20 ottobre 2013: Festa della Dedicazione del Duomo di Milano
Is 60,11-21; Es 13,15-17.20-21; Lc 6,43-48
La Diocesi ambrosiana ogni terza domenica di ottobre celebra la Dedicazione della chiesa cattedrale. Perché tale scelta? In una terza domenica di ottobre, esattamente il 20 di ottobre del 1577, San Carlo Borromeo consacrava il Duomo di Milano.
Come noi festeggiamo l’anniversario della nostra nascita, e come cristiani dovremmo ricordarci anche della data del nostro battesimo, così è doveroso ricordare la data della consacrazione del nostro Duomo, e in particolare anche della nostra chiesa parrocchiale. In tal caso, ricordare o commemorare significherebbe cogliere l’occasione per prendere coscienza di ciò che il Duomo o la chiesa particolare rappresenti.
Già dire duomo è dire casa, dire chiesa è dire assemblea. Dunque, si tratta di una casa dove ci si raduna per pregare e per ascoltare la Parola di Dio. La preghiera e l’ascolto si fanno un corpo solo in ciò che noi chiamiamo Messa. Parentesi. Il termine Messa, che così com’è, fuori dal contesto di una lunga frase in lingua latina che indicava lo scioglimento dell’assemblea, non dice nulla, andrebbe sostituito con eucaristia, che, a sua volta, inizialmente fino al secondo secolo era chiamata “fractio panis”, la frazione del pane, o lo spezzare il pane. Un’altra cosa. Sinteticamente, l’Eucaristia o la fractio panis è divisa in due parti: la mensa della Parola e la mensa propriamente eucaristica. Nella prima parte si spezza la Parola di Dio, ovvero la si comunica offrendone quasi dei bocconi per potersene nutrire; nella seconda si spezza Cristo stesso, la Parola che si è fatta carne. Due parti strettamente unite, diciamo complementari. Al limite, la seconda parte potrebbe anche rimanere in sospeso, ma lo spezzare la Parola di Dio è in ogni caso indispensabile; potrebbe anche restare a lungo in attesa che si trasformi poi nel nutrimento del Cristo incarnato. Questo per dire quanto sia importante nutrirsi della Parola di Dio. Il che, oggi, non sembra così vitale, dato che i cristiani non sentono tanto impellente il bisogno di nutrirsi di una Parola sostanziosa.
Per non farmi prendere da considerazioni che mi porterebbero lontano, vorrei soffermarmi ora sui brani della Messa. Parto dal primo, che fa parte del libro di Isaia. Come sempre, andrebbe messo nel contesto generale dei capitoli che, in questo caso, vanno dal 60 al 62. L’anonimo profeta, noto come il terzo Isaia, vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e negli anni successivi, dal 520 a.C. in avanti, annuncia con toni anche enfatici, cioè esagerando, la salvezza destinata alla nuova comunità che in Gerusalemme sta risorgendo. Dopo la batosta che aveva distrutto Gerusalemme e il Tempio nel 586 a.C. e il lungo periodo vissuto in esilio a Babilonia, durato più di cinquant’anni, gli ebrei tornati in patria sentono il bisogno di rifare la nazione e di costituirsi ancora come popolo. Sì, come popolo! Sentirsi un popolo unito è sempre stata l’esigenza degli ebrei. E tale esigenza è presente ancora oggi. Il profeta che cosa fa? Incoraggia i suoi connazionali, e annuncia loro la promessa di Dio. Qui dobbiamo intendere bene che cosa significava per i profeti la parola promessa. Noi solitamente, quando sentiamo parlare di promessa, siamo impazienti, e vorremmo che si realizzasse subito. Pensate alle promesse elettorali.
La promessa di Dio, però, va intesa con un ampio respiro: richiede un lungo percorso, proprio perché Dio non ama esaurire la sua Parola in poco tempo. La Parola di Dio è oltre il tempo: l’immediatezza non è il suo stile.
Dunque, la promessa annunciata dai profeti andava oltre un determinato periodo storico: la promessa della salvezza di Dio non si è mai realizzata in pieno, neppure quando il Messia apparirà sulla terra. Neppure oggi la descrizione che il profeta fa dello splendore di Gerusalemme, da intendere come simbolo dell’umanità rinnovata, trova la sua pienezza. Siamo ancora qui a soffrire, tra distruzioni e esili, benché pronti a rinascere, ma poi di nuovo a ricadere negli antichi errori. Tuttavia la parola di Dio è di conforto, perché ci rincuora, ci spinge a guardare in avanti. Sembra che tutto crolli, che non ci sia più speranza, ma Dio è sempre oltre. Ci attende al di là del burrone, invitandoci a uscire da ogni situazione umanamente impossibile. Dio non conosce la parola “impossibile”. La promessa di Dio va intesa in questo senso: Dio realizza il suo disegno, ma non immediatamente, tutto e subito, ma la certezza c’è che prima o poi lo realizzi. Dio lo promette, e Dio mantiene sempre la sua parola.
