Addio a Pepe Mujica, il contadino-tupamaro che ha rivoluzionato l’Uruguay con la sua presidenza
www.repubblica.it/
13 MAGGIO 2025
Addio a Pepe Mujica,
il contadino-tupamaro che ha rivoluzionato
l’Uruguay con la sua presidenza
di Daniele Mastrogiacomo
José Alberto Mujica Cordano, faro della sinistra latino-americana (più volte ministro e presidente dal 2010 al 2015) si è spento alla soglia dei 90 anni per un cancro all’esofago. Ha sempre vissuto nella sua casa di campagna di Montevideo
“Sono un contadino nell’animo”; “Ho dato un senso alla mia vita, morirò felice”; “Ho il destino dell’avanguardia”; “La cultura è figlia delle stronzate”. Filosofo e politico, José Alberto Mujica Cordano, da tutti chiamato Pepe Mujica, ci ha lasciato grappoli di frasi che amava sparare come aforismi. Il noto ex guerrigliero tupamaro, faro della sinistra latino-americana, più volte ministro e quindi presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, si è spento a pochi giorni dei 90 anni che avrebbe compiuto il prossimo 20 maggio.
Il cancro all’esofago se l’è portato via come lui stesso aveva pronosticato il 9 gennaio scorso quando annunciò a chi gli voleva bene e al resto del mondo che non avrebbe insistito nell’accanirsi contro un male che gli stava corrodendo il fisico. “Il tumore all’esofago”, aveva detto ai giornalisti che erano accorsi alla sua storica casa di campagna nella periferia di Montevideo, dove aveva vissuto fino alla fine con la sua compagna e moglie Lucía Topolansky, “sta colonizzando il fegato. Non posso fermarlo con niente. Perché sono anziano e perché ho due malattie croniche”. Quindi aveva concluso con una rivendicazione: “Il mio corpo non ce la fa più. Il mio ciclo è finito e un guerrigliero ha diritto a riposare”.
Ne aveva tutti i diritti Pepe, dopo aver dato molto alla vita e agli altri. Figlio di un padre di origini basche e di una madre con lontane radici italiane (Favale di Malvaro, in provincia di Genova), il presidente “più povero al mondo”, come amava descriversi visto che donava a organizzazioni volontarie e di solidarietà il 90 per cento dei suoi 8.300 euro al mese di stipendio da Capo di Stato, trascorse un’infanzia segnata dalla povertà. I suoi genitori avevano comprato due ettari di terreno da coltivare a vite che alla fine sono costretti a vendere. Fu allora che Pepe, oltre ad essere un ciclista quasi professionista, iniziò ad amare i fiori e le piante trasformandosi in un giardiniere provetto.
Grazie allo zio materno, Agel Cordano, fervente nazionalista e peronista, si appassionò alla politica che lo forgiò per il resto della sua esistenza. Nei primi anni Sessanta del secolo scorso aderisce al neonato Movimiento de Liberación Nacional, un’organizzazione urbana marxista-leninista ispirato alla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero. Il gruppo divenne noto come Tupamaros e con questo Mujica partecipa a numerose azioni, tra cui una breve occupazione della città di Pando.
Il suo nome è sempre più noto. Viene arrestato nel 1979. È ferito da sei colpi. Lo ricorda lui stesso. Chiacchierava con alcuni amici in un bar di Montevideo. Un parrocchiano li riconosce come guerriglieri. Avvisa la polizia che circonda il posto e inizia a sparare. Viene ricoverato all’ospedale militare, lo salverà un chirurgo. “Era un compagno, un Tupa del basso”, rammenta, “mi ha dato un secchio di sangue e mi ha salvato. E’ come credere in Dio”. Ateo fino in fondo, lo arresteranno altre tre volte dopo essere evaso con un’azione rocambolesca.
