di don Giorgio De Capitani
A maggio, i cittadini del nuovo Comune “La Valletta Brianza” (Perego e Rovagnate) saranno chiamati a votare per eleggere la nuova amministrazione. In quanto cittadino, residente a Cereda, ho il diritto e il dovere di dire la mia. Nessun divieto di Angelo Scola potrà impedirmelo. Non posso dir Messa nella Valletta? Mi adeguo. Ma non posso svestirmi del fatto di essere cittadino, ovunque, iniziando dal contesto dove abito.
Inizierò a stendere delle riflessioni sul Bene comune, che è il cuore di ogni amministrazione, così come è l’essenza della Politica.
So di parlare magari a vuoto. Non è facile elevare il discorso con gente, che è stata abituata da secoli a obbedire ai propri capi: prima ai padroni e ai preti, poi ai leader politici, che cambiavano sigla e ideologia (prima Dc, poi Lega e Destra berlusconiana), ma sempre nell’ambito di quel gioco altalenante di imbonitori che distribuiscono a piene mani promesse di pancia.
È vero: la religione ha insegnato ben poco di buono, visti gli effetti di oggi. Una religione attaccata alla pelle, ma senz’anima! E si continua ancora così, nella cecità più assoluta, lasciando che i brianzoli si accontentino di qualche salamella o di festicciole con tanta parvenza di solidarismo ipocrita, bestemmiando nello stesso tempo quel Cristo che sulla croce non ha detto al mondo: “Fate i cazzi vostri! Ognuno per sé…”, e non ha insegnato il detto: “Pancia mia, fatti capanna!”.
Sono andato a rileggere gli articoli che avevo scritto, quando ero a Monte, sul foglio settimanale “A proposito di…”, durante la campagna elettorale per le amministrative di Rovagnate del 2007. Li ritengo ancora degni di considerazione, perciò traggo alcuni spunti per le riflessioni sul Bene comune.
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Dopo le riflessioni sul Bene comune in genere, ecco ciò che dovrebbe stare più a cuore a un sindaco e ai suoi più stretti collaboratori: quel bene che è il cuore del Bene comune, cioè la realtà giovanile.
La realtà giovanile è il futuro di un paese. Non si possono, tuttavia, dare ai giovani spazi “liberi”, ma lasciando un paese vecchio e senza futuro. Pensare e preoccuparsi della realtà giovanile è costruire un paese giovane, dove i giovani possano trovarsi a loro agio: non per comodo, o solo perché in tal modo creano meno problemi: basti pensare a quei fenomeni allarmanti, che soprattutto oggi, nelle democrazie passive o delegate, costituiscono spine pungenti nei fianchi di una società immobile e amante del quieto vivere.
Realtà giovanile è quel mondo di energie che danno una tale giovinezza da coinvolgere l’intero paese, il quale potrà in tal modo crescere sempre giovane, così che i giovani di oggi preparino i più giovani del domani a continuare nella novità che rinnova.
Dunque, quello dei ragazzi e dei giovani non è un problema fine a se stesso, non lo si risolve dando loro spazi propri entro cui lasciare che se ne stiano buoni buoni con la libertà assoluta di autogestirsi, il che significa: fare ogni esperienza che viene in mente, o meglio, secondo l’onda del momento che – chissà perché non lo si vuol vedere! – è quella imposta dal sistema perverso di un certo mondo adulto. Poveri questi giovani, in balìa di un sistema che li strozza nella loro libertà; e loro, questi giovani alla mercé dell’imbonitore più accattivante, neppure si accorgono di essere solo “apparentemente” liberi, inseriti in un ingranaggio, i cui componenti meccanici sono così ben oleati che non fanno rumore, che anzi sembrano accarezzare ogni componente con mani vellutate.
Secondo alcuni sindaci (e non solo loro), il problema giovanile è facilmente risolvibile, offrendo ai giovani un locale tutto per loro, o uno spazio all’aria aperta (d’estate, naturalmente), lontano dalle abitazioni, per evitare contestazioni di cittadini disturbati nella loro quiete.
Ma il problema vero è un altro. Non si tratta di anestetizzare gli istinti giovanili, lasciandoli sbollire in una falsa convinzione che quello spazio d’autogestione “conquistato” con chissà quali sacrifici sia un sogno raggiunto (che poi dura poco, solo quei pochi anni di transizione, passati i quali chi si è visto si è visto!). Il vero problema sta nel saper educare i ragazzi e i giovani ad acquisire una “coscienza civica”, tale per cui loro stessi si sentano protagonisti nel dare al Paese la sua misura d’Uomo. A iniziare dal proprio piccolo. Questi giovani cosiddetti impegnati nel sociale (pochi in realtà, per di più timidi e quasi anonimi) credono che basti interessarsi di globalizzazione o fare qualche gesto per la pace o starsene buoni buoni in qualche gruppo di volontariato, per sentirsi “impegnati”. E chi poi li vede nel loro paese, negli ambiti che coinvolgono in qualche modo la realtà del loro ambiente esistenziale?
