Omelie 2014 di don Giorgio: Sesta Domenica di Avvento

21 dicembre 2014: Dell’Incarnazione o della Divina Maternità della b. sempre Vergine Maria
Is 62,10-63,3b; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a
Questa domenica, che precede immediatamente il Santo Natale, non è dedicata alla Madonna per la sua santità personale: non si tratta cioè di una festa prettamente mariana. Si celebra invece la divina maternità di Maria, cioè la scelta di Maria a diventare la madre del Figlio di Dio, che si sarebbe incarnato nel suo grembo. È come madre del Salvatore che Maria merita la nostra attenzione e la nostra lode.
Il brano odierno del Vangelo termina con queste parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». Serva non significa schiava, ma essere al servizio di qualcuno o di qualcosa. In questo caso, Maria si è messa al totale servizio del disegno di Dio sull’umanità.
Maria si è messa al servizio di un Dio, che le aveva chiesto prima il suo consenso, dopo aver fatto intuire il suo misterioso disegno. Certo, la giovanissima ragazza di Nazaret non aveva compreso del tutto ciò che l’angelo le aveva annunciato, ma aveva intuito, dalla stessa presenza dell’Angelo – presenza visibile oppure puramente interiore non ci interessa – che il messaggio ricevuto era qualcosa di divino. E l’aveva intuito anche dalle prime parole di Gabriele, che meritano perciò una spiegazione.
L’ultima traduzione della Cei rispecchia l’originale greco. “Rallègrati”. In latino era: “Ave”, tradotto in italiano: “Ti saluto”. Tutti capiscono la differenza che passa tra “rallegrati” e “ti saluto”. Il testo greco, “chaire”, che è quello riconosciuto dalla Chiesa come ispirato, dice chiaramente che non si è trattato di un semplice saluto, ma di un invito alla gioia. Dunque: “Gioisci”, “rallegrati”. Un ebreo, che conosceva bene la Bibbia, sapeva che nell’Antico Testamento questo invito alla gioia contraddistingueva in maniera inconfondibile la venuta del Messia. Cito solo un profeta, Zaccaria, il quale al capitolo 9, versetto 9 scrive: «Esulta grandemente, figlia di Sion; giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (9,9).
Questa prima parola dell’angelo, “chaire”, (è vero che l’angelo avrà parlato in aramaico, ma il significato era lo stesso), aveva già sconvolto Maria. Lei addirittura era la figlia di Gerusalemme! Ma c’è un’altra parola, la seconda, anch’essa da spiegare.
Dopo l’invito alla gioia, l’angelo chiama Maria: “piena di grazia”. Qualcuno traduce addirittura: “la piena di grazia”, dando alla pienezza un valore assoluto. La parola greca è: kekharitomène, che vuole dire appunto “piena di grazia”, tuttavia il termine greco kharis, nel linguaggio del Nuovo Testamento, richiama in maniera specifica la benevolenza, la compiacenza, la gratuità di Dio. Non è tanto Maria che è la piena di grazia, ma è la grazia, ovvero la gratuità di Dio, a riempire la persona di Maria, e, dopo il suo consenso, a riempire di gratuità divina il suo grembo.
Qui le riflessioni non finirebbero mai. Purtroppo, preferiamo sorvolare, prendendo le parole dell’Angelo come se fossero un semplice complimento, oppure un nuovo titolo da aggiungere agli altri in onore di Maria. Ma che cosa significa essere “la piena di grazia”, investita di gratuità divina? Già la parola gratuità non ci fa riflettere? Che significa gratuità, in una società dove tutto sembra ridotto ad uno scambio?
Anche i doni che ci facciamo in questi giorni, prima del Natale, non sono in realtà degli scambi? Tu lo fai a me, ed io lo faccio a te. Che cosa c’è di gratuito?
Faccio mie le parole di papa Francesco, tratte dal Discorso ai partecipanti al Convegno diocesano di Roma, dedicato al tema: “Un popolo che genera i suoi figli. Comunità e famiglie nelle grandi tappe dell’iniziazione cristiana”, del 16 giugno 2014.
