Omelie 2024 di don Giorgio: IX DOPO PENTECOSTE

21 luglio 2024: IX DOPO PENTECOSTE
2Sam 6,12b-22; 1Cor 1,25-31; Mc 8,34-38
Ero tentato di dire almeno una parola sul primo brano, ma avrei anche detto qualcosa di eccessivo, cercando di far capire che cogliere il nocciolo di ogni brano biblico, fosse anche una sola parola, richiederebbe più intelligenza di quanto si pensi, e per intelligenza non intendo possedere una vasta cultura, ma anche solo un flash di quella luce che lo Spirito non fa mancare a nessuno e tanto meno alle persone più umili e semplici.
Ecco, è proprio dalla parola “umiltà” che occorrerebbe partire per comprendere il gesto del re Davide di danzare, fisicamente indecente, davanti all’arca del Signore. Certo che prendere il gesto come pretesto per dire che a Dio piacciono le danze di esaltati (vedi gli adepti di certi Movimenti catecumenali) anche nelle chiese, durante la Messa, diciamo che l’imbecillità, essendo infinita come direbbe Albert Einstein, non tocca mai il fondo.
Più avvincente il secondo brano, dove l’apostolo Paolo sembra irrefrenabile nel presentare il contrasto paradossale tra la sapienza pomposa e vuota dei dotti e la semplicità essenziale ritenuta follia della Grazia di Dio.
San Paolo non ha mezze misure quando parla del Mistero divino nella sua essenzialità diciamo radicale, e della presunzione di chi si fa prendere dal delirio dell’onniscienza. E l’Apostolo non teme di suscitare scandalo tra pagani e ebrei parlando di un Dio folle che sceglie gli scarti umani per realizzare i suoi piani.
E l’Apostolo dei Gentili pensava alle parole di Gesù quando diceva: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».
Sì, San Paolo pensava al Magnificat, il canto degli “anawim”, ovvero degli umili, degli scartati, dei deboli, degli ultimi. Non dimentichiamo l’espressione “il resto d’Israele”, ovvero ciò che era rimasto di buono o di giusto tra il popolo eletto, un popolo soggetto nei suoi capi a tradire l’Alleanza col vero Dio, alleandosi con le popolazioni più forti. I profeti urlavano, ma il popolo non ascoltava: Dio scommette sul “resto di Israele”, su un pugno di giusti.
Risentiamo le parole di Paolo e stampiamole nella memoria e nel cuore: «Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio».
Solo qualche domanda: la Chiesa istituzionale, nei millenni della sua storia, con chi si alleava? Sento ancora oggi questa giustificazione: per proteggere i poveri bisogna allearsi con i ricchi e i potenti. Ma questo non è mai stato, non lo è ancora e non lo sarà mai il criterio di Dio, se è vero che, come si dice nel Magnificat, l’Onnipotente butta giù dai troni i potenti sempre piccoli e miseri, e svuota le tasche di cose dei ricchi.
Che cosa la Chiesa ha ottenuto alleandosi con i potenti e i ricchi? Forse qualche promessa di sovvenzioni del tipo monetario, ma sempre a discapito della sua libertà o autonomia che è doverosa per chi ha la missione di annunciare la Parola di Dio, che non può essere incatenata.
E che dire del mondo politico che, sembrerebbe più che naturale, è un continuo intreccio di alleanze opportunistiche: con chi? naturalmente con i più forti che sanno farsi valere a discapito dei diritti dei più deboli. Basta essere forti per dire che si ha ragione, vedi il criminale Putin, e si impongono trattati o negoziati per dividersi un bottino rubato ai più deboli. I cosiddetti pacifisti non capiscono, e non capiranno mai, imbecilli come sono.
Oggi la Chiesa istituzionale parla con bocca larga degli “scarti” con cui dover solidarizzare, ma in che senso? È il solito discorso del tipo sociale/assistenziale, in ogni caso sempre prevalentemente carnale, senza voler capire che la logica di Dio è esattamente il contrario della nostra logica, anche della logica di una Chiesa che, è vero, solidarizza o dice di solidarizzare con gli scarti umani, con i deboli e i poveri, ma usando gli stessi criteri dei ricchi, e le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Gli stessi ambienti educativi dovrebbero essere ambienti di scarto: essenzialmente poveri strutturalmente, e non di lusso, perché siano pieni di quello Spirito che scarta l’inutile per far posto al necessario.
Tempo fa, più o meno negli anni del pre e post Concilio Vaticano II si parlava di scelta (opzione) preferenziale (privilegiata) dei poveri. Apro una lunga parentesi. L’espressione è stata pienamente integrata nella dottrina sociale della Chiesa da Giovanni Paolo II. Essa proviene dall’America Latina, in primo luogo dalla corrente della Teologia della liberazione, ma anche dalle riflessioni sviluppate dai vescovi in due dei periodici incontri della CELAM (Conferenza episcopale dell’America Latina e dei Caraibi). Nella Conferenza di Medellín (1968) si è inteso mirare a una «distribuzione degli sforzi e del personale apostolico che dia preferenza effettiva ai settori più poveri e bisognosi». Ma sarà a Puebla (1979) che l’espressione «opzione preferenziale per i poveri» verrà direttamente utilizzata. Si può dire che di là essa si estenderà alla Chiesa intera. Precedentemente, subito prima dell’apertura del Concilio Vaticano II, nel Radiomessaggio dell’11 settembre 1962, Giovanni XXIII aveva dichiarato: «la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Il Concilio stesso parlerà poco della povertà, appena menzionata nella costituzione pastorale “Gaudium et spes” (nn. 3, 69, 88). Tuttavia un gruppo informale di lavoro, composto da una quarantina di Padri conciliari e animato dall’arcivescovo brasiliano dom Helder Câmara, diffonderà alla fine del Concilio un testo importante, di grande vigore, sull’impegno della Chiesa al servizio dei poveri, noto come «Patto delle catacombe» in quanto firmato al termine di una celebrazione eucaristica nelle catacombe di Domitilla, a Roma, il 16 novembre 1965.
Ma, ecco la mia domanda, e la pongo come uno che a quei tempi aveva lottato per una chiesa dei poveri. Chi sono veramente i poveri? Gesù aveva reso beatitudine la povertà in spirito, ovvero non aveva detto beati i poveri privi di spirito. Ci sono diversi incontri nel Vangelo in cui Gesù andava alla ricerca dei ricchi poveri di spirito per convertirli: pensate a Zaccheo. Certo, bisogna dare un pezzo di pane a chi ha fame, una casa o un lavoro a chi non ce l’hanno. Ma basta? Il vero dramma di oggi è sì anche una massa di miseri materialmente, ma forse da temere è una massa di benestanti che hanno tutto, e non hanno l’essenziale, e sono questi che hanno la pretesa di educare, di esercitare il loro dominio. E se è vero che dal mondo politico non possiamo aspettarci che ci parli di essere o di spirito, ma dalla Chiesa di Cristo sì, ovvero da quella Chiesa che è nata sulla croce mentre il Cristo si spogliava della sua carnalità per donarci il suo Spirito. Ma succederà di tutto nella storia millenaria della Chiesa, e siamo ancora qui a parlare di ricchi e di poveri, senza aver capito il vero messaggio della Buona Novella.
“Metanoèite”!”, cambiate la vostra mentalità che pensa carnale, educate già i poveri materiali a non tradire i loro valori spirituali. I poveri educati male quando avranno più del necessario, cadranno tra le braccia del più lurido borghesismo.

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