Lo considerano un nemico pericoloso e ostinato, sarà condannato e per 12 anni resterà rinchiuso come un topo in un carcere che in realtà è un pozzo sotterraneo. Costretto a rimanere quasi sempre in piedi o piegato perché il soffitto è troppo basso. In isolamento, senza cibo, con uscita all’aria aperta solo una volta al mese. Diventa uno dei 9 dirigenti tupamaros prigionieri che la dittatura civile-militare chiamava rehenes, ostaggi. Avrebbero pagato con la vita se ci fossero state altre azioni della guerriglia all’esterni.
Viene liberato, grazie ad un’amnistia, solo nel 1985 quando è ristabilita la democrazia. Ma il suo fisico, piegato da una prigionia peggiore di una tortura, lo ha reso più fragile e con conseguenze che hanno accelerato lo sviluppo di un tumore. Pepe Mujica non ha perso tempo nel rancore. Ha avuto chiari fino all’ultimo i principi e i valori che lo hanno guidato nella sua vita. “La morte rende la vita un’avventura”, amava ripetere. “Perché è la cosa più preziosa, l’avventura di essere vivi. La vera domanda è come trascorriamo il nostro tempo nella vita”.
È rimasto fedele a questo principio. “Non ho avuto una vita sprecata, perché non ho trascorso la mia vita solo consumando. Ho trascorso il tempo sognando, lottando, lottando”. Di qui, lo sforzo a non perdersi nel consumismo ossessivo, nella corsa frenetica a comprare nuove cose. “Stiamo costruendo società auto-sfruttate”, ricordava, “hai tempo per lavorare ma non per vivere”. Per questo viveva in sobrietà. La sua casetta di campagna che curava con la moglie anche da presidente, il suo maggiolino Wolkswagen del 1987 che non ha mai più venduto, la profonda amicizia con Lula con cui ha condiviso battaglie e lunghe discussioni.
Si è battuto con saggezza e ostinazione. Il suo impegno politico lo ha portato a conquiste sociali rivoluzionarie per un paese come l’Uruguay durante i cinque anni da presidente: l’aborto legalizzato, la libera unione tra persone dello stesso sesso, la depenalizzazione dell’uso della marijuana. Pepe Mujica è morto in pace con se stesso. Ha vissuto fino all’ultimo quell’esistenza che tanto amava e che è riuscito a non sprecare.
***
da www.huffingtonpost.it
13 Maggio 2025
Morto Pepe Mujica, l’uomo che divenne
un feticcio per la sinistra occidentale
di Maria Cristina Fraddosio
Definito il “Robin Hood delle banche”, il “Mandela sudamericano”, promotore di pace, dal sorriso malizioso e una dialettica suadente, amato dalle star internazionali, lascià un ‘eredità molto più complessa per gli uruguaiani. Ha avuto più successo fuori che in patria
“Verrò ricordato come un vecchio mezzo matto”. Diceva questo di sé José Alberto Mujica Cordano, noto come Pepe Mujica, ex presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay dal 2010 al 2015, per tutti “El Pepe”, con origini italiane da parte materna. È morto oggi, a 89 anni. Mancavano pochi giorni al novantesimo compleanno. Lo ha annunciato su X il presidente dell’Uruguay Yamandú Orsi: Grazie per tutto ciò che ci hai dato e per il tuo profondo amore per il popolo”. Nato il 20 maggio del 1935 a Montevideo. Da vent’anni affetto da una malattia autoimmune ai reni. Aveva scoperto un cancro all’esofago. Numerosi gli interventi chirurgici, l’ultimo per l’inserimento di uno stent per consentirgli di mangiare. E poi l’irreparabile notizia dell’interruzione delle cure, se non quelle palliative.
