La «180», quella legge che non era di Basaglia e non chiuse i manicomi, ma fu comunque rivoluzionaria

Rassegna psichiatrica

La «180», quella legge che non era di Basaglia

e non chiuse i manicomi,

ma fu comunque rivoluzionaria

di ALESSANDRO TROCINO
Tutti la chiamano «legge Basaglia», ma dovrebbero chiamarla «legge Orsini». Abbiamo la memoria corta e anche deviata. Una sorta di amnesia dissociativa, legata a un evento che fu traumatico, ma in positivo, per l’Italia: 45 anni fu approvata la legge 180, che pose le premesse per la chiusura dei manicomi in Italia.
Franco Basaglia è un padre della patria o dovrebbe essere considerato tale. Non lo conosce ancora nessuno quando, nel 1961, giovane direttore del manicomio di Gorizia, comincia a rendersi conto dell’orrore della segregazione e degli elettrochoc. Scriverà: «Quando sono arrivato c’erano cinquecento internati, ma nessuna persona. Ovunque vi era un odore simbolico di merda».
È l’epoca dell’antipsichiatria di Laing e Cooper, della critica delle istituzioni totali (carceri, brefotrofi, ospizi e manicomi) di Erving Goffman. Si nega la malattia mentale, si enfatizzano le cause sociali. Basaglia viene associato a questa corrente, anche se non negò mai l’esistenza della follia. La sua azione fu quella di dare un volto e una storia agli internati, che da allora divennero individui. Chi volesse fare un tuffo nel clima dell’epoca, può guardarsi su Raiplay un piccolo capolavoro del documentario, «I giardini di Abele», di Sergio Zavoli (1968). Alla domanda: «È più interessato al malato o alla malattia?», Basaglia risponde: «Decisamente al malato».
La sua idea è quella di «slegare i matti». Liberarli letteralmente dai letti di contenzione, dalle cinghie di cuoio che li tenevano in uno stato di immobilità perenne, dagli elettrochoc. Lo slogan, anzi gli slogan che danno conto di questo slancio furono trasformati in graffiti da Ugo Guarino, uno dei nostri più geniali disegnatori (ha illustrato per anni gli articoli della «Stanza di Montanelli, sul Corriere). Campeggiano ancora oggi sui muri diroccati dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni, a Trieste: «La libertà è rivoluzionaria»; «La libertà è terapeutica».
Si diceva della legge. Le cose sono diverse da come vengono spesso raccontate, almeno per quattro aspetti. Non fu voluta da Basaglia. Non ha chiuso i manicomi. Fu una legge transitoria. Non fu mai davvero applicata.
Basaglia non l’apprezzò affatto, avvertendo di non farsi prendere da facili euforie. Si tratta piuttosto di un compromesso – come racconta «La repubblica dei matti», di John Foot – nato sull’onda della campagna referendaria dei radicali di Marco Pannella. Avevano già raccolto 700 mila firme, bisognava fermarli, prima che facessero troppi danni. Per questo il Parlamento fu costretto ad affrontare il problema. Non c’era tempo per l’Aula e si decise di fare tutto nelle Commissioni Sanità. La legge non si occupava di manicomi ma era intitolata «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori». L’0pinione pubblica e la politica erano comprensibilmente distratti: poche settimane prima, Aldo Moro era stato rapito. L’Italia era sotto choc. Il 9 maggio viene trovato il suo cadavere. Il 13 viene approvata la legge, dai pochi parlamentari delle Commissioni.
A volerla davvero, visto che fu un compromesso, furono i democristiani, d’intesa con i comunisti. Il relatore Bruno Orsini, psichiatra ma della scuola più moderata non di psichiatria democratica; e poi Paolo Cirino Pomicino e Susanna Agnelli. Una legge rivoluzionaria fatta dai democristiani? Dal bistrattato Cirino Pomicino? La verità storica, talvolta, è meno romantica della narrazione che si costruisce nel tempo. O forse di più, perché vuol dire che ci fu un tempo in cui persino i democristiani furono rivoluzionari.
Tra i più grandi oppositori, c’era lo scrittore Mario Tobino. Che disse: «Il risultato della 180 fu abbandono dei deboli, degli indifesi, fallimento generale. È un esempio di disumanità, di profondo cinismo». Eppure certe sue osservazioni entrarono nella legge e Orsini disse: «Noi non vogliamo la vittoria dell’antipsichiatria, vogliamo l’umanizzazione della psichiatria».
Non è un caso che, oltre a Basaglia, a schierarsi contro la legge fu Pannella: «Intervenite per non fare. Avete fatto ancora una volta una sceneggiatura non un disegno di legge. Adirete a una sceneggiatura che manca di fantasia e di rigore e avete concepito una situazione che disegna un mediocre processo kafkiano: quanti processi kafkiani saranno vissuti da quelle decine di migliaia che vivono oggi processi di violenza letale?».
