Storia di un partito popolare: la democrazia cristiana dal dopoguerra ad oggi

Alcide De Gasperi in Piazza Duomo a Milano nel 1948
da rivista.vitaepensiero.it

Storia di un partito popolare:

la democrazia cristiana dal dopoguerra ad oggi

27.01.2024
di Gabriele De Rosa
Confesso che molte perplessità mi sono sorte quando sono stato invitato a svolgere una relazione storica a Milano avanti a un’assemblea, così impegnata a dibattere attorno ai problemi attuali, che attengono alle riforme istituzionali, alla ristrutturazione del partito, ai suoi rapporti con l’elettorato, al sistema delle alleanze politiche, ai rapporti con il mondo cattolico. Non sembra che oggi abbia molto credito il mestiere dello storico, bersagliato da una successione sempre più sconvolgente di cambiamenti, per lo più imprevisti e imprevedibili, che ci dà la sensazione, a mio avviso, abbastanza fondata, di essere usciti da un ciclo storico, ben definito, e di essere entrati in un ciclo, ancora non definibile, che chiamerei di transizione.
È finita una certa storia contemporanea, quella che si insegna nei licei e che occupa il periodo delle due guerre mondiali, e ne emerge un’altra, nella quale scorgiamo un immenso buco nero, dove sono precipitati – almeno così sembra -, miti, strutture politiche, speranze, ideologie schieramenti trattati tradizioni diplomatiche, concezioni giuridiche internazionali di un secolo e forse più: ci hanno accompagnati, bene o male, fino ad oggi.
In queste condizioni di incessante mutabilità politica e sociale, che cosa può significare oggi ripercorrere il passato? Quali aiuti, conferme, stimoli possiamo riceverne? Se guardiamo agli umori correnti, sembra prevalere un sentimento di inutilità: tutto nel giro rapidissimo di pochi anni si è così trasfigurato che non tanto di continuità verrebbe voglia di parlare, ma di frattura; quando poi dovessimo restringere il discorso al partito, e su un tema non certo facile, come il rapporto con il passato, vediamo spuntare da ogni parte tanti esperti che ci sconsigliano di impegnarci in analisi del genere perché con il Muro di Berlino si sarebbero resi inservibili tutti i materiali delle esperienze politiche trascorse. Insomma, oggi saremmo nudi, senza memoria, in una generale scomposizione dei vecchi partiti, in una condizione di rivolta permanente della società civile al grido: «ognuno per sé e Dio per tutti», alla ricerca di nuove più efficienti identità, commisurate tutte alle traiettorie del capitalismo.
Tanta furia iconoclasta contro il passato non vorremmo ci conducesse a un grosso errore di prospettiva: di guardare alle vicende post-Muro di Berlino con gli occhi dei tanti delusi per la fine di quel mondo intellettuale, che aveva riversato ogni sua fede nel comunismo.
Da una cecità ideologica saremmo passati a una cecità voluta, interessata a coinvolgere tutti nel crollo del Muro. È un po’ troppo, anche per il comunismo italiano.
Ma vengo al tema: ci sono costanti nella storia della democrazia cristiana che giungono fino a noi e, se ci sono, in che cosa consisterebbero? Più che di costanti, parlerei di aspetti storici peculiari, di ruoli e di fini, di limiti e di progressi, così com’è di tutti i partiti, che, appunto in quanto tali, sono sempre parti, fenomeni aggregativi che rispondono, quando sono utili, a realtà culturali di lunga durata, ideologiche, a esigenze, a spinte e sollecitazioni provenienti dal fondo della società civile.
Il primo argomento che vorrei affrontare è quello della fondazione del partito, delle motivazioni storiche della sua nascita, del perché e come esso si configurò in una certa maniera in Italia, molto diversa dalla maniera tedesca, austriaca, belga o francese.
Potremmo, più specificamente, chiederci a quale modello di partito guardarono i cattolici italiani, allorché pensarono di organizzarsi politicamente.
La prendo un po’ da lontano, non potrei fare diversamente, se mi si chiede di guardare addentro a questa storia della Democrazia Cristiana, certamente singolare se messa a confronto con le altre vicende del movimento cattolico in Europa. Devo farlo anche per rispondere a un luogo comune, che ogni tanto riemerge, per il quale la DC, alla stessa maniera lo si diceva del PPI, sarebbe stata essenzialmente un grande fatto elettorale ma provvisorio, legato a una situazione storica straordinaria, costituita dal pericolo del comunismo e vissuto sostanzialmente su questo pericolo.
