Omelie 2023 di don Giorgio: SECONDA DOPO L’EPIFANIA

15 gennaio 2023: SECONDA DOPO L’EPIFANIA
Nm 20,2.6-13; Rm 8,22-27; Gv 2,1-11
Quando la Liturgia ci offre da leggere e da meditare brani che riteniamo di una certa rilevanza (non sempre succede: talora noi preti non sappiamo a quale santo aggrapparci per poter ricavare almeno una riflessione, rifugiandoci in caso estremo nella solita morale), ebbene, siamo tentati di piluccare qualche pensiero, passando dall’uno all’altro brano.
Certo, ogni pensiero anche volante o immediato può stimolare la nostra pigrizia mentale, tuttavia credo che la gente abbia bisogno di qualcosa di sempre sostanzioso, perché essenziale, e costantemente. Non basta un bel pensiero a Natale!
Vorrei soffermarmi sul primo brano, allargando però il discorso, con uno sguardo anche agli altri brani della Messa.
Diciamo subito che anche il primo brano di oggi andrebbe giustamente inquadrato nel contesto. Dico “andrebbe”, un condizionale, perché in realtà siamo tentati di leggere i brani a se stessi.
Il contesto è quello dell’esodo, o del cammino nel deserto degli ebrei in fuga verso la terra promessa. Un cammino, dunque, che non poteva non essere molto duro, pieno di difficoltà soprattutto di carattere materiale, oggi diremmo difficoltà esistenziali. D’altronde, pensiamo al deserto, al di fuori della poesia o del suo significato simbolico. Ogni deserto fisico pone sempre seri problemi di cibo e di acqua: disagi che aumentano man mano il tempo passa, e la mèta è ancora lontana, per cui a lungo andare tutto si complica.
Dal brano di oggi leggiamo che gli ebrei in fuga dall’Egitto, dove per secoli erano rimasti schiavi (un aspetto da non dimenticare, visto che chi nasce schiavo non sa a cosa in realtà vada incontro, quando fugge verso la libertà, con la domanda sempre presente: ma che cos’è la libertà?), ecco tra i tanti problemi della libertà gli ebrei in fuga nel deserto ora hanno quello dell’acqua, oltre che del cibo che manca.
Mi ricordo che diversi anni fa, dopo che la Polonia era uscita dal regime comunista, avevo fatto una domanda ad alcuni polacchi: come mai ora volete ancora tornare, stavolta democraticamente, sotto il regime precedente? Risposta: in fondo i regimi ci garantiscono l’essenziale, un pezzo di pane con cui vivere: “La libertà ha i suoi costi. Perché far fatica?”.
Perché scandalizzarci: non è stata questa l’insistente tentazione anche del popolo ebraico in fuga verso la terra promessa, che rimpiangeva le cipolle d’Egitto?
“Rimpiangere le cipolle dell’Egitto” è una locuzione in uso anche al giorno d’oggi, che equivale a “stavamo meglio quando stavamo peggio”.
Nel libro dei Numeri, capitolo 11, primi versetti, troviamo: «Anche gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: “Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna”». Avete notato quel “gratuitamente”: i regimi in modo ingannevole offrono “gratuitamente” i beni che servono per la sussistenza quotidiana dei cittadini.
Questo per dire che in un certo senso i regimi fanno comodo a tutti, e che la libertà non solo ha i suoi costi, ma che bisogna viverla sul serio, affrontando ogni disagio proprio perché ci si crede in certi valori.
Paradossalmente, le democrazie, quelle vere, impegnano di più il nostro spirito interiore. Non offrono nulla “gratuitamente”: ciascuno deve fare la sua parte. E il popolo si ribella solo all’idea di fare dei sacrifici per conquistarsi quella libertà, che consiste in un equilibrio tra i diritti e i doveri. E così la massa torna ai regimi.
Ma non vi siete ancora chiesti perché il popolo italiano ultimamente ha votato un regime di destra? A noi italiani soprattutto piacciono i dittatori o dittarorelle, a cui delegare tutto, purché ci assicurino un po’ pane, e anche un po’ di companatico, magari anche qualche accessorio, o anche di più, dandoci l’illusione che finalmente si è liberi. Liberi come?
