Omelie 2013 di don Giorgio: Sesta Domenica di Avvento – rito ambrosiano

Omelie 2013 di don Giorgio: Sesta Domenica di Avvento – rito ambrosiano

La liturgia, giustamente, dedica questa domenica, che precede immediatamente il Santo Natale, alla figura di Maria, madre di Gesù.

Abbiamo visto, nelle domeniche precedenti, un’altra grande figura, co-protagonista dell’Avvento, ovvero Giovanni il Battista. Vorrei subito farvi notare che sia Giovanni che Maria non sono da considerare in sé, ma relativamente al Messia. Anche qui, come è facile scivolare nel protagonismo, nel leaderismo: la colpa non è né di Giovanni né di Maria, ma dei suoi presunti ammiratori. Già dire il Battista, il battezzatore, è riduttivo: se ne evidenzia un ruolo, quello appunto di battezzare i peccatori presso il fiume Giordano, mentre Giovanni è stato anzitutto il precursore, colui che ha aperto la strada all’arrivo del Messia. Così si dica di Maria: la liturgia oggi non ci invita a onorare Maria, come se fosse un’altra tra le tante feste mariane, in cui il popolo non fa che idolatrarla dimenticando che è la madre di Gesù, prima di tutto. Non è importante oggi, come invece sembra sottolineare la liturgia, sapere se Maria sia stata sempre vergine, prima, durante e dopo il parto. Questo fa parte di un dogma successivo della Chiesa, che è arrivata a questa definizione ufficiale, dopo discussioni a non finire. Oggi m’interessa solo una cosa: Maria è la madre del Messia, e in quanto tale è, tra le protagoniste dell’Avvento, la più qualificata ad aiutarmi ad accogliere in me il Salvatore, che è venuto, che viene ancora oggi e che verrà.

Chiarite queste cose, che mi sembrano importanti, passiamo ora a fare qualche considerazione sui brani della Messa. La prima lettura è tolta dal libro di Isaia, precisamente del terzo Isaia (un profeta anonimo vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, e negli anni successivi, dal 520 a.C. in poi). Alla fine del capitolo 62 e all’inizio del capitolo 63, troviamo due brani, che sembrano fortemente in contrasto tra loro. Il primo è rivolto al popolo, perché raccolga l’invito a percorrere una specie di via processionale, pianeggiante e rettilinea, simile a quelle che si stendevano davanti ai templi dell’antico Vicino Oriente. Questa via conduce alla nuova Gerusalemme, verso una nuova Umanità. È un invito che abbiamo più volte sentito nelle domeniche precedenti: un invito lanciato dai profeti, su ordine di Dio. Non basta tracciare la strada, se poi il popolo la ignora e ne prende un’altra, che porta altrove.

“Ecco, arriva il tuo salvatore”. Ma chi è questo salvatore? Ci saremmo aspettati una risposta consolatoria. Invece, ecco un dialogo drammatico che il profeta immagina si svolga tra la sentinella e colui che sta per varcare le porte della città. La sentinella, come è suo dovere, ne chiede l’identità prima di farlo passare. “Chi è costui che avanza tinto di rosso, sporco nelle vesti più di un vendemmiatore?”. Il rosso richiama il sangue, la vendemmia richiama il giudizio divino. Il misterioso personaggio sta tornando dalle popolazioni nemiche, dopo averle pigiate nel torchio: ecco perché le vesti sono ancora tinte di rosso, ovvero di sangue.

Il brano di oggi termina bruscamente così. Ma se noi andiamo a leggere il seguito, il profeta esalta, subito dopo, la bontà del Signore che, con amore pieno di tenerezza, abbraccia il suo popolo. Dio è vicino e condivide la vita del suo popolo, fidandosi nonostante le delusioni, pronto a entrare in scena per liberarlo. 

Il brano ci fa capire una cosa, anticipandoci ciò che capiterà con la nascita del Messia. Già i racconti dell’infanzia di Gesù, vorrei ripeterlo, contengono un duplice volto: di accoglienza e di rifiuto. L’accoglienza da parte dei pastori e dei magi, e il rifiuto da parte del potere politico e religioso (pensate a Erode e pensate ai capi religiosi del popolo ebraico). Noi abbiamo ridotto troppo il Natale a qualcosa di sentimentale: non facciamo altro che parlare di bontà, di generosità, di un bimbo che fa tenerezza. Gli evangelisti presentano il Natale in un modo diverso: già da bambino Cristo è stato rifiutato. Basterebbero le parole del Prologo di Giovanni: “Venne tra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto”. A rifiutare Cristo, più che il potere politico, il quale agirà dietro le pressioni dei capi del popolo, saranno proprio i rappresentanti della religione ebraica. E sarà lo stesso popolo ebraico: il popolo eletto.

Il primo brano della Messa vuole mettere subito in chiaro una cosa: Cristo avrà vita difficile, vita dura. E non saranno i nemici storici d’Israele a renderla tale, ma gli stessi di casa. È un avvertimento: a tradire Cristo, lungo la storia della Chiesa, non saranno gli infedeli, e neppure gli eretici, i quali, caso mai, hanno peccato di eccessivo amore. Ma il peggior peccato sta nel ridurre l’amore verso Dio entro i confini di una tale ortodossia da bloccare la Novità evangelica. Noi purtroppo abbiamo sempre giudicato l’amore eccessivo come peggiore di un amore contenuto o represso.