Alla base della DC, insomma, ci sarebbero state più paure, che vitali esigenze riformatrici civili e istituzionali. Non credo, pertanto, sia superfluo o inutile riprendere, sia pure sommariamente e rapidamente, il discorso sulle origini del partito, sulle sue radici, come si usa dire, sui momenti più caratterizzanti del suo iter politico e sociale, ben consapevole che anche fra noi si fanno raramente discorsi del genere.
Quando fra i cattolici si incominciò a parlare della necessità di costituire un partito?
Questa – lo ripeto – è la prima domanda che mi pongo.
2. Ancora recentemente si è parlato di un’influenza del modello del cattolicesimo sociale tedesco, del Zentrum, secondo il motto diffuso alla fine del secolo scorso e ai primi anni del nuovo: «Germania docet». Non può negarsi che l’esempio tedesco – parlerei più di esempio che di modello – abbia attratto e fatto discutere nell’età di Giolitti i cattolici italiani, democratici cristiani, moderati e conservatori, sulla scelta dell’organizzazione politica più confacente a un partito italiano di ispirazione cristiana. Anche il termine di Zentrum suscitava non poche suggestioni fra i cattolici italiani per diversi aspetti: per la sua collocazione mediana fra destra e sinistra, anche all’interno del mondo cattolico; per il suo interclassismo e la sua interconfessionalità, per la sua natura di partito parlamentare e costituzionale, un aspetto stimolante per i cattolici italiani, ai quali la partecipazione alla vita politica era interdetta, almeno ufficialmente, dal divieto della Sacra Penitenzieria. La complessità di un partito come il Zentrum, che comprendeva circoli operai, circoli di cultura, correnti di diversa estrazione, sostenitori dell’idea di uno Stato cristiano e sostenitori come Wirth o Erzberger, della autonomia politica, intellettuali, come i cattolici renani, che definiremmo cattolici-liberali, e intellettuali integralisti dell’area prussiana, sembrava auspicabile anche per l’Italia, in quanto avrebbe evitato quei pericoli di frattura dell’unità dei cattolici, che stava tanto a cuore alla Santa Sede nella fase più acuta della Questione Romana. L’esaltazione, poi, delle opere sociali ed economiche, che era in definitiva la connotazione più ricca del cattolicesimo sociale tedesco, non era certo l’ultimo dei motivi dell’esemplarità del Zentrum.
Lo ha ricordato più volte Alcide De Gasperi, ancora negli anni Trenta in una serie di saggi dedicati a figure come il vescovo Ketteler, a Volgesang, ai fratelli Reichensperger, fra i fondatori del Zentrum, a Windhorst ecc., tutti nomi che sono stati giustamente ricordati nei recenti incontri, convegni e seminari sulla Rerum novarum. Ci chiediamo: era possibile, ed entro quali limiti, trasferire in Italia il modello o l’esempio del Zentrum, purgandolo, per così dire, dalla sua peculiare connotazione politico-costituzionale?
In Italia esisteva, contemporaneamente al Zentrum, una organizzazione sociale dei cattolici, sotto l’egida dell’Opera dei Congressi, che ha oscillato fra una concezione economico-caritativa e un associazionismo solidaristico-interclassista dell’impegno dei cattolici, un’organizzazione, però, esente dalla scelta politica, estranea all’evoluzione delle istituzioni liberali, sospettosa verso i processi di modernizzazione della società contemporanea, solo in attesa che la Provvidenza decretasse un giorno o l’altro la fine dello Stato risorgimentale.
È stata sempre una grande tentazione interna al movimento cattolico italiano la separazione del politico dal sodale per sostenere una sorta di autonomia del sodale, con qualunque Stato e qualunque politica, una dicotomia, che, laddove si è verificata, ha sempre rappresentato la via sdrucciolevole verso adesioni a concezioni politiche che esaltavano, con qualche nostalgia medioevaleggiante, le forme e formulazioni miste, corporative e municipalistiche delle attività dei cattolici. Fino agli inizi del secolo era diffusa fra i cattolici la convinzione che il sodale potesse essere difeso con l’impegno pieno nella società civile, restando incontaminati dal contatto con Io Stato liberale e la sua classe dirigente, anche se poi nella pratica si intrecciavano compromessi alla vigilia delle elezioni politiche, a cominciare dal 1904.