Il sipario lo ha voluto calare lui in anticipo, in un’intervista – l’ultima – rilasciata il 9 gennaio al settimanale locale Búsqueda. “Sto morendo. Il guerriero ha il diritto di riposare”, ha detto dalla sua casa in campagna di Rincón del Cerro, a trenta minuti dal centro di Montevideo. È proprio qui che ha deciso di essere sepolto: ai piedi della grande sequoia insieme a Manuela, il suo cane a tre zampe, a cui era molto legato. E non è un caso che le sue ultime parole siano state dirette innanzitutto ai suoi connazionali. Sì, perché se ci sono delle ombre nella fama di Pepe Mujica, quelle emergono proprio nel suo Paese, il terzo Stato più piccolo dell’America Meridionale. L’Uruguay, 3 milioni e mezzo di abitanti, è fortemente diviso tra chi lo stima e chi no. A qualunque latitudine si sono spese esclusivamente parole di gratitudine ed elogio, meno che in questo paradiso verdeggiante. Qui manca l’unanimità, sebbene l’elettorato si sia da poco espresso nuovamente a favore della sua coalizione, il Frente Amplio (al governo per 15 anni fino al 2020), che è tornato al potere della Repubblica presidenziale con il leader Yamandú Orsi il 1° marzo.
A casa sua, anche tra le classi operaie, non sono pochi i compatrioti che arricciano il naso quando gli si chiede un’opinione sul suo mandato. Accadde la stessa cosa a Gorbaciov, icona dell’Occidente e oggetto di critiche in Russia. Mujica è stato soprannominato il “presidente più povero del mondo” per la sua sobrietà. Appellativo che ha rifiutato perché non si sentiva affatto povero, pur preferendo alla casa presidenziale la sua umile abitazione in campagna dove ha vissuto con sua moglie Lucía Topolansky, ex vicepresidente dell’Uruguay e compagna di partito, pur avendo scelto di destinare il 90% del suo salario da presidente al terzo settore, di cedere cinque ettari della sua proprietà per garantire una casa agli ex detenuti, di costruire una scuola agricola nel suo terreno e di spostarsi sempre e solo con il suo vecchio Maggiolino celeste. Candidato al premio Nobel per la Pace, attivista, politico, ciclista, agricoltore. Icona della resistenza della sinistra latinoamericana alla stregua di Che Guevara, anticapitalista, membro e leader del Movimento di Liberazione Nazionale-Tupamaros negli anni ’60-‘70, l’organizzazione rivoluzionaria di guerriglia urbana di ispirazione marxista a cui sono stati ascritti omicidi, rapine, sequestri di persona e falsificazione di documenti. Mujica è colui che è entrato in Parlamento sentendosi un fioraio, con sette proiettili nel corpo, dopo 15 anni di prigionia e terribili torture imposte dalla dittatura militare senza che vi sia stato un processo. Noto per le sue fughe epiche dal carcere, di quegli anni ha raccontato: “Ci toccò combattere contro la pazzia”.
Definito il “Robin Hood delle banche”, il “Mandela sudamericano”, promotore di pace, dal sorriso malizioso e una dialettica suadente, amato dalle star internazionali, capace di un’umiltà sconvolgente e di parole fulminee, come quelle rivolte ai capi di Stato durante il discorso pronunciato nel 2012 al G20 di Rio. “Non siamo venuti al mondo per svilupparci in termini generali – disse – siamo nati per cercare di essere felici, perché la vita è breve e ci sfugge. Nessun bene vale quanto la vita e questo è elementare”. Quelle dichiarazioni diedero impulso poi al libro La felicità al potere (Castelvecchi editore). Tra le sue pubblicazioni si ricordano Non fatevi rubare la vita, con la stessa casa editrice, e Sopravvivere al XXI secolo, con Ponte alle Grazie, quest’ultima scritta con il linguista Noam Chomsky e il documentarista Saúl Alvídrez. Di lui resta anche una biografia romanzata Comandante Facundo. El Revolucionario Pepe Mujica (Aguilar) di Walter Pernas, in cui si racconta dettagliatamente il suo passato da guerrigliero, le armi, gli assalti e gli arresti. Anche il cinema lo ha ricordato con Una vita suprema di Emir Kusturica e Una notte di 12 anni di Alvaro Brechner.
