17 agosto 2014: Decima dopo Pentecoste
1Re 8,15-30; 1Cor 3,10-17; Mc 12,41-44
Mi soffermerò sul secondo e sul terzo brano. Anzitutto, nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto, scritta verso il 55 d.C., quattro o cinque anni dopo che san Paolo aveva predicato in quella città, troviamo una serie di risposte a problemi contingenti della comunità. Non dimentichiamo però che la lettera contiene anche il più antico racconto della celebrazione eucaristica, inoltre una testimonianza della prima catechesi cristiana sulle apparizioni di Cristo e infine, nell’inno alla carità, una delle pagine più poetiche e spirituali della Bibbia.
L’apostolo si trova a Efeso, e qui viene informato che tra i cristiani di Corinto si stavano creando delle divisioni. Paolo, preoccupato, interviene subito. Ne abbiamo già parlato recentemente: quello di oggi è la continuazione del brano che la liturgia ci aveva offerto un mese fa.
Di san Paolo possiamo dire di tutto e di più: che affronta argomenti di non facile comprensione (pensate al rapporto legge e grazia); che non sempre è condivisibile in ciò che scrive (ad esempio nei riguardi delle donne), ecc. ecc. Tuttavia non possiamo negare che egli avesse una grande dedizione pastorale. Paolo era tanto elevato e dogmatico nei suoi ragionamenti teologici, talora rigido nelle questioni morali, quanto era pratico e vicino alla sua gente. E ciò non era facile, neppure allora, anche se si era agli inizi del cristianesimo. Già si stavano diffondendo le comunità, che man mano assumevano una certa fisionomia anche organizzativa. Certo, non c’era ancora quella struttura gerarchica, che poi assumerà un certo rilievo, anche a discapito dello spirito pastorale.
C’è poco da fare: la struttura copre lo spirito, e può anche spegnerlo. Più la struttura s’ingrossa, più lo spirito ne risente. Non c’è bisogno che lo dimostri. Tutta la millenaria storia della Chiesa ne è una prova. Quando si arrivava all’eccesso, ecco comparire qualche santo o profeta, voce di quel Dio che sopporta, ma che a un certo punto sbotta e ribalta le situazioni. Ma per quanto tempo? Purtroppo, siamo fatti così, anche noi cristiani: invochiamo la venuta di un santo riformatore, e quando l’abbiamo ci limitiamo a incensarlo, senza coglierne la profezia. Poi, tutto torna come prima. Non si tratta di cambiare un vestito: si tratta di tirar fuori l’anima, fare di ogni cosa uno strumento e non un fine, dando allo spirito il suo primato.
San Paolo sapeva che c’era questo rischio, e se ne preoccupava, intervenendo con la sua presenza e con lettere di carattere pastorale. Certo, non si limitava a dire: “State buoni, fate i bravi!”. Cercava di far capire le ragioni profonde, per le quali vivere la fede nel Risorto significava mettere da parte ogni forma egoistica, senza spostare il baricentro, il punto fermo attorno a cui far girare tutto. Beh, fermo per modo di dire. Sappiamo quanto sia vitale Gesù Cristo. La nostra fede non è statica: non siamo oggetti calamitabili. C’è un rapporto sempre dialettico tra noi e Cristo. Ma Cristo è il cuore o il centro di tutto. Questo voleva far capire san Paolo. Il tema centrale della lettera è questo: il ruolo fondamentale e unico di Cristo, il Signore crocifisso e risorto, sapienza di Dio. Sono dure e chiare le parole di Paolo sulla differenza tra la sapienza umana, che l’apostolo chiama stoltezza, e la sapienza divina, l’unica vera, anche se gli uomini che si credono intelligenti la snobbano.
Il brano di oggi parla della Chiesa il cui unico fondamento è Cristo: noi credenti siamo collaboratori, siamo il campo, l’edificio di Dio, ma il fondamento è sempre lui: Gesù Cristo. San Paolo è esplicito: su questo fondamento, che è Cristo, e tale rimane e rimarrà per sempre, si può costruire di tutto: con materiale prezioso oppure con fieno e paglia. Ma tutto sarà messo alla prova: l’apostolo parla della prova del fuoco, simbolo del giudizio divino. Solo l’essenziale resterà immune. Non pensiamo al giudizio di Dio come a un intervento necessariamente straordinario. C’è la prova quotidiana del tempo che è già un giudizio. Diamo uno sguardo al passato, e quante cose sono state bruciate proprio dal tempo che inesorabilmente passa, giudicando. Sì, è vero: con il tempo sembra che le cose inutili si assommino diventando un peso enorme. Ma basta poco: una crisi, una guerra, ed ecco tutto viene spazzato via. Sono crollati gli imperi che sembravano intoccabili. Tutto cambia. E tutto torna: sotto altre forme, purtroppo. A un impero che passa succede un altro, talora peggiore.