Confrontato con l’Opera dei Congressi, il Patto Gentiloni può considerarsi un passo avanti, in quanto modificò il rapporto dei cattolici con il Parlamento: dall’opposizione alla collaborazione esterna, come forza elettorale disponibile; ma la collaborazione avvenne a metà, era, cioè, dimezzata, passiva; dall’astensione elettorale si passava alla partecipazione limitatamente al voto, una partecipazione negoziata con il candidato moderato, che sottoscriveva le condizioni politiche poste dal Patto. Era un negoziato di garanzia, di libero affidamento reciproco, per il rafforzamento di una esangue maggioranza di governo, umiliante per la classe dirigente giolittiana, non meno umiliante per i democratici cristiani alla Sturzo, che non se la sentirono di pagare un prezzo così alto per fronteggiare il socialismo massimalista.
E se una parte anche autorevole del movimento cattolico del tempo, come Filippo Meda e Giovani Maria Longinotti, operarono per condurre in porto, con la massima cautela tattica, il Patto, ciò fecero nella convinzione, che, tutto sommato, esso costituisse una uscita, sia pure per una porta di sicurezza, dall’era astensionista, durante la quale avevano imperversato gli intransigenti.
Nel mondo clericale, e sotto il pontificato di Pio X, l’idea di una politica di correzione, di pura sollecitazione e integrazione dall’esterno della politica liberale, era ritenuta di basso costo rispetto al rischio di un partito di cattolici, di ex murriani, di leghisti e riformisti agrari, che evocava lo spettro del modernismo. Tutto il patrimonio economico-sociale dei cattolici con la straordinaria rete delle cooperative, delle casse rurali, degli istituti di credito, disseminate dal Veneto alla Sicilia, appariva garantito dal Patto e dalla stessa politica giolittiana, che sapeva tenere a freno Nitti e i suoi propositi di controllo pubblico del risparmio rurale, gestito dai cattolici.
Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale sono anni al cloroformio per il movimento cattolico e la politica di Giolitti: i problemi delle riforme istituzionali, quali erano imposte dall’allargamento del suffragio universale, dalla debolezza delle strutture economiche nascosta sotto la coltre protezionista, dalla drammatica sete di terra da parte di un proletariato rurale soggetto alle emorragie dell’emigrazione, furono messi sotto naftalina.
3. La prova di un cattolicesimo, disposto a offrire alla politica un cittadino dimezzato, pur di salvaguardare princìpi fondamentali della dottrina sociale cattolica e l’autonomia del sociale, era destinata a fallire con lo scoppio della prima guerra mondiale. Il Patto fu travolto nella contesa fra neutralisti e interventisti, una contesa che attraversò anche il movimento cattolico, e che appena celava più profonde discordie sulla valutazione del trasformismo giolittiano, sulla Questione Romana che fungeva da condizione limite della responsabilità del cattolico come cittadino e del possibile ruolo di un partito di cattolici, aconfessionale, pienamente rallié alle istituzioni liberali.
Quell’idea però che non ci fosse bisogno di un partito di cattolici, e per giunta aconfessionale e di vocazione democratica, per sostenere i princìpi fondamentali del magistero ecclesiastico (la libertà di insegnamento, l’unità della famiglia, la libertà di coscienza ecc.) e per conseguire un minimo di garanzie per il libero svolgimento delle associazioni economiche e sindacali cattoliche; che il sociale non avesse bisogno di mediazioni politiche essendo per se stesso neutrale, espressione di una vitalità locale diretta, ideologicamente indistinta, continuò a riemergere anche nel primo dopoguerra, nei momenti più critici della storia del PPI. Quando al congresso di Torino del 1923, al quale partecipò un santo, il giovane Pier Giorgio Frassati, finì la collaborazione dei popolari al primo ministero Mussolini e Sturzo restituì al partito l’iniziativa politica di chiaro segno antifascista, riemersero sempre più forti le tendenze da parte dei conservatori alla forma della politica-delega, della cittadinanza dimezzata, dell’autonomia del sociale. Il ritorno all’idea di delegare al potere costituito la difesa dei principi del cattolicesimo sociale combaciava con le convinzioni di Mussolini che fosse divenuta superflua oramai la sopravvivenza del Partito Popolare, poiché il fascismo avrebbe sottratto ad esso il pretesto e la giustificazione rappresentata dalla esistenza della Questione Romana. Quel che imputavano i conservatori scissionisti a Sturzo era, invece, di avere parlato poco di Questione Romana e più di democrazia politica, di avere legato la tutela e lo sviluppo dei princìpi del cattolicesimo sociale alla sorte stessa delle istituzioni democratico-liberali, di avere fondato un partito che si era appellato «a tutti gli uomini liberi e forti» e non ai cattolici, in quanto tali, di avere difeso l’aconfessionalità e non l’idea del «partito cristiano», di avere ostacolato e combattuto i propositi, autentici o meno autentici – poco importa – di pacificazione religiosa e nazionale del fascismo, di avere edificato al congresso di Torino un muro invalicabile dal fascismo.