Ma le infinite possibilità di Dio che rappresentano il mondo dell’imprevedibile non sono legate a qualcosa di materiale, a qualcosa di terreno. Noi, purtroppo, confondiamo facilmente terreno con umano, anche perché siamo stati educati dalla religione a distinguere marcatamente ciò che è religioso da ciò che è terreno o umano, dimenticando che il Figlio di Dio, incarnandosi, ha assunto in pienezza l’Umanità. E poi è successo, non solo per il popolo ebraico, ma anche per noi cristiani, che abbiamo fatto di ciò che è terreno o materiale un qualcosa di magico, dimenticando che tutto ciò che è umano ha nel suo dna qualcosa di divino. Dire umano non è la stessa cosa che dire terreno, che ha forti limiti, che è condizionato dal tempo. Cristo, incarnandosi, facendosi dunque uomo, ha riscoperto dell’Umanità i suoi valori di eternità. Ed è successo, e succede, lo ripeto, che la religione parli di eternità, e poi anneghi nel mondo materiale, nel mondo dell’effimero, nel mondo del maligno che illude facendo credere che, trasformando le pietre in pani, tutto sia possibile, anche trasformando il capitale economico in opere di bene.
Tornando al nostro brano, il profeta descrive lo splendore di Gerusalemme e del suo Tempio dando alle parole: splendore, Gerusalemme e Tempio un significato altamente simbolico, ma non per questo solo ideale. Arriverà il momento in cui la parola di Dio si realizzerà, ma nel frattempo spetta a noi fare i dovuti passi, i dovuti passaggi dalla violenza e prepotenza all’amore e alla pace, dalla ingiustizia al diritto come fratellanza universale. Certo, siamo ancora qui a chiederci se sia possibile un mondo in cui la legge sono il diritto e la pace. Come credere alle parole del profeta, che sono la promessa di Dio: “Costituirò tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia… Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in eredità la terra”?
Crediamo o non crediamo che tutto ciò prima o poi si realizzerà? E, nel frattempo, ciascuno di noi che cosa sta facendo perché il mondo cambi? Certo, ci lamentiamo, borbottiamo, ma ciò basta, se poi tutto finisse in una sterile lamentela?
Il brano del Vangelo, Luca 6, 43-48, parla di un albero, simbolo della nostra vita, che può produrre frutti buoni o frutti cattivi. Dai frutti si riconosce se un albero è buono o cattivo. Poi Gesù dice: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene”. Fermiamoci qui: cerchiamo di essere ottimisti. Consideriamo la bontà di fondo dell’essere umano. Non credo che la società andrebbe divisa tra buoni e cattivi, ma tra chi sa trarre le migliori energie dal proprio essere e chi non le sa sfruttare. Il fondo comune è la bontà e le sue possibilità di realizzazione. C’è chi le sfrutta al massimo, o anche solo in parte, e c’è chi non sa cogliere le possibilità di bene che ha dentro. Una volta si parlava di peccati di omissione. Omissione significa: io tralascio di fare il mio dovere, di compiere un certo bene. Questo è il vero peccato dell’umanità. Ognuno di noi ha quasi infinite possibilità di bene, e non le sfrutta come dovrebbe. In media, ciascuno di noi sfrutta forse neanche il dieci per cento di ciò che ha dentro: le sue quasi infinite possibilità rimangono sterili, non utilizzate, come morte. Il male c’è, e lo si vede, perché il bene non è sfruttato come dovrebbe. Gli spazi vengono acquisiti o riempiti da coloro che tirano fuori dal proprio essere la parte peggiore. Certo, non è questione di riempire gli spazi, così come ha fatto finora la Chiesa, togliendo al male la possibilità di agire. Si tratta del come si riempiono gli spazi di questa società, non certo “cattolizzando” ogni struttura. Il bene non ha colore, non ha etichetta, diremmo oggi non è ideologico. Il bene è bene, e basta. Si tratta di esprimerlo nella sua qualità migliore, come il bene che fa parte dell’Umanità che Cristo ha liberato dal male, ma senza costringerla in un sistema religioso. Come l’essere umano, così l’Umanità deve saper trarre dal proprio cuore le realtà migliori, le sue infinite potenzialità di bene.
Già l’ho detto, ma se lo ripeto è perché credo che sia troppo importante insistere: il bene ha una tale carica di potenzialità da essere ancora più potente di una bomba atomica. Il nostro problema, anche e soprattutto di credenti, è che non crediamo abbastanza a ciò che potremmo essere, come sorgenti di energie di bene, tanto da convertire questo mondo da un sogno o da un ideale in realtà. Basterebbe poco: che ciascuno cominciasse a tirar fuori qualche possibilità di energie latenti, che ha dentro di sé.
La Chiesa, invece che preoccuparsi di salvare la propria struttura, invece che preoccuparsi di andare in giro a fare proseliti o seguaci, invece che insistere sui peccati come violazioni di precetti da essa stabiliti sempre in funzione di salvare la propria struttura, dovrebbe – è un imperativo categorico – aiutarci a capire ciò che noi siamo: un mondo quasi infinito di potenzialità di bene, da estrarre dal cuore di ciascuno. Ma la Chiesa ha paura: teme che così il suo mondo tipicamente religioso esploda tra le sue stesse mani. L’essere umano, da milioni di anni, dall’inizio della sua storia, ha sempre avuto chi lo ha frenato, lo ha inibito. È giunto il momento di dire: Tu, uomo o donna, sei così carico di bene da far tremare i potenti, da incutere paura al maligno, da rivoluzionare il mondo intero. Non si fanno le rivoluzioni con gli slogan, o con le mezze parole, o con qualche gesto di bontà. Ci vuole ben altro. Dobbiamo togliere paletti e steccati, e dare via libera alle quasi infinite potenzialità di bene che ciascuno di noi ha dentro. Invece che obbedire alla struttura, obbedienza che è la tipica arma della gerarchia, dobbiamo d’ora in poi obbedire alla propria coscienza.
Condivido quanto esprime don giorgio,anche se a volte ha
frasi un po’ forti!