Omelie 2023 di don Giorgio: SECONDA DI AVVENTO

19 novembre 2023: SECONDA DI AVVENTO
Is 51,7-12a, Rm 15,15-21; Mt 3,1-12
Leggendo e rileggendo i tre brani della Messa di questa seconda domenica di Avvento, ci accorgiamo di quanto siamo deboli, fragili, precari, in balìa di forze maligne, che quasi ci opprimono togliendoci ogni ulteriore speranza e ogni attesa di un mondo migliore.
Ho detto giustamente “precari”, la cui parola nel suo senso etimologico significa “uno che prega”, uno che implora, uno che, riconoscendo umilmente la propria impotenza umana, invoca una divinità superiore.
Stiamo vivendo un periodo storico per un verso follemente drammatico e per l’altro tanto imprevedibile nel suo evolversi di male in male da chiederci se ci sarà una via d’uscita. Tutti cercano disperatamente alleanze, trattati, dialoghi, anche abbracci con i più forti, magari con le mani sporche di sangue innocente, ma in vista di che cosa?
Il mondo politico è confuso, tremendamente confuso, annaspa nel buio, vittima di se stesso, ovvero di una tale cortezza di vedute da credersi ora potente ora vittima, e il motivo è lì a dimostrare che non si vive di imbecillità culturale e politica, tanto più che la vera Politica, come dicevano gli antichi pensatori greci, vive di saggezza, di intelletto attinto al mondo del divino. Mi chiedo talora: la Politica nel suo significato più pieno che cos’è? Non è far sì che ogni cittadino viva di ben-essere, ovvero di quell’essere interiore che sta bene quando ci sono le dovute condizioni? La vera Politica non può dimenticare che siamo composti sì di corpo, ma anche di psiche/anima, e soprattutto di spirito.
E se appare quasi paradossale dire che la Politica vera attinge alla sorgente dell’essere, che dire di una religione, di una Chiesa che vive fuori, in periferia, all’esterno dell’essere interiore? Non c’è bisogno che dobbiamo uscire in periferia, lo siamo già, nel senso peggiore di camminare alla cieca in quella “regio dis-similitudinis”, nella terra della dis-somiglianza, di cui parlava Sant’Agostino, il quale si rifaceva a una espressione di Plotino, il quale si riferiva a una espressione di Platone.
Essere fuori di noi, essere in periferia significa essere divisi nel nostro essere, quando ci allontaniamo dalla immagine del Dio, Unico Bene Necessario, che già Platone e poi Plotino chiamavano l’Uno. Quando ci distacchiamo dall’Uno entriamo nella “regio dissimilitudinis”, nella terra della disgregazione, della frantumazione. Più ci allontaniamo dall’Uno, più ci dividiamo; entriamo nella molteplicità che separa lo spirito dalla nostra realtà esistenziale, e ci sentiamo confusi, dispersi, in balìa di forze cieche.
Ma in questo periodo abbiamo bisogno di speranza, di credere ancora che è possibile tornare all’Uno, a quell’Unità che ricompone l’umanità in una fratellanza universale: tutti siamo uguali perché figli di quell’Uno che è il Bene Sommo.
Fa bene a tutti sentir dire parole come “Io sono il vostro consolatore”. Parole che concludono il primo brano della Messa. E, sempre nel libro di Isaia, primi versetti del capitolo 40, troviamo queste altre parole, rivolte ai profeti: “Consolate, consolate il mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati».
Più che contorcerci in una disperazione perché siamo in balìa di forze maligne, incontrollabili, dobbiamo ciecamente rimetterci nelle mani dell’Onnipotente, che, essendo l’Unico Bene Necessario, è la Sorgente della nostra vita, a cui attingere a piene mani.
Dio è un Bene che infinitamente sovrabbonda, a patto che ci lasciamo riempire dentro di noi, facendo quel vuoto di cose che è indispensabile perché la Grazia di Dio operi nel profondo del nostro essere.
Sì, oggi soprattutto abbiamo bisogno di parole divine di consolazione: a che serve consolarci con parole umane, con auguri ipocriti o formali, se poi queste parole scivolano via come in un deserto?
Eppure, come dice il terzo brano, bisogna partire proprio dal deserto. È dal deserto che Giovanni il Battezzatore ha iniziato la sua missione di precursore: preparare la venuta del Cristo già incarnatosi nel grembo di una Vergine, Maria di Nazaret.
Ed ecco le parole del profeta Isaia, citate con qualche differenza dallo stesso evangelista Marco: «Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato».
Marco, ecco le differenze, dice: “Una voce grida nel deserto”, più esatto dire: “Una voce grida: Nel deserto…”. Bisogna andare tutti nel deserto, se vogliamo convertirci. Del resto Giovanni predicava sì nel deserto, e qui nel deserto invitava le folle a venire ad ascoltarlo.
Come si può pretendere di parlare alla gente, immersa nel rumore, distratta da mille cose? Bisogna portare la gente in un deserto, da intendere anche in senso fisico, ma da soprattutto in senso mistico. Così vanno intese le immagini della steppa, della valle, del monte, del colle, della pianura, del terreno accidentato, del terreno scosceso.
Quante immagini, che richiamano qualcosa di quell’interiore che si spoglia di ogni accidentalità, di ogni ostacolo perché il credente riprenda a ripercorre la via del Signore. Anche qui, attenzione: Marco sembra dire che dobbiamo preparare la via per il Signore che viene, in realtà dobbiamo ritrovare la via che è del Signore, far sì che il Signore ci porti sulla strada maestra, nel senso che è dell’Unico Maestro interiore. Certo, è una via stretta, come dirà lo stesso Gesù, ma non perché ci limita nella nostra libertà: stretta perché è essenziale, povera, nuda, perché le vie larghe sono quelle che comprendono tutto un mondo carnale che ci è di ostacolo.
Infine, notiamo le parole che l’evangelista Marco mette subito all’inizio della predicazione di Giovanni: Μετανοεῖτε, ovvero “convertitevi”, cambiate strada, o meglio “cambiate mentalità”, il vostro modo di pensare, di ragionare, di vedere le cose: lo stesso imperativo “Metanoèite” sarà ripreso dallo stesso Cristo, però in una luce diversa, oltre quel comportamento morale su cui sembrava insistere il Battista.
Per Gesù Cristo non si trattava di vedere le cose in un modo diverso secondo la legge morale, ma secondo la legge dello Spirito, che è la Grazia.
Nella Grazia tutto cambia: il nostro modo di vedere, perché illuminati dall’Intelletto divino, e naturalmente il nostro modo di vivere.
In questo senso verrebbe spontaneo dire: che tutto l’anno sia un avvento, da vivere di attesa nella Grazia divina.

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