Il discorso di Sturzo su questa invalicabilità ideologica nei rapporti con il fascismo era e resta un punto fermo e sempre valido del popolarismo: «Siamo sorti a combattere lo Stato laico e lo Stato panteista del liberalismo e della democrazia; combattiamo anche lo Stato quale primo etico e il concetto assoluto della nazione panteista o deificata, che è lo stesso […]. Per noi lo Stato non è il primo etico, non crea l’etica, la traduce in leggi e vi dà forza sociale; per noi lo Stato non è libertà; non è al di sopra della libertà; la riconosce e ne coordina e limita l’uso perché non degeneri in licenza». È un testo ben noto, molto importante perché in esso sono le premesse delle analisi che Sturzo fece della natura del popolarissimo nell’arco intero della sua vita, durante l’esilio e al suo ritorno in Italia.
Prima ancora che comparisse il nazismo, ma quando già bolscevismo e fascismo si erano consolidati in Russia e in Italia, Sturzo pensò che i partiti europei di ispirazione cristiana dovessero prendere posizione nei confronti della minaccia totalitaria. Così egli fece presentare dall’amico Francesco Luigi Ferrari al congresso internazionale democratico-popolare, che si tenne a Bruxelles nel 1926, una mozione, nella quale il passo centrale recitava: «i partiti o gruppi democratici ad ispirazione cristiana sono contrari ai sistemi correnti antidemocratici, che dopo la guerra sono apparsi in Europa, quali il fascismo e il bolscevismo, i quali due sistemi hanno in comune la prevalente tendenza alla dittatura, la compressione dei poteri, l’accentramento statale più esagerato, il monopolio di ogni altra attività pubblica e privata, perfino nel campo economico, la limitazione e l’oppressione di ogni libertà dell’uso della violenza privata o pubblica, organizzata o sostenuta dai poteri statali». Considerando che ambedue le rivoluzioni miravano alla dittatura di un sistema assolutista, aggiungeva con una forzatura schematica: «si può con esattezza affermare che il fascismo sia un bolscevismo di destra, e che il bolscevismo sia un fascismo di sinistra». La proposta di Sturzo in sede congressuale fu ritoccata, era apparsa, forse, troppo forte e netta ai rappresentanti dei vari partiti di ispirazione cristiana. In effetti l’appiattimento del modello fascista su quello bolscevico non era del tutto convincente: mancava, in fondo, il riferimento a quel patto sociale, di segno moderato, conservatore-monarchico e clericale, che rese possibile la conquista del potere da parte di Mussolini. Tuttavia Sturzo intuì, prima dell’Arendt, che il totalitarismo era una forma politica radicalmente nuova, che andava distinta dalle varie forme del regime autoritario, note dall’antichità all’età moderna.
4. Stato «bolscevista», come scriveva Sturzo, Stato fascista, Stato, comunque sia, panteista non avrebbero potuto combattersi, dunque, ritirandosi nel sociale. È vero che avrebbe potuto sostenersi che la politica della delega per salvare il sociale aveva pur dato qualche esito positivo, proprio durante il fascismo, negli anni Trenta, quando si verificarono i crolli a catena degli istituti di credito cattolici. Alcuni istituti, i più saldi, poterono sopravvivere grazie al gruppo dei cattolici conservatori, ben disposti verso la politica ecclesiastica di Mussolini. Tutto il sistema del cattolicesimo sociale fu, come si diceva allora, «spopolarizzato», vale a dire tutti i cattolici che avevano avuto qualche carica nel partito di Sturzo furono estromessi dalle opere cattoliche e dai posti di responsabilità nell’Azione cattolica. Il nome di Sturzo, come quello dei suoi amici nell’esilio, Francesco Luigi Ferrati e Giuseppe Donati, furono banditi dalle organizzazioni cattoliche. Anche questa volta la salvezza delle opere economiche ebbe il suo prezzo: il patrimonio della cooperazione fu regolato e controllato da uomini che garantivano al tempo stesso per la Chiesa e per il regime.
