Omelie 2022 di don Giorgio: SESTA DOPO PENTECOSTE

17 luglio 2022: SESTA DOPO PENTECOSTE
Es 24,3-18; Eb 8,6-13a; Gv 19,30-35
Partiamo dal primo brano, preso dal libro dell’Esodo, il secondo dei cinque libri (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) che compongono il cosiddetto Pentateuco: nome greco, composto da “pente”, che significa cinque, e “teuchos”, che indicava inizialmente l’astuccio, cioè il contenitore cilindrico che custodiva un rotolo, e passò poi a indicare il contenuto dell’astuccio, cioè il rotolo.
Esodo significa “uscita”: s’intende l’uscita degli Ebrei dall’Egitto verso la libertà. Dunque, il Signore li libera dalla schiavitù, durata per quattro secoli, li fa incamminare nel deserto verso la terra promessa, stringe con loro un’alleanza, subito infranta e ristabilita; infine Dio stesso viene a dimorare in mezzo a loro nel santuario mobile.
Possiamo dire che il libro dell’Esodo contiene i cardini della fede, dell’identità e della vita d’Israele: il Signore, mediante Mosè, rivela il proprio Nome al popolo; fa sperimentare la propria presenza nei “segni” forti contro l’Egitto e nella salvezza al Mar Rosso. La celebrazione della Pasqua permette a ogni generazione di Ebrei di rivivere e riappropriarsi della liberazione dalla schiavitù. Diciamo infine che gli eventi narrati nel libro dell’Esodo vanno interpretati in senso spirituale e teologico o mistico, al di là dunque della loro storicità, che presenta tutta una serie di contraddizioni. Del resto, tutta la Bibbia va intesa in senso altamente simbolico, anche se ci sono episodi la cui storicità non si può negare.
Soffermiamoci sul brano di oggi, in particolare sulla parte finale, quando si dice che «Mosè salì sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti».
Già dai numeri sei, sette, quaranta, dal fatto che si parla di una montagna, dalle parole “gloria”, “nube”, “fuoco”, ecc. possiamo capire che l’evento va interpretato nella sua simbologia. Ed è qui il fascino del racconto, altrimenti, se inteso letteralmente, potrebbe suscitare perplessità e anche rifiuto per aspetti grotteschi.
Non vorrei soffermarmi sulla simbologia della montagna, che indica anche inaccessibilità, la dimora di Dio, come del resto era anche la dimora degli dèi secondo la mitologia classica. Pensate all’Olimpo, che è la montagna più alta della Grecia. Nella mitologia greca, la vetta del monte (perennemente circondata da nubi bianche) era considerata la casa degli dèi olimpi, ed era dunque ritenuto impossibile raggiungerla senza il permesso degli dèi stessi.
Anche nel racconto dell’Esodo si parla di “nube che copre il monte”. Notate: «La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti».
Dunque, si parla di “gloria del Signore come fuoco divorante sulla cima della montagna”. Anche qui una forte simbologia. Immaginate un fuoco che divora o che brucia senza mai consumarsi… Come il roveto. Scrive l’autore sacro: “L’Angelo del Signore (cioè il Signore stesso) gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli (Mosè) guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava”.
Mosè entra poi nella nube, mentre sale sulla montagna. Quindi nessuno tra gli Israeliti può vedere Mosè che sale. E Mosè stesso che cosa vede, mentre sale? Tutto così invisibile, tutto così misterioso. Dio dunque è inaccessibile, invisibile, si sente solo la sua voce. Una voce che proviene dalla nube, dalla fiamma di fuoco.
Ripeto anche fino alla noia: si ricorre alle immagini (montagna, roveto, cima, fuoco, nube), per dire almeno qualcosa della manifestazione di Dio a Mosè. E noi vorremmo quasi forzare queste immagini, per capirci qualcosa, ma più ci avviciniamo a Dio più entriamo nella nube, più i nostri occhi quasi si annebbiano.
È vero che i Mistici medievali parlavano di distacco se vogliamo avvicinarci a Dio. Più ci spogliamo dei nostri concetti su Dio, più Dio appare nella sua nudità essenziale.
Sembra una contraddizione: più ci avviciniamo, spogli dei nostri concetti, a Dio nella sua essenzialità, e più Dio si fa invisibile proprio perché spoglio dei nostri concetti che lo hanno reso quasi un oggetto idolatrico.
E allora, così qualcuno ragiona, meglio tenerci un dio concreto, idolo dei nostri desideri, delle nostre passioni. Lo sentiamo più vicino a noi.
E come si possono dimenticare le parole di Cristo alla donna di Samaria: “Ma viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”. L’Ora di Cristo come Logos eterno non è più quella di Mosè, ma è “questa”, quella legata non al “crònos”, ovvero al tempo che passa, ma al “kairòs”, ovvero al tempo della Grazia, all’Eterno presente.
Allora, adorare il Padre in spirito e verità è come entrare nella nube del nostro essere più profondo, dove il buio è quella presenza divina che chiede rispetto della sua purezza essenziale.
Nel terzo brano, quello evangelico, si parla della morte di Cristo sulla croce. Giovanni scrive: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito”. Anche qui notiamo una cosa. Mentre i tre Vangeli sinottici descrivono un contesto di tenebre mentre Cristo muore: Luca scrive: “era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato”, Giovanni sembra, invece, avvolgere la croce di una luce particolare.
Anche qui vedete che le descrizioni non sono tanto cronache, ma simboliche. Marco, Matteo e Luca vogliono far notare la drammaticità della morte di Cristo che avviene nel buio totale, mentre Giovanni già sembra anticipare la risurrezione.
Cristo, mentre muore, dona lo Spirito, e lo Spirito richiama le parole di Cristo alla donna di Samaria. “Viene l’ora, ed è questa, in cui adorerete il Padre in spirito e verità”.
Notate “spirito e verità”: lo spirito richiama la luce. “La luce che risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”, così ha scritto Giovanni nel Prologo.
Qualcuno di voi dirà: è tutto un contrasto, un alternarsi di tenebre e di luce, di nubi e di verità. In realtà è così: Dio è nella nube, diciamo che Dio è nel fondo del pozzo, là dove tutto sembra buio. A noi sembra così. Chissà cosa provavano i grandi Mistici medievali, quando parlavano del Mistero di Dio che è inaccessibile agli occhi umani, ma misteriosamente luminoso, quando si scende in noi stessi, nel profondo dell’anima.

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