il turco, perché è il primo e forse unico modo per riuscire a integrarsi. Penso, però, che non sarà facile, anche considerando la mia età.
Lei sarà il secondo fidei donum ambrosiano in Turchia, aggiungendosi a Mariagrazia Zambon, consacrata dell’Ordo Virginum, da tempo impegnata in quella zona del mondo…
Sì, andrò abbastanza vicino a lei anche se, pur essendo inserito nel Vicariato dell’Anatolia, non so ancora di preciso quale sarà il mio incarico. Le distanze in Turchia si valutano spesso in centinaia e centinaia di chilometri e il concetto di vicinanza è assai relativo. Infatti, durante i giorni della visita dell’Arcivescovo, dal 12 al 16 agosto, per esempio, non potrò essere con lui perché Trebisonda dista da Efeso circa 700 chilometri.
***
Vi invito a vedere almeno qualcuno dei suoi numerosi video,
dove appare chiaramente che questo prete è fuori di testa,
pieno di boria e con diversi problemi psicologico, per non dire altro.
ecco il suo canale youtube

3 Commenti

  1. luigi ha detto:

    Don Giorgio,
    penso che questi preti facciano un cattivo servizio.
    Penso che per Delpini la diocesi è più un agenzia di viaggi per le sue gite pastorali che un luogo dove esercitare la sua funzione pastorale.
    Sui rischi che corre non solo la diocesi ma la Chiesa consiglio di leggere la lunga intervista fatta ad Elmar Salmann da Andrea Monda e Roberto Cetera per l’Osservatore Romano
    “La tragedia dell’uomo democratico”

    Elmar Salmann mi è noto grazie a don Abramo Levi (prete valtellinese da me conosciuto) e Ursicin Gion Gieli Derungs (scrittore svizzero del cantone dei Grigioni).

    • Don Giorgio ha detto:

      Grazie della segnalazione. Leggerò.

    • luigi ha detto:

      Don Giorgio,
      volevo aggiungere perchè ho citato Elmar Salman.
      Dal suo scritto del 2007 su don Abramo Levi “Un esistenza sofferta e libera” che si può rintracciare sull’Archivio Abramo Levi.
      “…Don Abramo ama, come stile di Dio, un motto di Ignazio (non lasciarsi soffocare, sopprimere, opprimere dal superlativo, dal massimo … lasciarsi contenere dalle cose più piccole, minime). Questo è al di sopra della nostra capacità, perché noi pensiamo per superlativi, amiamo ompararci o oscilliamo tra complessi di superiorità e di inferiorità. Non siamo mai a posto, noi. Mentre Dio abbraccia il massimo e l’infimo. Anzi, si lascia abbracciare e contenere anche dalle cose più piccole, dalle cose infime.
      Questo è il cuore dilatato di Dio. Questa è l’eleganza e la sfera estesa di Dio. Ecco un Dio
      che è bontà e potere, umiltà e grandezza. Il Dio trinitario: spazio e respiro; rappresentarlo,
      educarlo, mi pare sia il compito viscerale di un prete, anzi della chiesa, di una chiesa che
      si chiama “cattolica”. ..”

      Volevo sottolineare quel “… mi pare sia il compito viscerael di un prete, anzi della chiesa …”

      “Concludo con due paradossi ignaziani … perché io sono stato prete diocesano poi ho cambiato, mi sono fatto monaco benedettino.”

      Volevo sottolineare pure questo: “Dunque, questa oscillazione tra due stati di vita ci accomuna. «Lavorare come se tutto dipendesse da Dio»: lavorare in modo disteso, abbandonato, fiducioso, rilassato, perché sappiamo tutti da dove viene il risultato del nostro lavoro, nessuno è padrone dei risultati del proprio operare. «E pregare come se tutto dipendesse da noi»: non fare il baciapile, non facile devozione, ma una preghiera dignitosa, da adulti; anche un po’ fiera, orgogliosa di sé. Il cristianesimo di per sé non favorisce l’atteggiamento di una umiltà del cane bastonato. Piuttosto vorrebbe essere una gratia elevans, cioè favorire una fierezza, un orgoglio naturale, coram Dea, davanti a Dio. Questo incrocio mi pare sia molto promettente: il Dio che
      non si esaurisce nel superlativo, ma si dà nel minimo, e noi tra lavoro e preghiera che si
      correggono a vicenda. Questa è la mistica del quotidiano che si trova negli scritti e forse,
      per un pizzico, anche nella vita di don Abramo.”

      Vorrei sottolineare quel “non fare il prete baciapile (padre Patriciello?)” e “la mistica del quotidiano” quella che rifiutano i preti diocesani che fuggono dalle loro parrocchie.

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