Potrebbe dirsi che sulla concezione del partito democratico di ispirazione cristiana intravisto da Meda, Sturzo, De Gasperi, Ferrati, Piccioni, Cappi, aveva vinto quella tendenza all’apoliticismo del nostro cattolicesimo sociale, che era stato consustanziale all’Opera dei Congressi, come lo stesso Leone XIII aveva sostenuto con la Graves de communi re, anche se, occorre dirlo, quell’enciclica risentì della particolare circostanza politica nazionale del post-risorgimento, rappresentata dal perdurare della Questione Romana, quindi dal timore che si potesse rompere quell’unità dei cattolici, ritenuta ancora indispensabile dal Papa per la difesa dei cosiddetti diritti imprescrittibili della Santa Sede nei confronti dello Stato italiano.
Chi conosce la storia contemporanea d’Italia sa bene che l’apoliticismo, sia pure sotto forma diversa, attraversa le vicende non solo del movimento operaio, ma anche delle correnti e delle opinioni della borghesia: esso si evidenzia molto spesso come rifiuto della politica, come stanchezza, come rivolta dell’uomo qualunque, dell’uomo di strada, come si dice, quando la politica viene identificata con una determinata struttura sociale e istituzionale, sia lo Stato o siano i partiti.
Riprendo l’analisi dell’origine del partito di ispirazione cristiana, come avvenne nel gennaio del 1919. È indubbio, a mio avviso, che la lezione storica desunta da Sturzo, delle contraddittorie vicende del movimento cattolico, dalla Rerum novarum in poi, è nella critica radicale che fece dell’ibridismo politico-religioso tanto dell’Opera dei Congressi, quanto della prima democrazia cristiana. Il riferimento al discorso di Caltagirone del 24 dicembre 1905 è d’obbligo: a mio avviso esso costituisce ancora oggi un punto fermo nella concezione dell’impegno partitico dei cattolici. Il partito, secondo Sturzo, non era sollecitato a nascere dall’esistenza della Questione Romana; se la sua soluzione era a cuore di tutti i cattolici, non poteva però essere la ragione del partito. Fu chiaro a Sturzo che la ragione storica del partito era culturale e sociale al tempo stesso: nel partito si riconosceva la massa degli esclusi della gestione politica ed economica protetta e trasformistica dello Stato liberale; si raccoglievano i consensi di quella piccola e media borghesia rurale e urbana, che si era formata nella grande tradizione della cultura delle autonomie e che reclamava spazio politico e riforme istituzionali in senso regionalistico dallo Stato unitario. Partito, potremmo dire, sensibile alle ineguaglianze prodotte dallo sviluppo e che però operava all’interno dello Stato liberale, riconoscendone, come lo stesso Meda voleva, la positività storica e non necessariamente la conflittualità permanente con la Chiesa, come sosteneva, invece, il clericalismo intransigente.
Sin dal 1899 Filippo Meda aveva visto più chiaramente dello stesso Sturzo su questo punto: «io penso – scriveva questo fine politico lombardo, vicino a don Davide Albertario, ma estimatore del più avanzato cattolicesimo sociale belga – che il proporci di combattere lo Stato è un concedere per se stesso che lo Stato sia contro di noi: invece lo Stato, anche nelle forme sue presenti in Italia, potrebbe benissimo sussistere in armonia con la Chiesa, quando così piacesse ai suoi reggitori».