Il vero problema sta nel far capire ai giovani d’oggi che il mondo è “loro”, non per goderselo in santa pace, ma per cogliere ogni attimo e riempirlo di speranza, di quella vitalità che può fare di ogni istante una grazia rinnovatrice. Altro che “carpe diem” inteso come: prendi per il collo l’attimo che sta per fuggire, fermalo, mungilo, sfruttalo più che puoi, spremilo come se fosse carico di chissà quali frutti! Ma se l’attimo è vuoto, come è vuoto il tuo cervello, quale frutto pretendi?
Sembra che oggi – e lo ripeto fino alla noia! – tutto il problema consista nel dare ai giovani degli spazi di tempo libero autogestibili, ma vuoti di valori. E che cosa si ottiene? Nessun risultato soddisfacente: i giovani rimangono nel vuoto, con la mente scarica. Agli amministratori però resta la soddisfazione di aver fatto qualcosa. Che importa il risultato? Tanto lo si sa: gli apparati statali (e non solo statali) non sono altro che un insieme di formalità, nomi prestati per l’occasione e per iniziative cartacee. Oltre, c’è il nulla. E non è a dire che il nulla di fatto metta poi in crisi gli apparati, i quali rimangono, anche se cambiano i nomi dati in prestito o le iniziative cartacee (i timbri servono per essere usati, altrimenti prendono la ruggine).
Perché gli enti pubblici (sto parlando di amministrazioni comunali) non prendono a cuore, veramente a cuore, la realtà giovanile (la realtà precede il problema: il problema quando si verifica testimonia un precedente vuoto educativo o legislativo), così da farne il cuore più palpitante di un paese, il cui futuro sta nelle sue migliori energie, nelle sue risorse più promettenti? E quali sono le migliori energie, le risorse promettenti?
E quando parlo di energie o risorse non alludo certo a cose, a strumenti, a mezzi tecnologici, a tutto quel mondo di avere che, sfruttato e manipolato a dovere, scatena una serie di impulsi di dominio e di predominio.
Un paese non si sviluppa solo sfruttando le sue risorse economiche e tanto meno – cosa deprecabile – speculando sulle risorse della natura, ma sulla capacità di realizzare al meglio le risorse “spirituali” dei giovani. Non sto qui a ripetere ciò che ho più volte detto a proposito delle risorse cosiddette “spirituali”, che non si limitano ad una questione di fede religiosa, e neppure riguardano quel mondo intimistico, in cui tanti si rifugiano per trovare quelle compensazioni interiori che hanno lo scopo di controbilanciare il peso di una vita noiosa imposta da una società materialista.
Le risorse “spirituali” dei giovani sono quelle energie interiori che fanno parte costitutiva dell’essere umano. Il problema sta nel disseppellirle, dal momento che fin dalla nascita la società, nel suo insieme (talora con il tacito assenso della religione), non fa che coprirle sotto un cumulo di cose. E il peso delle cose cresce con il crescere degli anni, facendo tacere la voce dell’”essere”. Le cose si impongono con il fascino allucinante dell’apparenza. Allucinante, perché l’apparenza inganna: le cose che non hanno senso – e il senso lo perdono con l’accumulo selvaggio – distolgono l’interesse dall’”essere”, che per la sua stessa natura si fa valere in sé, senza apparire.
La società prima rovina i ragazzi e i giovani fin dalla loro nascita, e poi ipocritamente vorrebbe salvarli, creando loro dei ghetti – li chiamano ambienti autogestiti! –, in cui tenerli a freno, lasciando che essi in tutta libertà (ovvero libertinaggio) sbolliscano i loro istinti, resi ruvidi e impazziti dalla stessa società consumistica, che comprende stato, religione e famiglia.
Non si tratta di fare un’opera preventiva, nel senso che i ragazzi e i giovani debbano essere preparati ad affrontare le cazzate che faranno, perché così è di moda, perché così fan tutti, perché è un passaggio obbligato. Anche la parola “prevenzione”, troppo usata e mal usata, andrebbe rivista e ripensata. Sembra quasi che tutto l’impegno stia nell’avvertire i ragazzi che non devono fare questo o quello, per evitare di cadere nei pericoli, o di entrare nell’onda della stupidità diffusa.
Se la società non fosse quella che è, se la cultura dominante non fosse quella demenziale omologazione del cervello in nome di una ideologia senza idee chiare e lungimiranti, se il potere non fosse quel diabolico predominio sulla libertà della persona, se… forse che saremmo qui a inventare una scalinata su cui lasciare che i nostri ragazzi e i nostri giovani stiano seduti, ammazzando il tempo e giocando con la vita?