Certo, la colpa ricade su tutti: sulla religione e sulla società civile, nei loro organi educativi, per non parlare poi dei movimenti femministi e sindacali, che parlano solo di diritti, e mai di doveri. E la cosa assurda è questa: quando si è schiavi di un padrone, si è liberi dentro (pensate alla saggezza dei nostri vecchi, che, nonostante la durezza della loro esistenza, sapevano mantenere una libertà interiore: che fede che avevano!), invece, quando si è a contatto con certe democrazie, che sembrano offrirci la libertà, la prima cosa che viene meno è proprio la libertà interiore. Davvero paradossale!
Rifletto spesso sul periodo dell’esodo, che ha coinvolto un bel pezzo di storia del popolo ebraico. L’esodo del popolo ebraico, ovvero l’uscita dalla schiavitù egiziana verso la terra promessa, vista prevalentemente (anche questo fa riflettere) come una terra dove “scorre latte e miele”, ovvero ricca di ogni ben di dio in senso materiale, è stato un ricordo perenne presso il popolo ebraico. La Pasqua ebraica che cos’è, se non rievocare in una cena (cena pasquale) quel ricordo? Ma la parola “pasqua” significa “passaggio”: dalla schiavitù alla libertà. Quale libertà? La domanda torna, anche per noi cristiani, che prendiamo il Mistero pasquale come il fondamento della nostra fede.
Torniamo al primo brano. Siamo nel luogo detto di “Meriba” che significa “contesa”, una parola che dice già tutto: il popolo borbotta, mormora, discute, contesta, anzi formula una specie di giudizio: mette sotto accusa Dio stesso e il suo più diretto rappresentante, Mosè.
Ma la cosa davvero interessante è che, mentre Mosè e il fratello Aronne reagiscono male alle mormorazioni della loro gente, Dio capisce le esigenze del suo popolo e invita Mosè a percuotere la roccia per far uscire acqua sufficiente per dissetare gli ebrei in difficoltà.
Riflettiamo. Dio sembra tacere, fregarsene di noi, usando quel linguaggio di rappresentare Dio a modo nostro. In realtà, Dio ha un suo modo di agire che a noi sfugge. Dio agisce sempre sorprendendoci, ma a modo suo. Dio non è provvidente secondo il nostro modo di vedere le cose. E anche quando sembra che ci accontenti con qualche miracolo, ci spiazza sempre, perché anche i suoi miracoli non rientrano nella nostra logica. Un esempio è anche il miracolo di Cana, che Giovanni chiama un “segno”. Anche qui, gli stessi credenti si fermano all’aspetto esteriore degli interventi di Dio, senza andare oltre, e così non sanno cogliere ciò che sta sotto un segno esteriore. La nostra fede dovrebbe essere così matura da non aver bisogno di madonne che piangono o che parlano.
Qui entra in scena la Mistica medievale, dura nel condannare una religiosità carnale per non dire superstiziosa. Del resto, Gesù esigeva una fede così pura che basterebbe un solo granello per spostare le montagne. Ma anche a noi credenti piace tenere le montagne dove sono, magari ci proteggono dal sole della Grazia che potrebbe sconvolgerci nel nostro essere interiore.

1 Commento

  1. luigi ha detto:

    Non è la presunzione di tutte le guide come Aronne e Mosè quella di sostituirsi a Dio se manca l’acqua che disseta il popolo? Nella gerarchia cattolica tradizionalista-conservatrice non c’è la nostalgia per le “pentole di carne” del tempo preconciliare (messe in latino), per “il pesce che mangiavamo in Egitto per niente”? Non sono esposti i tradizionalisti-conservatori e i progressisti alla tentazione della rinuncia alla speranza e dell’abbandono dei bisogni immediati, “etici”, incuranti di inventare e ricostruire sempre di nuovo la strada nel deserto, quella che i venti coprono di continuo con la sabbia? La tentazione, inoltre, di dubitare con il popolo del deserto: “Il Signore è in mezzo a noi o no?” Mosè e Aronne hanno visto la terra promessa, quella “dove scorre latte e miele”?
    E’ un contributo che volevo offrire don Giorgio alla splendida omelia grazie ad interpretazione di un dipinto di Marc Chagall le bozze in pastello su Mosè che percuote la roccia da parte di un amico che ho conosciuto, Ursicin G.G. Derungs.

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