Non era condizione necessaria per fare parte del partito, secondo Sturzo, l’essere cattolici, anche se di cattolici era costituito il gruppo dirigente: non si capirebbe il popolarismo senza tenere conto che esso è tutt’uno con la storia della società civile del nostro paese, con i grandi processi di trasformazione economica e sociale, con la crisi delle campagne, gli inurbamenti, tutti i fenomeni ben noti che accompagnarono l’ascesa della borghesia capitalistica e protezionista, e che implicavano una rottura con i nuclei vitali della società civile, nei quali le tradizioni, gli affetti famigliari, la funzione della parrocchia, con la rete delle sue cooperative e società operaie, costituivano ancora il tessuto più solido e omogeneo dell’Italia proto-industriale. Il progetto popolare consisteva nel recupero di questo patrimonio sociale del movimento cattolico, integrandolo però sulle forme più nuove della socialità organizzata, a cominciare dai sindacati, dalla lotta operaia anche attraverso lo sciopero, dalla diffusione capillare del credito bancario a basso interesse, insomma da tutta quella serie di interventi partecipativi nella società civile, che già nell’età giolittiana non sarebbe stato più possibile tenere fuori dallo Stato.
Indubbiamente lo sviluppo industriale del paese fu reso possibile, nella sua prima fase, dalla presenza della banca mista, dalla grande fabbrica e dalla iniziativa imprenditoriale, ma la piccola e la media industria, agricola e artigiana, trovò nella rete della cooperazione tanto del lavoro quanto del reddito, cattolica e socialista, uh valido sostegno. La «scoperta» di Luigi Sturzo fu che la ricchezza di questa tradizione culturale ed economica, la realtà di questa Italia degli «esclusi», che recava ancora nel suo seno la sete delle autonomie e una straordinaria volontà partecipativa alla crescita civile del paese, non avrebbe potuto essere garantita e riconosciuta come forza di progresso se non entrando a pieno titolo nella vita dello Stato moderno con un partito di popolo, laico e democratico. Sturzo invitava, in parole povere, i cattolici a organizzarsi politicamente non più come «armata permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata, ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del viver civile, che vuolsi impregnato dai quei principi morali e sociali che derivano dalla civiltà cristiana come informatrice perenne e dinamica della coscienza privata e pubblica».
Ed ancora, sempre nel discorso manifesto-programma del 1905 – lo so, a momenti fa un secolo, ma ci sono documenti che i decenni non cancellano, che restano, perché sono come pietre miliari nel percorso della nostra storia civile – «A me, democratico antico, convinto, e non dell’ultima ora, è inutile chiedere quale delle due tendenze (la conservatrice e la democratica), nel senso comune della parola, io creda che risponda meglio agli ideali di quella rigenerazione in Cristo, che è aspirazione prima e ultima di tutto il nostro precorrere, agire, lottare». Bellissimo quel «democratico antico», quasi a sottolineare, come dirà poco dopo, che per lui la democrazia era anzitutto vocazione, connaturata alla sua coscienza, una scelta che veniva da lontano, da una aspirazione prima e ultima di tutta la difficile storia del cristianesimo, piena di incertezze e dubbi, sempre impegnata sino allo spasimo nelle lotte con il Potere politico, fosse l’Impero, la Signoria feudale, i Principi, la Monarchia, gli Stati assoluti e moderni. Sulla storia di questa diarchia egli scrisse, durante l’esilio, una delle opere più importanti della sua vita, Chiesa e Stato. Dunque, perché la scelta democratica? Ecco il testo, poche parole: «La necessità della democrazia nel nostro programma? Oggi io non lo saprei dimostrare, la sento come un istinto; è la vita del pensiero. I conservatori sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici: non possiamo assumerne alcuna responsabilità».
Certo, non dobbiamo dimenticare a chi si riferiva Sturzo, quando parlava dei conservatori come «fossili»: egli aveva davanti ai suoi occhi la vecchia guardia del clericalismo intransigente, che trincerandosi dietro lo schermo dalla Questione Romana, aveva provocato lo sfascio dell’Opera dei Congressi e la crisi della prima democrazia cristiana.
