20 agosto 2017: UNDICESIMA DOPO PENTECOSTE
1Re 19,8b-16.18a-b; 2Cor 12,2-10b; Mt 10,16-20
Ogniqualvolta rileggo l’episodio di Elia in fuga nel deserto perché minacciato dalla perfida regina Gezabele trovo sempre qualcosa di nuovo, che mi aiuta a cogliere ciò che precedentemente mi era sfuggito oppure nemmeno mi aveva sfiorato nella mente.
Eppure non si tratta di qualcosa di accessorio o di particolare utile ad abbellire la sostanza del messaggio, che oramai sembra abbastanza chiaro, e mi riferisco soprattutto alla parte centrale del brano, quando Elia s’incontra con la misteriosa presenza di Dio, resa visibile non attraverso il vento gagliardo o il terremoto o il fuoco, ma il sussurro di una brezza leggera. Notate le tre parole: sussurro, brezza, leggera.
Ed è proprio tenendo conto di questa leggerezza divina che nel passato mi sono soffermato per spiegare dove tale presenza divina avviene, ovvero nel nostro essere interiore. Considerazioni senz’altro importanti, su cui tornerò ancora.
Il Dio di sangue di Elia e il Dio dello Spirito
Ma la cosa diventa ancor più interessante, se accostiamo il Dio assetato di sangue del profeta con il Dio della interiorità dell’essere. Mi spiego.
Finora non ho mai pensato di collegare l’episodio della caverna, dove Elia incontra Il dio della leggerezza con la causa della sua fuga nel deserto. Ovvero: ho sempre ritenuto l’incontro di Elia con il suo Signore nel sussurro di una brezza leggera come fosse una parentesi, diciamo mistica, della sua vita avventurosa, quasi un bisogno di un relax di pace interiore. Ma non è solo così. C’è dell’altro.
Perché non farci la domanda: il Signore, apparendo al suo profeta perseguitato, più che una soddisfazione del tipo consolatorio, per poi tra l’altro immergerlo di nuovo nella triste realtà della vita, non ha forse voluto dargli un rimprovero, proprio attraverso l’immagine delicata della brezza leggera, per quanto Elia aveva fatto trucidando con le sue stesse mani i profeti di Baal? Il problema non è il fatto che sia stato Elia in persona a uccidere i profeti. Anche se li avesse fatti uccidere, nulla cambierebbe. Il vero problema è la visione da parte di Elia di un Dio ancora vendicativo e assetato di sangue. Nessun esegeta moderno sostiene che era Dio stesso a ordinare stragi o a incitare alla guerra. Eppure, pensate a ciò che poi succederà anche nella stessa Chiesa di Cristo.
Se l’episodio di Elia che uccide o fa uccidere ben 450 profeti di Baal mi fa ancora sussultare sulla sedia, non so cosa dovrei fare pensando alle guerre di religione e all’Inquisizione. Eppure, è sempre stato difficile sradicare dalle religioni l’idea di un Dio che punisce, che vuole sangue, che ordina stragi.
La persecuzione provvidenziale della regina
Ecco perché l’episodio di Elia che incontra il Signore nel sussurro di una brezza leggera è importante per cambiare le nostre idee religiose: il Signore ha voluto far capire al suo profeta che la sua idea di un Dio vendicativo era errata, e che in fondo la regina pagana che lo voleva morto è stata, paradossalmente, provvidenziale, perché quella fuga nel deserto ha permesso a Elia di riscoprire un volto diverso di Dio.
Il Dio dell’Antico Testamento e il Dio di Gesù Cristo
Certo, siamo sempre ancora nel dilemma: fin dove il Dio della forza del Vecchio Testamento (non c’è solo l’episodio violento di Elia) si concilia con il Dio dell’amore del Nuovo Testamento o, meglio, del Dio di Gesù Cristo?
Uno dei termini per indicare Dio, presente in numerosi scritti del Vecchio Testamento, è “sabaoth”, che significa “Dio degli eserciti”, ovvero Dio guerriero. Pensate che il termine “sabaoth” è rimasto ancora in qualche testo del Nuovo Testamento, ad esempio in un brano di Giacomo, tradotto però dalla Cei in “Signore onnipotente”. Ma che dire del “Sanctus” che si recita o si canta prima della consacrazione della Messa? Ecco le prime parole: “Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth”. Anche qui Sabaoth viene tradotto in “Dio dell’Universo”.
Questo sta a significare quanto sia difficile togliere dalla mente dei credenti il concetto di un Dio forte, onnipotente, sempre pronto a mettersi in prima fila durante le nostre battaglie. Dall’imperatore Costantino che, come dicono, avrebbe fatto precedere le proprie truppe dal labaro imperiale con il simbolo cristiano del chi-rho, detto anche monogramma di Cristo, formato dalle prime due lettere della parola ΧΡΙΣΤΟΣ, cioè “Christòs” sovrapposte, alle famose parole di Hitler: GOTT MIT UNS, “Dio è con noi”, ci sono stati periodi violenti delle guerre di religione e dell’Inquisizione, sempre in nome di Dio. Di quale Dio? Del Dio degli eserciti!
Simone Weil, una tra le più grandi pensatrici del secolo scorso, che era di origini ebraiche, non sopportò mai l’idea di accettare la concezione di Dio presente nei testi dell’Antico Testamento. Secondo la Weil era il Dio della forza, della violenza, della vendetta.
È nota la dura opposizione di Simone Weil nei riguardi dell’ebraismo e dell’impero romano, perché entrambi fondati sulla forza. E ironizzava a proposito di Roma come patria del diritto. Certo, il diritto del più forte!
Il Cristo di Simone Weil è il servo sofferente di YHWH, che si fa carico del dolore dell’intera umanità, ed è l’unico in grado di rispondere agli interrogativi più tragici che sgorgano dal cuore dell’uomo, proprio in virtù del fatto che ha condiviso la “pesantezza” dell’umana condizione. È su questa linea che va a collocarsi la distanza critica della filosofa dalla concezione che Israele ebbe di Dio. Alla radice ebraica del cristianesimo la Weil oppone quella greca e ravvisa una continuità positiva fra la grande sapienza ellenica – quella del sommo Omero e dell’amatissimo Platone – e il Vangelo. In questo contesto, non meraviglia neppure la posizione duramente critica da lei assunta nei confronti della Chiesa: ai suoi occhi, l’istituzione ecclesiastica è del tutto inutile al fine di stabilire un contatto salvifico con Gesù Cristo; anzi, essa rappresenta una indiscutibile testimonianza della corruzione del cristianesimo, che si è trasformato in religione della forza e della visibilità.
Possiamo anche non essere del tutto d’accordo con Simone Weil, ma credo che noi cattolici dovremmo fare un serio esame di coscienza. Più che sul passato, direi sul presente.
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