Il Sessantotto e il testamento biologico
da www.democratica.com
Danilo Di Matteo
15 dicembre 2017
Il Sessantotto e il testamento biologico
Le nuove disposizioni sul “fine vita” possono fornirci l’occasione per riflettere sul senso della contestazione giovanile della fine degli anni Sessanta. Fu un approdo o un inizio?
Uno strano scherzo della storia ha voluto che la legge sul testamento biologico venisse approvata a ridosso dell’inizio del nuovo anno, quando sarà trascorso mezzo secolo dal ’68. Così proprio un fatto concreto – le nuove disposizioni sul “fine vita” – può fornirci l’occasione per riflettere sul senso della contestazione giovanile della fine degli anni Sessanta. Fu un approdo o un inizio? E come si pone il decennio successivo rispetto a quel fenomeno planetario?
Proverei per un istante a porre in tensione e in risonanza due visioni dissimili: quella che colloca gli anni Settanta lungo il solco tracciato dal ’68 e quella che ne scorge le profonde differenze.
Personalmente, proprio nel ’77 ho iniziato la scuola elementare e il maestro, pur di vecchio stampo, portava il quotidiano in classe e, negli anni successivi, ci esortava a leggere e a informarci. Senza quel “vento di libertà” avrei sentito il mio percorso formativo come assai meno “mio”: la libertà di intervenire durante le lezioni, di porre domande, di esprimere considerazioni è stata per me fondamentale.
Guardiamo per un attimo a mo’ di esempio, però, alla proposta di due autori. Luigi Covatta, nel libro Menscevichi, parla del ’68 come di una “rivoluzione etica”, assai distante dalle derive iperideologiche o addirittura violente del decennio successivo. Così anche Salvatore Veca, nel libro La gran città del genere umano, nella conversazione dedicata alla “filosofia di Giorgio Gaber”, scorge nei movimenti giovanili degli anni Sessanta “fini intrinsecamente non politici, quanto piuttosto etici, nel senso elementare per cui ciò che diviene oggetto di controversia e contestazione collettiva è lo spazio sociale – e non politico – in cui una società ingessata modella e disciplina le relazioni fra persone”. Quei movimenti “mettono in questione modi di esercizio dell’autorità (dell’autorità culturale, religiosa, familiare, sociale prima ancora dell’autorità politica, verso cui si avanza piuttosto una revoca di fiducia)”.
A parer mio non si tratta solo e tanto di distinguere fra il Sessantotto e gli anni ’70, come se fossimo dinanzi a un problema squisitamente cronologico, quanto di discernere fra quella revoca di fiducia e le sue derive. Come insegna il “mio” professore di psichiatria, Filippo Maria Ferro, la parola “deriva” rimanda a due significati: da un lato derivare, scaturire, provenire da; dall’altro “andare alla deriva”, perdersi. Ecco: il revival iperideologico di alcuni gruppi degli anni ’70 rappresenta forse un “andare alla deriva” delle istanze degli anni ’60. Al contrario, l’esito del referendum sul divorzio, nel 1974, è proprio l’emblema di quelle istanze (ecco il motivo per il quale è una vera e propria cesura storica per l’Italia).
Non è un caso, aggiungo, che Loris Fortuna, il più noto dei “padri” proprio della legge sul divorzio, si sia in seguito impegnato anche sui temi del fine vita. Non andrebbero contrapposti, naturalmente, diritti civili e sociali. No: si tratta di cogliere l’intreccio fra la libertà responsabile del singolo e le conquiste collettive. La dimensione del “collettivo” era volta a esaltare e non a soffocare (come invece accadde in certi gruppi e in certe situazioni) l’unicità e le peculiarità degli individui e dei percorsi biografici.
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