19 febbraio 2023: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Os 1,9a; 2,7a.b-10.16-18.21-22; Rm 8,1-4; Lc 15,11-32
Dopo aver letto o ascoltato la lettura dei tre brani, il nostro pensiero istintivamente si sofferma sul terzo, che riporta una parabola, una tra le più note, che troviamo nel Vangelo secondo Luca, che Dante in modo sintetico ha definito “scriba mansuetudinis Christi”, dove scriba sta per scrittore e mansuetudo sta per misericordia.
Una parabola, che è la storia di due figli: è la storia del figlio minore che se ne va di casa sbattendo la porta e poi torna con la porta ancora aperta (la porta del Padre celeste non si chiude mai, neppure quando noi pretendiamo di chiuderla per non far entrare i lontani, o di ritenerla chiusa, per il fatto di essere usciti di casa!), ed è la storia del figlio maggiore che resta in casa, ma senza mai voler capire o accettare il cuore infinito del padre.
Ponendosi la domanda: quale tra i due figli scegliere?, don Primo Mazzolari ha rischiato grosso, sfidando la censura ecclesiastica dei suoi tempi, vedendo nel figlio maggiore l’atteggiamento di chiusura della stessa Chiesa istituzionale, e vedendo nella scelta del figlio minore la nostra realtà esistenziale, fatta di ribellioni e di conversioni, di scelte sbagliate per un concetto falso di libertà, e di ravvedimenti interiori per tornare a casa.
Alla domanda: “Qual è il punto di svolta del racconto di Luca?”, non avrei alcuna esitazione a rispondere: quando Luca scrive “allora (il figlio minore che era uscito di casa e aveva toccato il fondo della miseria umana) ritornò in sé”.
Notate la finezza anche psicologica: prima di tornare fisicamente a casa, il figlio minore torna in sé. Prima c’è un ritorno spirituale, ovvero interiore, che precede il ritorno fisico in casa. Ma la casa non è più la stessa, o, meglio, il figlio minore, che è tornato in sé, tornando vede la casa in modo del tutto diverso. La casa di per sé non è cambiata; è cambiata la mentalità, ovvero il modo di vedere la casa del Padre. E la “mens” è cambiata, quando il figlio minore è tornato in sé, riprendendosi quell’intelletto attivo, che era stato oscurato dalla “mens” distorta.
In altre parole, possiamo dire che, con la parabola dei due figli o, come oggi si preferisce dire “parabola del padre misericordioso” (anche qui avrei qualcosa da ridire, in quanto la parabola va letta nel suo insieme, come storia di due figli e di un padre), Luca non ha fatto altro che presentare un caso o un esempio di conversione interiore, in forza di quell’invito perentorio di Cristo: “Metanoèite!”, ovvero cambiate mentalità.
Anche chi è rimasto in casa, il figlio maggiore, doveva cambiare mentalità, ma non l’ha fatto pur rimanendo in casa, a differenza del fratello minore che è uscito di casa per poi rientrare dopo aver cambiato mentalità. Quindi, non è questione di casa (restarci o no), ma di come “vedere” la casa. La casa del padre, ripeto, non era cambiata dopo il ritorno del figlio minore, ma costui era cambiato, e perciò, tornando, ha visto la casa in modo radicalmente diverso, ovvero ha visto la casa come doveva essere.
Sì, il cuore della parabola sta in quel “tornato in sé”: il figlio minore ha cambiato mentalità, dopo che era tornato in sé, a differenza del fratello più grande, rimasto in casa, ma come se fosse sempre “fuori casa”. Notate un particolare: quando il figlio minore torna a casa, il maggiore si trova fuori casa: era “nei campi”, scrive Luca. E quando torna in casa, anche curiosamente preoccupato di quanto sta succedendo per il ritorno del fratello minore, rimprovera il padre avanzando meriti di uno che non ha capito nulla del cuore del padre.
In breve, possiamo dire che il figlio minore esce di casa e poi vi ritorna cambiato interiormente (è tornato in sé), mentre il figlio maggiore è sempre rimasto “fuori” casa, senza alcuna voglia di “tornare in sé”.
Certo, l’ha detta grossa don Primo Mazzolari identificando la Chiesa istituzionale con l’atteggiamento del figlio maggiore. E così, come era da prevedere, il suo libro “La più bella avventura. Sulla traccia del prodigo”, pubblicato nel 1934, venne condannato dal S. Uffizio l’anno successivo, in quanto considerato portatore, tra l’altro, di posizioni filoprotestanti. Era la prima di una lunga serie di condanne e di provvedimenti disciplinari che don Mazzolari ha dovuto pagare dicendo e scrivendo ciò che pensava. Gli venne anche proibito di predicare fuori della propria parrocchia. Questo circa cento anni fa, e voi pensate che oggi le cose siano cambiate? Diciamo anche: altri tempi, quando c’erano spiriti liberi nella Chiesa, e non preti canterini come oggi.
Lo stesso Ernesto Buonaiuti, prete scomunicato nel 1926 per modernismo (pensate che di modernismo fu accusato anche il cardinale Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921: quanto è immensa e diabolica l’invidia anche tra i santi, soprattutto se uno è culturalmente limitato, come lo era Pio X), ripeto, Ernesto Bonaiuti con il suo giudizio positivo per quanto aveva scritto don Mazzolari, non contribuì certamente ad alleggerire i sospetti del Vaticano nei confronti di un’opera che, commentando la parabola del figliol prodigo, non invitava soltanto all’amore incondizionato verso il prossimo, ma richiamava con forza la Chiesa ad aprirsi ai “lontani”, a tutti coloro che venivano troppo sbrigativamente considerati estranei, se non addirittura nemici, rispetto alla comunità cristiana. Nel fermo convincimento che «niente è fuori della paternità di Dio», don Primo immagina una Chiesa aperta all’umanità e impegnata a preoccuparsi della conversione propria, prima ancora che di quella del mondo, venendo di fatto a centrare col suo scritto il nodo del rapporto tra cattolicesimo e modernità.
Don Mazzolari parlava già ai suoi tempi del dovere che la Chiesa istituzionale si convertisse, prima di dettare legge agli altri invitandoli a cambiare vita.
Vorrei fare un paragone forse fuori posto o irriverente: sta succedendo nella Chiesa ciò che da anni succede nel mondo politico, dove si riscontra una totale incompetenza e una paurosa ignoranza di ciò che è la Politica, intesa, secondo Raimon Panikarr, come para-politica, ovvero quella politica che sta al di sopra di una carnalità paurosa, fatta di partiti e partitelli e di interessi personali da salvare e da potenziare.
Nella Chiesa succede una cosa altrettanto paurosa: Paolo VI parlava di una Chiesa “esperta in umanità”, e lo stesso papa spiegava: una Chiesa che “esce da se stessa per incontrare la storia”. Ma che significa? Certo, la Chiesa istituzionale deve “uscire” dalla propria struttura che vincola la coscienza e reprime gli spiriti liberi, ma per fare questo la Chiesa deve rientrare in sé per scoprire il mondo dello Spirito: più struttura si toglie, più possibilità di convertirsi. Ma non si tratta solo di una conversione individuale: bisogna tornare alle origini, quando il Cristianesimo, uscito dal pensiero di Cristo, non era una religione, che poi nei secoli assumerà sempre più le forme di un “grosso animale”, da cui si deve sì uscire, ma per rientrare nella purezza del Cristianesimo, nato sulla croce, quando Cristo, mentre moriva, ci donava il suo Spirito.
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