Proprio lui, Pepe, nel suo Paese, lascia una polarizzazione incolmabile tra chi oggi piange per la sua perdita e chi ne ricorda gli errori e le mancate promesse. Doveva esserne cosciente dell’esistenza dei suoi detrattori a casa propria, tanto da dire al momento del commiato: “Quello che voglio fare è salutare i miei compatrioti. È facile avere rispetto per chi la pensa come te, ma devi imparare che il fondamento della democrazia è il rispetto per chi la pensa diversamente. Per questo, la prima categoria sono i miei compatrioti e li saluto. Li abbraccio tutti. In secondo luogo, dico addio ai miei compagni e simpatizzanti. L’unica cosa che voglio fare ora è salutare”.
Nel 2014, l’ultimo anno del suo mandato, il quotidiano La Nación titolava: Le due facce di Mujica: abbaglia il mondo, ma polarizza gli uruguaiani. Adriana Raga, direttrice di Cifra, l’istituto di ricerche e sondaggi di mercato nazionale, allora motivava la disapprovazione spiegando che “le questioni che hanno un impatto a livello internazionale non sono quelle che interessano principalmente agli uruguaiani”. Il riferimento era alle tre legalizzazioni progressiste – aborto, matrimonio gay e marijuana – realizzate dal governo di Mujica, promotore dell’accoglienza dei prigionieri di Guantánamo e dei rifugiati siriani, mediatore nel processo di pace colombiano e nella crisi politica del Venezuela. L’economista Gabriel Oddone poneva l’attenzione sul peso dell’inflazione, quella che ancora oggi è tangibile nel Paese. Restavano incompiuti i cavalli di battaglia del programma di governo: l’istruzione, la sicurezza, la sanità e l’ambiente. Alti i tassi di dispersione scolastica e di violenza per le strade. Poche numericamente le scuole: 40 licei promessi, 9 realizzati. Pressoché inesistente la rete ferroviaria. Ospedali pubblici in rovina. “Puoi morire se vai al pronto soccorso”, è una delle frasi più consuete in Uruguay ancora oggi. Si contestava e si contesta alla presidenza di Mujica anche la chiusura dell’unica compagnia di bandiera, la Pluna, che è costata al Paese una condanna per 30 milioni di dollari. La speculazione immobiliare, che nella Miami uruguaiana, Punta del Este, è sotto gli occhi di tutti. Una crescita selvaggia dell’apparato statale. L’approvazione del controverso megaprogetto minerario di Aratirí, poi incompiuto, per l’estrazione a cielo aperto del ferro, e delle cartiere della discordia al confine con l’Argentina, che da un ambientalista come Mujica nessuno se le aspettava.
Ignacio Zuasnabar, direttore dell’istituto di ricerca Equipos Mori, a La Nación spiegò così la polarizzazione: “Mujica può essere valutato per quello che è o per quello che fa. Chi si concentra sulla sua persona tende ad avere un’immagine positiva. Chi si concentra sulla sua amministrazione tende ad avere una visione più critica”. Le contestazioni mosse al Mujica presidente gli erano note. Del resto amava e promuoveva come espressione della migliore società possibile la democrazia. Ed è per questo forse che ha deciso di accomiatarsi prima di tutto dai suoi connazionali. Tra le ultime immagini pubbliche resta un Mujica divertito, che nonostante la malattia, balla sulle note di Rubén Rada “quando morirò non voglio né pianto né pena”. L’Uruguay non può non riconoscergli almeno il merito di aver reso planetaria la fama di questo Paese.
***
www.huffingtonpost.it
14 Maggio 2025
Pepe Mujica (1935-2025).
Il rivoluzionario tranquillo che non ha cercato vendette
di Emiliano Guanella
L’alternanza in Uruguay è pacifica e senza cazzotti, come invece capita nei due grandi paesi vicini Argentina e Brasile, e questa cultura politica la si deve in fondo anche a lui, alla sua opzione per la non violenza e il dialogo dopo la lunga notte del regime militare
“La vita non è solo lavorare. Bisogna dedicare un buon tempo per le pazzie che ognuno di noi ha, perché sei vivo quando usi il tuo tempo per correre dietro ad una passione, a qualcosa che ti dà davvero soddisfazione”. Josè “Pepe” Mujica non era un filosofo, ma sapeva conquistare le platee con i suoi discorsi, al punto di diventare molto di più che un leader della sinistra sudamericana. Icona no global e punto di riferimento per almeno tre generazioni di politici, se ne va a 89 anni a causa di un tumore inguaribile. L’anno scorso aveva annunciato pubblicamente che la malattia era arrivata ad un punto di non ritorno.