Il primo brano ci insegna ad essere realisti: la realtà purtroppo non è fatta solo di poesia, di buoni sentimenti o di sorrisi distribuiti in abbondanza. E non dobbiamo scoprire solo a Natale che c’è gente che soffre, e che purtroppo non siamo così bravi cristiani come crediamo di esserlo, per poi, tornare il giorno dopo, a crederlo di nuovo.

Anche Maria è stata realista, tanto realista da porre delle domande all’arcangelo che le annuncia il disegno di Dio su di lei. La pagina del Vangelo è senz’altro una tra le più belle, ma anche tra le più misteriose della storia dell’umanità. Da mettere accanto ad un’altra pagina, quella che troviamo all’inizio della Bibbia, quando Dio, dopo aver condannato il peccato di Adamo e di Eva, fa la grande promessa del salvatore.

Non sappiamo esattamente cosa sia successo in quella casa di Nazaret. L’evangelista Luca, probabilmente su qualche confidenza avuta dalla stessa protagonista, ha ricostruito l’incontro tra l’angelo e Maria. Non era facile: si poteva cadere nella banalità. Quando c’è di mezzo Dio, le parole umane sono inadeguate a esprimere qualcosa di ciò che succede, quando Lui interviene. E quando Lui interviene, lo fa a modo suo, ovvero da Dio. I grandi Santi entravano in quella specie di vuoto interiore che si chiama estasi. Estasi significa essere fuori, fuori di sé, fuori del proprio io. Si crea perciò un vuoto interiore per dare più spazio possibile a Dio, togliendo perciò tutto ciò che è nostro, che da diaframma o di ostacolo tra il nostro essere e la presenza di Dio.

L’evangelista Luca ha voluto drammatizzare, e lo ha fatto molto bene, ciò che è successo, usando un’espressione della mistica indiana, nella “cavità del cuore” di Maria. Il vero dialogo tra Maria e Dio (l’angelo ha fatto da tramite simbolico) è stato qualcosa di particolarmente mistico e nello stesso tempo reale. Mistico, perché nessuno potrà mai conoscere esattamente l’esperienza spirituale di Maria; reale perché Maria, aderendo al disegno di Dio, ha fatto sì che si realizzasse la promessa divina di diventare madre del Salvatore, del Figlio di Dio che, in quell’istante, prese carne in lei.

Mi è impossibile per il poco tempo a disposizione soffermarmi sull’intero brano del Vangelo. Vi rubo ancora qualche minuto per dire qualcosa, solo qualcosa delle parole iniziali dell’arcangelo Gabriele. Non si tratta di un semplice saluto. La nuova traduzione della Cei è più fedele al verbo originale di lingua greca, “chàire”, che significa “ràllegrati” e non semplicemente o banalmente “ti saluto”. “Chàire”, dunque, non indica tanto un saluto, quanto un invito alla gioia, quella stessa gioia che nell’Antico Testamento contraddistingue in maniera inconfondibile la venuta del Messia (cito solo un passo del profeta Sofonia, 3,14: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme”). In questo “ràllegrati” c’è già in anticipo ciò che sarà il Vangelo, la Buona o Bella Notizia di Gesù. Dire Vangelo e dire Gesù è la stessa cosa. In Maria s’incarna il Figlio di Dio, come Buona o Bella Notizia.

Dopo “Ràllegrati” ci aspetteremmo il nome di Maria. Invece no. Il nome è sostituito da un altro verbo, in greco “kekharitomène”, che significa “resa piena di grazia”, naturalmente da Dio. Gli studiosi hanno scritto pagine e pagine su questa parola, trovandovi significati diversi e i più disparati. Dico semplicemente questo: “ràllegrati” richiama la gioia, la grazia richiama la gratuità. Gioia è molto di più di un sorriso: è qualcosa di profondo, che rimane anche nei momenti più drammatici. Gioia è Dio che libera, e Dio per liberare richiede qualche strappo, qualche sacrificio, qualche sofferenza. Maria, del resto, da quando diventerà madre di Gesù comincerà a soffrire. Il vecchio Simeone nel tempio profetizzerà a Maria: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima”.

Gioia e grazia, ovvero gratuità. Dire gratuità è dire tutto del mistero di Dio. Così dovrebbe essere del cristiano. Il cristiano si qualifica per la gratuità. Tutto è dono. Dono è la vita, dono è la terra, dono è il tempo, dono è lo spazio. Anche i beni materiali sono doni. Maria è tutto questo: è gioia messianica, ci ha dato il salvatore, ed è gratuità: l’ha ricevuto in dono e ce lo ha donato. Se capissimo questo, non faremmo di Maria una statua parlante o piangente. Maria non parla né piange: è gioia e gratuità, in quanto madre di Dio. Siamo nauseati di devozioni mariane, al limite della superstizione e della paranoia.

Maria è anche l’icona della femminilità più autentica. Non rivendica diritti suoi, ma i diritti di un Dio che si è incarnato per l’intera umanità. La femminilità essenzialmente è grazia. Bellezza d’essere. Gratuità radicale. Banalizzare Maria è anche banalizzare la donna. Forse per questo la donna ha sempre avuto grave difficoltà a farsi valere nella Chiesa. La Chiesa dà enorme culto a Maria, permettendo le peggiori superstizioni, e se ne guarda bene dall’onorare in lei il simbolo o l’icona della donna ideale. Le devozioni mariane sembrano sminuire la grandezza di Maria e della donna.

Ma la Chiesa vive di queste continue contraddizioni grottesche: fa di Maria un alibi per non affrontare la grave questione femminile, nella società e nella religione. Cristo stesso ne soffre: Cristo che è il dono di una donna aperta alla Novità evangelica, sovrabbondante di grazia, ovvero di gratuità.

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