Omelie 2020 di don Giorgio: TERZA DOPO PENTECOSTE

21 giugno 2020: TERZA DOPO PENTECOSTE
Gen 2,4b-17; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21
Racconti allegorici o mitici
Il primo brano della Messa meriterebbe una particolare esegesi, ovvero interpretazione, proprio perché tutti gli esperti della Bibbia concordano nel chiarire che le prime pagine della Genesi, e ce ne sono altre, appartengono a quel genere letterario che si chiama allegoria. Ma sarebbe forse più esatto parlare di mito. Allegoria o mito, è certo che le prime pagine non vanno prese alla lettera, come ancora oggi vorrebbero imporre alcuni ottusi fondamentalisti, i quali, avendo occhi e cervello bendati, riescono a far dire alla parola di Dio le più grosse castronerie, facendole credere ai loro ottusi seguaci.
Ogni religione hai i suoi limiti e difetti, ma il più grosso peccato sta nel partorire al proprio interno dei degenerati mentali che inventano balle a tutto spiano, ingannando una massa dal cervello fuso.
Ma dobbiamo fare subito qualche chiarimento. Dire favola e dire mito o allegoria non è di per sé la stessa cosa. C’è una differenza enorme. Anche se in ogni favola c’è un insegnamento moralistico (pensate alle favole di Esòpo, tra l’altro bellissime), nel mito o nell’allegoria c’è molto di più di un insegnamento moralistico. Nel mito ad esempio c’è una verità che risale nel tempo fino alla creazione del mondo. Già gli antichi tentavano con i miti di dare qualche risposta ai grandi problemi esistenziali, e, proprio per questo, leggendo e interpretandoli bisogna evitare di cadere nel banale, come è successo per millenni per il racconto del peccato originale. Si sono fatte credere falsità anche da parte di una Chiesa che, illuminata dallo Spirito santo, avrebbe dovuto non farsi ingannare. Certo, oggi le cose sembrano in parte cambiate, ma si è ancora lontano da una interpretazione mistica della creazione dell’uomo e del peccato originale.
La bellezza e l’originalità del mito sta nel nascondere sotto simboli o allegorie delle verità importanti, ma i simboli o le allegorie vengono rappresentati da fatti, dialoghi, animali, piante, frutti, come in una fiaba, tranne che per la fiaba si sa che è una fiaba, ed è facile cogliere l’insegnamento morale, mentre il mito può contenere verità eterne, come nel caso delle prime pagine della Genesi. Occorre perciò attenzione, apertura mentale, capacità di cogliere ciò che intendeva dire l’autore del mito che solitamente non era un solo individuo, ma il mito era frutto di tradizioni secolari e anche millenarie.
Certo l’autore dei racconti mitici contenuti nelle prime pagine della Bibbia, essendo ebreo, quindi monoteista, ha dovuto purificare i miti togliendo ogni riferimento al politeismo presente nelle tradizioni degli altri popoli.
Creazione dell’uomo
Non sto qui a spiegare che nei primi due capitoli della Genesi ci sono due racconti, con differenze apparentemente notevoli, della creazione. Già questo dovrebbe far capire che chi ha messo insieme i due testi non aveva lo scopo di narrare dei fatti, ma di comunicare una verità al di là delle apparenti contraddizioni dei due racconti. Due versioni diverse di dire la stessa cosa, ovvero che Dio ha creato il mondo (sul come lasciamo alla scienza dire la sua) e che è successo qualcosa di strano all’inizio dell’umanità, diciamo pure una specie di disobbedienza nei riguardi di Dio.
Il primo brano della Messa fa parte del secondo racconto, il cui genere letterario è quello della narrazione popolare, presenta Dio che agisce in modo antropomorfico, assumendo cioè aspetti umani. Fermiamoci alla creazione dell’uomo. È rappresentata con l’immagine del vasaio che plasma la creta. Interessante notare una cosa. Scrive l’autore sacro: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». Dunque, sembra di capire che la creazione dell’essere umano è avvenuta in due tempi. Primo tempo: Dio plasma il corpo con polvere del suolo. Secondo tempo: Dio soffia nelle sue narici un alito di vita. Ed ecco l’essere vivente. Perché si mettono in evidenza questi due aspetti come se fossero cronologicamente separati: prima la formazione del corpo, poi l’infusione dello spirito? Forse per sottolineare l’importanza del secondo momento, quando Dio soffia il suo soffio vitale nel corpo. Ma c’è di più. Quell’alito di vita da dove proveniva? Da Dio stesso. Quell’alito di vita era una scintilla divina. E qui non possiamo non riprendere il primo racconto, quando Dio si limita a dire: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”. A parte il plurale (“facciamo…”), che secondo alcuni autori sarebbe un richiamo rimasto nel testo biblico rigidamente monoteista del politeismo dei popoli pagani, ma che poi verrà letto dalla Chiesa come un riferimento al Mistero trinitario, ciòche vorrei farvi notare è quell’alito di vita, o scintilla divina che è dentro ciascuno di noi, e quell’essere stati creati a immagine e somiglianza con Dio.
Allora possiamo capire alcune cose. Anzitutto: se è vero che la concezione ebraica dell’uomo era di vederlo come un tutt’uno, anima e corpo nel suo insieme, quindi non separati, invece secondo la concezione greca antica, a cui va tutta la nostra riconoscenza, siamo fatti di corpo, anima e spirito, che non sono certamente separati tra loro, ma non si può negare che la realtà più importante è lo spirito che dà vita a tutto, corpo e anima.
Inoltre, siamo stati creati da Dio a sua immagine e somiglianza (non certo nel corpo o nella psiche, ma nello spirito). Capiamo allora certe espressioni di Platone, di Gesù Cristo, di Plotino, di S. Agostino sulla dis-similitudine o dis-somiglianza, come se, certo per colpa nostra, avvenisse in noi una specie di rottura tra il nostro spirito interiore e l’anima e il corpo, tra il nostro mondo esteriore e il mondo divino, anche tra il nostro spirito interiore, quando viene sopraffatto dall’esteriore, e lo Spirito santo.
Sant’Agostino, nel libro “Le Confessioni”, che è la sua autobiografia, parla di “regio dis-similitudinis”, in italiano “regione della dis-somiglianza”, espressione con cui il Vescovo di Ippona si pentiva di essersi smarrito sui sentieri della lontananza dalla somiglianza divina. L’espressione “regione della dis-somiglianza” è presa da Platone che giunge ad Agostino tramite Plotino e una corruzione del testo (in realtà Platone parla di “mare”), per cui l’originario “mare della dissomiglianza” è divenuto “regione”. Ma c’è anche un richiamo di Luca 15,13: in regione dissimilitudinis pare riecheggiare, infatti, l’allontanarsi in regionem longinquam del figliol prodigo, lontano dalla casa del padre. Dunque, già secondo il platonismo, specialmente quello di Plotino, più gli esseri sono lontani dall’Uno, dal Bello o dal Bene, cioè da Dio, e quindi si avvicinano alla materia o al male, più essi sono dis-simili.

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