Ma se il tempo non basta per convertire la gente, la quale ha una memoria corta, c’è però qualcosa, oltre al tempo, che purifica, e rinnova. Talora in modo del tutto impercettibile, ma la storia ha in sé delle risorse imprevedibili, percettibili solo con l’intuito interiore.
Nulla potrà togliere di mezzo Cristo, che è il fondamento. Potremo coprirlo con le nostre strutture terrene. Ma saranno inutili i nostri sforzi per toglierlo di mezzo: inutili i nostri tentativi di falsificarlo, facendolo apparire qualcosa di diverso da quello che in realtà è.
Tornare al Cristo radicale significa questo: riscoprire il Cristo originale, quello autentico; disseppellirlo dai nostri cuori aridi e dalle nostre menti ottenebrate. Questo è il nostro compito di cristiani autentici.
Passiamo al brano del Vangelo: è l’episodio della vedova povera che offre al Tempio tutto quel poco che aveva. Lo troviamo nel Vangelo secondo Marco, e anche in quello secondo Luca. I due evangelisti lo collocano a Gerusalemme, poco prima dell’ultima tragica settimana, nell’ambito della condanna da parte di Gesù della principale istituzione del giudaismo: il tempio, e delle principali categorie sociopolitiche (scribi e farisei), che non fecero nulla per impedire la palese corruzione dei gestori del tempio: sadducei e sommi sacerdoti. Il tesoro apparteneva al tempio di Gerusalemme e i sacerdoti usavano le offerte dei fedeli o per compiere olocausti o per aiutare i poveri. Si trattava infatti di contributi volontari, non di tasse, anche se le tasse non mancavano, richieste in altre occasioni per la manutenzione del Tempio e per le loro necessità. Oltre a ciò, esistevano altre forme commerciali di sfruttamento del Luogo santo, specie in occasione delle grandi festività, che permettevano ai suoi gestori di arricchirsi notevolmente. Chi non ricorda l’episodio quando Gesù ha rovesciato i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe?
L’episodio della vedova povera che dà tutto ciò che aveva è una dura condanna di quel nostro modo di fare la carità, usando solo il superfluo, supposto che esista ancora il concetto di superfluo, nel senso che abbiamo allargato così tanto ciò che riteniamo necessario che ogni futilità la riteniamo indispensabile, parte integrante della nostra vita.
Quella donna poverissima, per di più vedova, perciò senza alcuna protezione civile, diventa per noi moderni un esame di coscienza, anche solo pensando a ciò che può rappresentare il superfluo. Il superfluo: anni fa era solo alla portata dei ricchi. I poveri lottavano per avere il puro necessario per vivere.
Poi il progresso economico ha reso il superfluo più popolare, addirittura indice di benessere materiale. Ho trovato queste interessanti riflessioni: «Il superfluo è esattamente la zona della vita dove passiamo la maggior parte del nostro tempo e per la quale occupiamo le nostre migliori energie e risorse. Il superfluo, tutto ciò che è periferico a quel che davvero conta, tutto quello che è laterale alla tremenda serietà della vita, questo davvero ci appassiona e ci trascina… La menzogna del superfluo, del marginale, che assurge ad assoluto. Il superfluo che diventa motore dell’esistenza. Attenzione, il superfluo non è un male, anzi, fa parte della vita, ma è come la terra che gira intorno al sole, non è il centro e il fondamento dell’esistenza… porre il superfluo come centro della vita è rovesciare la verità delle cose in menzogna, scambiare il frutto con l’albero, il Creatore con la creatura… È idolatria. È la fonte della più grande sofferenza. È la porta della solitudine. Al Tempio i ricchi, cioè i tronfi che credono di possedere e invece sono così stolti da aver perso la bussola e non sapere più quale sia il centro dell’esistenza, gettano del loro superfluo. Come Caino riconoscono al Signore una parte minima della loro esistenza, la periferia dell’esistenza… La vedova invece è spogliata di tutto, ha terminato il suo cammino di fede attraverso la spogliazione d’ogni superfluo, non le rimane che l'”essenziale” per vivere. La vedova non ha nulla sulla terra, anche i beni messianici, anche l’abbondanza delle benedizioni celesti sembrano essere scomparse, il marito, i figli, nessuno più. Nuda con due centesimi. Tutta la sua vita. E l’ha gettato tutta nel tesoro del Tempio».
L’episodio della vedova non va visto solo come un fatto edificante, va al di là di un aspetto puramente morale. C’è un insegnamento più profondo, che tocca la nostra realtà esistenziale. Che cos’è in realtà la nostra vita? Che cos’è il vero amore? Che cos’è la nostra fede in Dio?
Quando riusciremo a distinguere l’essenziale dal superfluo, forse potremo rispondere a queste domande.
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