È tutto sbagliato questo mondo, in cui ci si scaglia l’uno contro l’altro per occupare propri spazi, inventandosi giorno dopo l’altro motivazioni egoistiche sempre più assurde, in un contesto ormai globalizzato come l’attuale, in cui, che lo si voglia o no, siamo dentro tutti.
Come puoi dire ai ragazzi e ai giovani d’oggi che loro sbagliano a pretendere spazi autogestiti per chiudersi in un ghetto ammazza-futuro, quando la società – e la società ha un nome e un cognome nei suoi rappresentanti! – è la prima colpevole, la prima a dover fare un serio esame di coscienza, ed è la prima ad essere chiamata per ribaltare la situazione, senza tutti quei se e quei ma, che hanno sempre giustificato ritardi se non addirittura la situazione stessa.
E la società sono io, sei tu, siamo tutti noi adulti. Perciò prendiamoci la nostra piena responsabilità e poniamoci seriamente la domanda: se la società corre su binari sbagliati, cosa fare per rimetterla sui binari giusti? A che serve tamponare qualche falla, a che serve trovare spazi favorevoli, a che serve suonare i campanelli d’allarme, se non si ha il coraggio di fermarsi, di bloccare il treno e di prendere la strada giusta?
Ai giovani occorre dire come stanno le cose e coinvolgerli nella rivoluzione. Smettiamo di dir loro panzane e di lasciarli godere con le nostre panzane, educandoli a vivere di panzane, così da convincerli che con le panzane diventeranno i futuri seminatori di panzane. La ruota del mulino continua a girare e a macinare le stesse panzane, sempre più sottili, ma sempre panzane.
La società in generale, quella attuale, a livello nazionale, come nei piccoli comuni, è contrassegnata da molti disvalori, a prescindere dalla fede e dal credo politico di ognuno.
Farsi i fatti propri, privilegiare il proprio interesse, e via di questo passo.
Forse non sarà risolutivo neppure il far parte di qualche associazione assistenziale, ma quanto meno consente già di far comprendere che non esiste solo l’io, ma anche l’altro, colui che ha bisogno, anche se non basta per forgiare nuove idealità neppure nei giovani.
Nei piccoli centri, comunque, è già tanto quando si concedono cosiddetti spazi autogestiti, mentre una iniziativa più seria, improntata ad una certa educazione civica, intesa etimologicamente come educazione ad essere civis, colui che privilegia il bene comune della società di cui è parte, appunto, come tale, è opera decisamente più difficile.
Anche perchè diviene difficile concretizzare i contenuti di tale educazione.
Mi ricordo che a scuola esistevano taluni testi di educazione civica, che poi, di fatto, erano solo delle sorti di sintesi di principi fondamentali di diritto costituzionale.
Io credo che una buona educazione civica non debba ridursi a questo, ma debba sopratutto essere improntata a evidenziare due cose: importanza del bene comune e dell’impegno di ognuno per il bene comune, più che non essere corso sintetico di diritto pubblico o costituzionale.
Ma so anche che è un po’ un’utopia, i nuovi amministratori comunali, probabilmente, continueranno nella strada dei predecessori, riferiti ai comuni preesistenti, e realizzeranno, se ne saranno capaci, più o meno, alcune cose del programma elettorale, ma credo che neppure pensino a qualcosa da insegnare, da trasmettere alle nuove generazioni.
Al più, appunto, si vanteranno di aver pensato ai soliti spazi autogestiti, e per loro sarà già tanto aver fatto questo.
Sopratutto nei piccoli centri permane una tendenza alla conservazione di quel che sostanzialmente si è sempre fatto, basato sopratutto sul quieto vivere di ognuno nel proprio hortus conclusus.
Ognuno magari sollevando, se in politica, anche polemiche e dialettiche verbali con la controparte politica, ma poi spesso tutto si ferma qui, la vita continua nel suo solito tran tran, al limite interrotta da qualche festa a base di salamelle e vino rosso.
Ed il resto?
Ci penseranno i posteri, se a loro interesserà, credo che pensino in molti, anche quelli che si pavoneggiano per aver realizzato chissà cosa.
Mi pare, da quel che so, che le cose stiano così, sia nell’ambito delle istituzioni civiche, che delle parrocchie e del mondo religioso.
Ne resta confermata quella visione di paese chiuso su se stesso, nel grigio trascorrere di una vita noiosa e consuetudinaria che, a parte il lavoro e la propria vita familiare, offre poco altro, come dicevo in altri commenti, la classica passeggiata, il gioco a carte nel bar, e poi ognuno a casa sua, magari, appunto, i giovani in qualche contenitore autogestito, e poi più nulla.
Ognuno per sè e nessuno per gli altri, tranne magari i soliti proclami dei soliti politici.
Ma questi saranno sempre pronti a dire che il loro comune è quello meglio amministrato al mondo, qualunque sia la realtà effettiva di quel paese.