Me ne rendo ben conto: leggere e interpretare Sturzo non è come leggere e interpretare un testo di prosa letteraria, distaccata e innocua: basta tenere a mente, oltre al discorso del 1905, quello del congresso di Bologna del 1919 sull’autonomia del partito; il discorso di Venezia del 1921 sulle Regioni; il già citato discorso di Torino del 1923 contro lo Stato panteista; infine la lettera agli amici nel VII anniversario della nascita del PPI, ancora un messaggio di fede e di sicurezza nella rinascita della democrazia, nonostante il fascismo. D’altra parte, non è possibile adattare, smussare, levigare i testi così vibranti e accesi di Sturzo secondo i nostri gusti e consumi. Quel suo stile nervoso e franco, quel suo scrivere senza ombra di movenze clericaleggianti, senza riguardi umani, senza le prudenze, che molto spesso gli vennero raccomandate e suggerite, nei momenti più critici della sua vita politica, quel suo combattere sempre da democratico antico, non sono l’ultimo motivo che rende ancora viva la sua lezione.
Se mi si chiedesse di tentare una definizione sintetica, rapida di Luigi Sturzo, ripeterei quel che dissi nel convegno storico di Bologna del 1989, in occasione dei 70 anni dalla fondazione del PPI: Sturzo è l’anti-Machiavelli della politica italiana, è l’intellettuale cattolico che ha collocato la politica di ogni giorno nella coscienza morale e civile del singolo.
5. Qualche mese fa lessi proprio su un quotidiano di Milano la dichiarazione di un consigliere comunale di una città lombarda, che non si nomina, di fastidio e irritazione verso il nome di Sturzo, invocato fuori luogo perché mai potrebbe aiutarci a superare i gravi problemi politici di oggi: «Certo – affermò il nostro consigliere – se pensiamo di battere le leghe ripigliando il pensiero di don Sturzo siamo freschi. La gente vuole farti. Non possiamo continuare a dire quanto siamo stati bravi, che abbiamo evitato di finire come la Romania o la Germania dell’Est. Il passato non interessa più. Dobbiamo parlare dei problemi presenti e cercare di costruire un futuro. Soltanto in questo modo potremo ritrovare i nostri elettori».
Io do un po’ di ragione e un po’ di torto al nostro Consigliere. Un po’ di ragione: la situazione politica attuale, interna e internazionale, come abbiamo già osservato, è così diversa da quella non solo degli anni del popolarismo sturziano, ma anche degli anni degasperiani, del centrismo, del centro-sinistra, del pentapartito, del «giuoco a tutto campo», che non vediamo come possa servirci la rievocazione del nostro passato. Si potrebbe dire, con il nostro Consigliere comunale, che non c’è più passato che tenga, che possa essere utilizzato, che possa tenerci allegri e confortati, il che potrebbe dirsi anche con altre parole: che la storia è stata sconfitta, nel senso che non serve più raccontarla, perché tutto è cambiato, perché i riferimenti e i referenti interni e internazionali sono altri, e tutti inediti e non prevedibili.
Ma il nostro amico ha anche torto, perché il passato non è fatto solo di circostanze diverse dall’oggi – e come non potrebbe essere così? – è fatto anche di continuità, che appartengono all’ordine dei princìpi, alle ispirazioni fondamentali, alle vocazioni atemporali, alla storia, che non si consuma mai, delle coscienze civili e religiose e delle libertà. Quando Sturzo scrisse l’appello «a tutti gli uomini liberi e forti», non scrisse un documento finalizzato a una piccola e circoscritta operazione di reclutamenti elettorali; egli indicò in quei due aggettivi «liberi e forti» i termini di una chiamata politica e civile, che va ben oltre l’ambito di un programma di partito, ben oltre i confini di una misura sociologica, ben oltre il recinto del confessionalismo cattolico. Gli sconvolgimenti del primo dopoguerra non erano da meno di quelli che riscontriamo oggi dopo il crollo del Muro di Berlino, su tutti i piani: ideologico, politico, economico e anche religioso. Non era un fatto da poco l’irrompere impetuoso delle masse nel passaggio dalle trincee alla convulsa scena politica del 1919; non era un episodio di cronaca la sconfitta della tradizione democratico-riformista di Turati da parte del massimalismo filomoscovita del congresso socialista di Bologna; non era faccenda di poco conto lo scardinamento di tutto il sistema delle alleanze dell’età giolittiana. Paure e attese palingenetiche si confondevano, tanto che apparve subito incredibile che ci fosse un partito di cattolici, che invece di elevare la bandiera della conservazione o del blocco d’ordine, faceva appello a una libertà, a un’autonomia politica, a una prassi democratica e riformista, che era quanto mai lontana dall’immagine dei cattolici, che il Risorgimento aveva.