In quel periodo i manicomi erano 90 e i ricoverati 100 mila. Dovranno passare decenni prima che si chiudano davvero tutti i manicomi. La legge stabiliva solo che non si potevano più aprire nuovi manicomi. E cambiava status agli internati, che diventarono pazienti a tutti gli effetti, muniti di diritti. Le nuove strutture erano i Centri di igiene mentali (ambulatori sul territorio) e i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (negli ospedali), per i disturbi in fase acuta.
La legge 180, nella sua forma originaria, durò solo otto mesi. Poi fu modifica e integrata in una più ampia riforma sanitaria, la 833. Ma, commenta Foot, molti opinionisti continuarono, e continuano, a riferirsi alla riforma originaria.
La riforma, peraltro, delegava agli enti territoriali l’applicazione vera. E per questo produsse ampie disparità in Italia. E ancora oggi risulta non applicata in molte parti, per carenza di fondi e volontà politica. Pannella aveva già detto tutto in Parlamento, criticando la vaghezza delle norme, chiedendo come sarebbero state applicate, con quali risorse, con che obiettivi.
Abbandonato il furore pragmatico di Pannella, ne uscì un dibattito ideologico. Già nel 1984 il comunista Antonello Trombadori si scagliava, in un’intervista all’Europeo a Giampiero Mughini, e poi in radio da Gianni Bisiach, contro «i dogmatici dell’una e dell’altra sponda».
I dogmatici non se ne sono mai andati, sono rimasti sotto traccia, sostituiti dagli indifferenti, quelli che lasciano scorrere le cose come sono. Il risultato è una legge mai applicata. Prova un bilancio Giovanna Del Giudice, presidente della «Conferenza per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia»: «Oggi soffriamo un drammatico calo di risorse. Mancano migliaia di operatori. I fondi per la salute mentale sono soltanto il 2,6% di tutta la spesa sanitaria, erano il 3,1%, addirittura diminuiti nell’ultimo anno, mentre la sofferenza mentale in particolare tra i giovanissimi è esplosa. C’è una regressione culturale sia delle pratiche sia dei dispositivi organizzativi, sono soltanto venti su 320 i servizi di diagnosi e cura che non legano i pazienti. La terapia sta tornando ad essere unicamente farmacologica e avanza la cultura dell’internamento». Lo psichiatra Massimo Ammaniti conferma: mancano 10 mila operatori, i fondi sono meno del 3 per cento, mentre negli altri Paesi europei sono in media del 10 per cento rispetto alla spesa sanitaria.
La cultura repressiva riaffiora quando accadono eventi tragici come quello della psichiatra Barbara Capovani uccisa da Gianluca Paul Seung, Un evento che ha smosso le coscienze e portato la Lega a chiedere una modifica della legge, si immagina in senso restrittivo, e il governo a ragionarci sopra. Tutto ha a che fare, più che con la 180, con la legge che nel 2014 portò al superamento degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Altra riforma incompiuta. Gli Opg furono sostituiti dai Rems, residenze per le misure di sicurezza, strutture sanitarie residenziali con non più di 20 posti letto. Luoghi che però sono diventati un po’ il rifugio dei magistrati, che inviano non solo persone con disturbi psichiatrici ma anche persone con comportamenti antisociali, pericolosi e a rischio di atti violenti. Come è il caso di Seung.
Le 31 Rems italiane sono diventate (anche in seguito a una sentenza della Cassazione del 2005) il parcheggio di indagati sottoposti a misure di detenzione provvisoria. Il che allunga la lista di attesa di persone che hanno davvero disturbi psichiatrici e che rischiano di non trovare posto. Il tempo medio di attesa è di 304 giorni, in certe regioni del Sud si va fino a 458 giorni. E rende le strutture pericolose: ci sono solo due guardie giurate a proteggere i sanitari. Per i malati pericolosi con disturbo di personalità servirebbero, dice Alfredo Sbrana, pisano come Capovani, «proiezioni territoriali in carcere», dove la polizia penitenziaria possa proteggere i sanitari che vengono a stabilizzare le persone.
Franco Corleone, radicale che fu commissario unico nella vicenda della chiusura degli Opg, sull’Espresso invita ad «affermare il criterio della responsabilità anche dei soggetti con disabilità psicosociale. Il processo aiuta la consapevolezza e il giudizio, senza accanimento, può facilitare percorsi individuali di cura per scontare la pena in strutture non carcerarie. La responsabilità è terapeutica».

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