16 luglio 2023: VII DOPO PENTECOSTE
Gs 4,1-9; Rm 3,29-31; Lc 13,22-30
Partiamo dal primo brano: primi versetti del capitolo 4 del libro di Giosuè: non è Giosuè l’autore del libro, ma è il protagonista delle vicende che il libro narra.
Anzitutto, diciamo che Giosuè è il condottiero che ha preso il posto di Mosè, morto prima di entrare nella terra promessa, che aveva solo intravisto dall’alto del monte Nebo: una morte, quella di Mosè che sa anche di patetico e di commovente, visto che, forse per punizione per aver dubitato di Dio, non era entrato nella terra promessa, oramai vicina.
Quanti insegnamenti potremmo trarre riflettendo sulla storia di Mosè! C’è un libro di Carlo Maria Martini, titolo “La vita di Mosè”, che raccoglie otto meditazioni sulla figura di Mosè, tenute durante un corso di esercizi spirituali a un gruppo di confratelli gesuiti nell’agosto del 1978, quindi prima che venisse nominato arcivescovo di Milano. Ebbene, Martini parla della morte di Mosè usando la parola “scandalosa”: una morte avvenuta “in solitudine”, “in obbedienza” e “nella sofferenza”. La sua colpa è stata quella di aver difeso troppo il suo popolo, e Dio lo ha punito facendolo morire prima di entrare nella terra promessa. Il testo sacro dice: «Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, secondo l’ordine del Signore». Martini commenta: «Mosè è l’unica persona nella Bibbia di cui si dica che egli è morto così: il Signore ha ordinato e lui è morto». Martini aggiunge una cosa ancor più scandalosa: Mosè non solo è stato sepolto in terra straniera (cosa abominevole per un ebreo), non solo nessuno non ha mai saputo dove è stato sepolto (cosa anch’essa dolorosissima per un membro di Israele), ma c’è di più: “Addirittura, scrive Martini, è scomparso per il suo stesso popolo. È curioso infatti che, terminati i libri del Pentateuco, di Mosè nella Bibbia quasi non si parla più». Ed ecco il commento di Martini: «In un certo senso Mosè scompare anche dalla Scrittura: si lascia cancellare, come il servo che ha compiuto il suo servizio, ora trasmesso ad altri, e che non ha bisogno di gloriose commemorazioni».
Passiamo al brano di oggi. Giosuè ebbe da Dio un duplice grande incarico: quello di introdurre il popolo ebraico nella terra promessa e quello, ancor più gravoso secondo me, di dividere la terra fra le varie tribù. Pensate alle difficoltà di saper rispettare la giustizia: dividere la terra in parti uguali tra le dodici tribù. Parlare poi di giustizia sembrerebbe una bestemmia, visto che si trattava di una terra occupata da altri, perciò sottratta ai loro diritti anche con la violenza. Quanti interrogativi, quanti dubbi su un popolo che, per il fatto di ritenersi “eletto”, non aveva per questo alcun diritto da far prevalere a danno dei diritti degli altri, e poi succederà di tutto fino ai fatti drammatici più o meno recenti, per non parlare di ciò che sta succedendo tra ebrei e palestinesi di oggi.
Il brano di oggi narra un episodio in parte strano, in parte molto simbolico. Attraversato il fiume Giordano in modo miracoloso (l’evento straordinario è narrato secondo il modello del passaggio del Mar Rosso: i due miracoli si rassomigliano) e, appena messo piede nella futura patria, la terra di Canaan o Palestina, Israele su ordine di Giosuè compie un gesto commemorativo. I rappresentanti delle dodici tribù sono invitati a erigere un monumento che ricordi l’evento appena vissuto del passaggio del Giordano così che le future generazioni sappiano che, come dice Giosuè, “le acque del Giordano si sono divise davanti all’arca dell’alleanza del Signore”.
Dodici massi, presi dal letto del fiume, vengono eretti come memoriale solenne al di là del Giordano, nella terra promessa appena raggiunta. E qui, come vedremo, il simbolo è abbastanza evidente, anzi molto significativo.
Piuttosto strano e di difficile spiegazione è quest’altro gesto: altre dodici pietre, frattanto, sorreggono al centro del letto dei fiume i sacerdoti delle 12 tribù con l’arca dell’alleanza, mentre passano i figli di Israele. Queste altre dodici pietre, poi, verranno coperte dalle acque.
A noi interessano le dodici pietre che come un monumento dovranno essere un ricordo per le future generazioni di quanto il Signore aveva fatto per il suo popolo. Un sacerdote commenta: «Il testo riprende anche la preoccupazione educativa verso le nuove generazioni e dà dei suggerimenti interessanti: bisogna porre segni, fare segnali, provocare gesti che facciano nascere domande. Se c’è la domanda, esiste anche la possibilità di penetrare nella coscienza di ciascuno, ponendovi il significato religioso. In questo caso l’azione di liberazione che Dio ha compiuto per questo popolo diventa un’azione consapevole di grazia, di dono, di riconoscimento, di coesione di popolo».
Passiamo al secondo brano: poche righe, ma dense di significato. Paolo parla del rapporto tra legge e fede. La fede di per sé non annulla la legge, ma quando la legge è strumento, solo strumento per comunicare la grazia divina. In breve: non è la legge che salva, ma è la fede in Gesù che porta il dono di grazia di Dio. Oggi è facile appellarci alla legge, peggio se la legge è fatta di tante numerose leggi e leggine, con lo scopo di salvaguardare un ordine, che è solo strutturale. Se dovessimo essere costretti a scegliere, prima c’è la legge della coscienza, o voce divina, e poi le leggi della chiesa istituzione o dello stato.
Il terzo brano, tolto dal Vangelo secondo Luca, è interessante per due cose: anzitutto, Luca imposta il “suo” Vangelo come se fosse un unico lungo cammino verso la città di Gerusalemme, e durante questo cammino avvengono incontri e dialoghi, e Gesù anche ammaestra, sempre restando: lui davanti e i discepoli dietro. Così si insegna da vero maestro. Non c’è tempo per fare esempi. Pensate alla scuola, tra insegnanti e scolari, o in casa, tra genitori e figli.
La seconda cosa importante del brano di oggi è la risposta di Gesù alla domanda di un “tale” (non importa sapere chi): “«Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
«Sforzatevi di entrare per la porta stretta». Gesù usa un verbo caratteristico: “Sforzatevi”, e una espressione altrettanto caratteristica: “porta stretta”.
Lo sforzo che Gesù chiede è un impegno quotidiano: non si ottiene mai tutto e subito. La “porta stretta” richiama quel distacco, di cui parlavano spesso i Mistici medievali: la porta è stretta o larga a seconda della essenzialità (che sembra restringere) o del superfluo (che sembra allargare). La porta stretta richiama l’essenzialità che porta necessariamente a Dio; la porta larga disperde e porta lontano da Dio. L’essenzialità non restringe la nostra libertà, che, anzi, ci difende da quella larga regione della dis-somiglianza, di cui parlava S. Agostino nelle Confessioni. Possiamo anche dire: la porta stretta o essenzialità focalizza il nostro sguardo sul bene Assoluto, che è Dio, mentre la porta larga allarga il nostro guardo su mille e più cose inutili, che rendono la nostra esistenza stressata e infelice, chiudendo quella porta, l’unica a introdurci nel mondo dello Spirito divino.
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