«Questa è la società degli orfani… Orfani di gratuità: quella gratuità del papà e della mamma che sanno perdere il tempo per giocare con i figli. Abbiamo bisogno di senso di gratuità: nelle famiglie, nelle parrocchie, nella società tutta. E quando pensiamo che il Signore si è rivelato a noi nella gratuità, cioè come Grazia, la cosa è molto più importante. Quel bisogno di gratuità umana, che è come aprire il cuore alla grazia di Dio. Tutto è gratis: Lui viene e ci dà la sua grazia. Ma se noi non abbiamo il senso della gratuità nella famiglia, nella scuola, nella parrocchia ci sarà molto difficile capire cosa è la grazia di Dio, quella grazia che non si vende, che non si compra, che è un regalo, un dono di Dio: è Dio stesso. E per questo sono orfani di gratuità».
Maria, dunque, è la piena di grazia, ovvero la pienezza della gratuità divina. Il misterioso figlio che nascerà nel suo grembo, fecondato dallo Spirito divino, sarà un riflesso, in quanto incarnato, della Gratuità divina. Certo, un riflesso, ma tale da illuminare per sempre il mondo, immerso nelle tenebre. È la gratuità la vera bellezza del mondo: è la gratuità il senso del Natale. Altro che scambio di doni! Altro che scambio di auguri! Altro che scambio di affetti! Anche la carità, che tanto sembra animare gli spiriti buoni, può cadere in uno scambio di compensazione spirituale. “Oh, come sono contento: anche quest’anno a Natale ho fatto una buona azione!”. Come se quella buona azione riparasse un anno di indifferenza o di menefreghismo altruistico, o coprisse quello strisciante razzismo che mi accompagna fino alla mensa eucaristica.
Il primo brano della Messa è tolto dal terzo Isaia, scritto da un anonimo profeta, vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, dopo che gli ebrei esuli a Babilonia erano tornati in patria.
La prima parte del brano è intonato col momento che stiamo per vivere nell’attesa della nascita di Gesù. Ci avverte il profeta, l’uomo di Dio: «Sta per venire il tuo salvatore». Dunque, apriamo le porte del nostro cuore. Ancora di più: dobbiamo spalancarle. Non entra il freddo gelido dell’inverno. Sta per venire il calore di una luce potente.
Meno comprensibile è la seconda parte del brano. È un drammatico dialogo, come quello che avviene tra una sentinella e un misterioso personaggio, che si presenta alle porte della città. Alcuni esegeti traducono la prima domanda così: «Chi è costui che avanza tinto di rosso, sporco nelle vesti più di un vendemmiatore?». Il rosso richiama la vendemmia, e la vendemmia, nella Bibbia, richiama il giudizio divino.
Le immagini forti del torchio dove si pigia l’uva servono al profeta per mettere ancor più in evidenza la giustizia di Dio. «Sono io, che parlo con giustizia e sono grande nel salvare», così quel personaggio misterioso risponde alla sentinella.
In questi giorni, in cui il sentimento sembra prevalere sulla ragione, la poesia sembra coprire la prosa di una vita banale, la bontà e la misericordia sembrano attutire la ferocia dei nostri animi esasperati, è quasi un pugno nello stomaco risentire le parole del profeta, che annunciano con forza la venuta della giustizia in persona.
Non vorrei ripetermi: la giustizia di Dio è qualcosa di diverso dal nostro concetto di giustizia. La giustizia di Dio tocca il mio essere interiore, ed è qui, nel mio essere più profondo, che c’è il primo giudizio di quella voce divina che è la mia coscienza.
Certo, non sono confortevoli le ultime parole, con cui si chiude il brano della Messa: «Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me».
Noi, in questi giorni, ci poniamo spesso la domanda, tra l’altro anche ipocrita: quante persone resteranno sole anche in questo Natale? Forse la vera domanda è un’altra: di nuovo il Figlio di Dio resterà solo, così come quando, duemila e più anni fa, è nato in una grotta?
È la solitudine, in cui lasciamo Cristo, la causa anche della solitudine umana. Se ci sarà ancora tanta solitudine in questo mondo, ciò dipenderà se lasceremo di nuovo solo quel Figlio di Dio che si è incarnato per offrirci la salvezza, ma che invece: o rifiutiamo o trasformiamo in qualcosa di più appetitoso. La precarietà della vita è la precarietà di un Dio, che quasi ci supplica di ospitarlo, e che noi fingiamo di non ascoltare. Tanti nostri Natali sono la prova della inutilità del più grande gesto d’amore di Dio. Mi vengono in mente le parole di un vecchio parroco che, quando distribuiva le ostie consacrate, invece che: “Il corpo di Cristo”, diceva: “Cristo sprecato!… Cristo sprecato!… Cristo sprecato!…”. Usava però il dialetto: Gesù, trasà!
Anche quest’anno sarà un altro Natale sprecato?

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