Omelie 2018 di don Giorgio: DEDICAZIONE DEL DUOMO DI MILANO

21 ottobre 2018: DEDICAZIONE DEL DUOMO DI MILANO
Is 26,1-2.4.7-8; 54,12-14a; 1Cor 3,9-17; Gv 10,22-30
La Dedicazione del Duomo di Milano è una solennità celebrata dalla Liturgia di rito ambrosiano nella terza domenica del mese di ottobre. La solennità e la sua data vennero istituite da S. Carlo Borromeo nel 1577, in memoria del fatto che la terza domenica di ottobre del 1418 papa Martino V consacrò l’altare maggiore dell’antica cattedrale milanese.
Quindi, è una ricorrenza celebrativa molto antica. Ci chiediamo che senso possa avere ancora oggi. Credo che un senso ce l’abbia, visto che ancora oggi ricordiamo la nostra nascita. Ogni data può essere un’occasione non solo per festeggiare un evento del passato, ma per risvegliare in noi ciò che quell’evento può rappresentare ancora oggi.
Etimologie
Anzitutto, che cosa significa la parola “duomo”? Deriva dal latino, e significa “casa”. Per i credenti è la casa di Dio. Però, quando si pensa al Duomo si pensa ad una casa di Dio del tutto speciale: sia dal punto di vista architettonico, sia dal punto di vista dell’importanza che ha, in quanto è la casa madre di tutte le chiese disseminate in ogni luogo della diocesi. Già dire maternità richiama una prima cosa paradossale: in realtà, la casa madre viene gestita da un padre, che è il pastore che guida una diocesi. E così le chiese figlie vengono ancora guidate dai pastori a capo delle parrocchie.
Il Duomo viene anche chiamato Cattedrale, parola che deriva da “cattedra”, e la cattedra rimanda all’insegnamento. In ogni scuola c’è una cattedra, su cui sale il maestro o il professore per insegnare agli alunni.
In ogni Duomo c’è dunque una Cattedra da dove scende una parola autorevole, che è quella del vescovo. Già dire autorevole fa pensare alle parole del Vangelo. Marco, capitolo 1, versetto 21, scrive: «In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, (a Cafàrnao), insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”.
Autorità qui non significa autoritarismo, come di chi parla perché ha dalla sua il potere della parola, ma significa autorevolezza, come di chi insegna cose che nascono dal profondo, là dove la verità è spirito di vita.
Osservazioni
Forse sarà per un difetto congenito, ma anch’io talora mi lascio trasportare da quel facile entusiasmo utopico per cui idealizzo ciò che per me possono rappresentare certi luoghi, certe istituzioni, certi punti fermi, soprattutto nel campo della fede. Ed è per questo che, nello stesso tempo, continuo a lottare perché si possa in qualche modo attuare qualche desiderio, qualche sogno, o, per lo meno, si apra qualche spiraglio di speranza.
Che mi si creda o no, il mio unico interesse non è la critica per amore della critica in sé, quasi per un gusto di screditare chissà quale istituzione e i suoi rappresentanti, ma quanto vorrei che, soprattutto nei momenti difficili come l’attuale, si dia la possibilità alla gente di ancorarsi a qualche appoggio di valore.
Per stare al tema di oggi, ovvero alla consacrazione dell’altare del Duomo di Milano, mi è istintivo pensare ad una Chiesa madre e modello, a cui riferirmi per avere qualche ispirazione o qualche stimolo nel campo della fede.
Sappiamo quanto Carlo Maria Martini sia stato un grande in questo senso. A quei tempi, il Duomo rappresentava, non solo per i milanesi in senso stretto, un punto di richiamo e di riferimento: la sua parola era veramente autorevole. Il suo tono di voce, anche calmo e dimesso, poteva sul momento scoraggiare, ma dalla sua voce senza clamore usciva una parola che prendeva lo spirito interiore.
Il Duomo abbracciava soprattutto i giovani che correvano numerosi. C’era qualcosa che attirava: quella Parola che Martini conosceva nel profondo e comunicava con quella libertà di spirito che soffia dove e come vuole. Il Duomo, oltre che casa aperta di Dio, era una cattedrale: Martini insegnava nel profondo dell’essere umano.
Il vuoto, ovvero l’assenza di Dio
E oggi? Forse è solo una mia sensazione: sembra di sentire un vuoto, come casa di Dio e come cattedrale. Mi ha sempre impressionato ciò che scrive Marco (è l’unico evangelista a sottolinearlo): Gesù “entrò a Gerusalemme, nel tempio. E, dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betania” (11,11).
Gesù aveva da poco ricevuto gli onori da parte della folla per la sua entrata nella Città santa. Più che il trionfo tributato al Signore, trionfo comunque di breve durata, ciò che colpisce è lo sguardo di Gesù nel Tempio: cerca qualcosa che non trova. Gli esegeti evidenziano il verbo usato da Marco, περιβλεψάμενος, che significa “facendo un giro con gli occhi a 360 gradi”, quindi immaginate la scena di Gesù che dà uno sguardo totale all’interno del Tempio. E che cosa vede? Forse tante cose, tanti oggetti, anche preziosi e artistici, ma sente il vuoto, ovvero l’assenza di Dio. E esce, desolato.
Pensate quante chiese sono il vuoto di Dio! Ma ciò che impressione è il vuoto del nostro Duomo: basta assistere a qualche funzione liturgica, anche solenne, e le panche sono vuote, i riti sono freddi, i canti hanno ben poco di mistico, e la parola del pastore, ora monotona, ora stridente, scende dal pulpito come un insieme di sillabe di parole che si ripetono senza toccare il cuore della gente.
Non è vero che la gente rifiuta la parola di Dio. Forse è stanca delle nostre parole vuote di ministri di una religione senza cuore, ed ecco che corre dietro a populisti menzogneri, che promettono mari e monti, e poi lasciano dietro di loro un deserto di cadaveri.
Ci manca una parola autorevole, che si imponga non per il tono o per un linguaggio accattivante, magari sovrabbondante di bugie, ma per la forza interiore di quel Verbo di Dio, che è Sapienza che si fa generazione divina, non nelle strutture o nei riti, ma nella realtà dell’essere interiore.
Ecco ciò che manca oggi: una parola autorevole per la sua carica interiormente divina, ed è questo che vorremmo che scaturisse da quel Buon Pastore che ha la missione, non certo facile, di nutrire il nostro essere più interiore.

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