“Questo guerriero è arrivato alla fine di un lungo viaggio, sono stanco e malato, lasciatemi andare via in pace”. Un appello che non poteva essere seguito, tanto che nella sua casetta di campagna appena fuori Montevideo è arrivata una vera e proprio processione. I presidenti di sinistra della regione, dal brasiliano Lula al colombiano Petro fino al cileno Gabriel Boric, che considerava un suo erede politico. Ma sono andati a trovarli anche molti giovani e i rappresentanti di diversi collettivi ed organizzazioni sociali, come i Senza terra brasiliani o gli “hijos”, i figli dei desaparecidos della dittatura argentina.
La sua vita è un lungo e appassionante film, dalla militanza nel gruppo guerrigliero Tupamaros al carcere duro sotto la dittatura (vicenda portata sul grande schermo nel bel film “Una notte di 12 anni”) e poi la politica col ritorno della democrazia.
Non ha cercato vendette, Mujica e per questo per molti è stato il Nelson Mandela del Sudamerica, capace di incolonnare la più piccola nazione della regione in una democrazia con altissima partecipazione civica e un rispetto tra le parti politiche unico nel suo genere. Solo l’Uruguay, in fondo, poteva partorire un Mujica, il “presidente più povero del mondo”, che donava il 70% del suo salario a progetti sociali, come la costruzione di case popolari nelle periferie. Burbero ma anche profondamente ironico, Mujica ha saputo per 20 anni mettere insieme le diverse anime della coalizione progressista Frente Amplio e nei suoi cinque anni di presidenza ha fatto approvare la legge sulla distribuzione della cannabis da parte dello Stato e ribadire la legalizzazione dell’aborto volontario.
Lasciata la presidenza, si è dedicato a dare conferenze in convegni e congressi ed è stato protagonista di reportage, documentari, lunghe interviste. Amava rivolgersi ai giovani, puntava il dito sulla violenza del sistema consumistico, sul vivere per comprare, sulla cultura usa e getta. “Quando comprate qualcosa – diceva – non pensate al valore economico dell’oggetto in sé, ma a quanto tempo del vostro lavoro dovete impiegare per acquistarlo. Il tempo è il bene più prezioso e la vera forza del lavoratore”.
Da ateo e anticlericale era in linea con le idee di Papa Francesco, ma a differenza di Bergoglio, ha saputo condannare la deriva autoritaria del socialismo venezuelano, così come le violazioni ai diritti umani e la corruzione, non importa di colore politico fosse. Non mandava a dire le cose, Pepe Mujica, e anche per questo le sue dichiarazioni dividevano le acque in una nazione che sa comunque rispettare le differenti opinioni. La sua ultima gioia in politica è stata l’elezione l’anno scorso del discepolo Yamandú Orsi a presidente, mettendo fine al governo del conservatore Luis Alberto Lacalle Pou.
L’alternanza in Uruguay è pacifica e senza cazzotti, come invece capita nei due grandi paesi vicini Argentina e Brasile, e questa cultura politica la si deve in fondo anche a lui, alla sua opzione per la non violenza e il dialogo dopo la lunga notte del regime militare. Al suo fianco, fino all’ultimo, c’è stata Lucia Topolanski, la compagna di una vita, anch’essa militante politica ed ex parlamentare. Tutte le forze politiche uruguaiane hanno manifestato il loro cordoglio, così come i presidenti latinoamericani. In lutto anche le due principali squadre di calcio, Il Nacional e il Peñarol. In serata è prevista una grande carovana di auto per le vie di Montevideo, la cerimonia funebre si terrà invece nel palazzo del Parlamento con gli onori di Stato.
Commenti Recenti