Potremmo chiederci, a questo punto, se proprio questa convinzione fondamentale, questa chiamata di «tutti gli uomini liberi e forti», così compromettente anche per la sorte dello Stato liberale, non sia stata una sfida troppo forte per sostenere l’unità del partito, con dentro tutti, e tutti impegnati in una specie di tiro alla fune fra la vecchia guardia clericale e la nuova guardia dei riformatori istituzionali. Ma forse la dichiarazione del nostro consigliere potrebbe essere letta anche in un altro senso: che non è corretto fare un uso surrettizio della storia, adoperarla come si può adoperare un cappello, un soprabito, che si mette e si getta via, a seconda delle circostanze. In effetti, è sempre rischioso il confronto con quei testi di alta cultura politica, con quelle scelte del passato, che conservano e ci tramandano il segno di una religiosità anche civile, che è difficile, se non impossibile, sottovalutare. Ad esempio, dobbiamo considerare passato inutile, rileggere queste definizioni di Sturzo, che risalgono nientemeno al 1924? «La politica è sintesi di teorie e di interessi, di principi e difatti: la politica è vita nel senso più completo della parola […]. Partecipare a un partito è come avere uno strumento di lavoro; il partito non è un fine, è un mezzo, ed è un mezzo delicatissimo nella sua funzione e nella sua finalità». Ed ancora, sempre sulla concezione del partito: «Una corrente politica non si impone solo con le opere […], ma con la formazione di un pensiero che diviene convinzione, che genera la discussione, che supera le barriere dell’Università e che crea una propria letteratura […]. Un partito non è un’accademia o un’associazione sportiva, è un organismo vivo, è una forza operante».
Si rifletta su questo passaggio: una corrente politica si impone anche con la forza di un pensiero che «diviene convinzione, che occupa il campo della cultura»: il che vuol dire che la vitalità di un partito non può risolversi nella gestione del giorno per giorno e nemmeno nel calcolo di opportunità tattiche, almeno così era nel pensiero di Sturzo, per il quale la progettualità era il momento più importante nei congressi del partito; basta rileggerne gli atti per capire il disegno politico e culturale che vi era introdotto.
6. C’è un rapporto fra la DC degasperiana e il popolarismo sturziano? Si è scritto in abbondanza sulla continuità-discontinuità fra i due partiti, tanto che mi sembra inutile ripercorrere tutta la polemica, in questa sede, che non è certamente un’accademia. Brevemente vorrei dire che vi sono alcuni elementi indubbi di continuità: l’affermazione dell’autonomia politica, l’aconfessionalità, il richiamo, sia pure entro certi limiti, alla tradizione regionalistica, la centralità del ruolo politico della DC nello schieramento dei partiti, l’europeismo e la solidarietà atlantica, come sviluppo dell’internazionalismo popolare, sulla scia dei messaggi di Benedetto XV e di Wilson, del primo dopoguerra. A me sembra che proprio nella visione internazionalista ci sia stata confluenza ideologica fra il popolarismo sturziano e la democrazia degasperiana. Mi si consentano alcuni brevi richiami.
C’è ancora molto da dire e da scavare attorno all’attività di Luigi Sturzo fra Londra, Parigi, Bruxelles, Colonia e New York negli anni dell’esilio: dal 1924 al 1945, egli ha operato politicamente e scientificamente sui problemi della pace e dell’organizzazione internazionale.
Partendo dall’esperienza della prima guerra mondiale, già nel 1921 Sturzo, con De Gasperi e Secco Suardo, sostenne l’idea di un’organizzazione dei partiti europei di ispirazione cristiana, cercò in tutte le sedi politiche possibili, italiane, francesi, tedesche, di promuovere incontri per una unione doganale franco-tedesca, che stimava a ragione essere il primo passo verso l’unione europea, il fattore politico che avrebbe rotto la spirale del revanchismo fra le due nazioni, si batté a favore della Società delle Nazioni, lavorò sull’onda delle aspettative suscitate dal patto Briand-Kellog, attorno al progetto di un’organizzazione internazionale, che avrebbe dovuto condurre all’eliminazione della guerra, intuendo straordinariamente che la realizzazione del progetto sarebbe stata possibile attraverso un processo di istituzionalizzazione della volontà degli Stati più «coraggiosi e arditi» e preveggenti che avrebbero liquidato una volta per sempre la Realpolitik, la vecchia politica europea degli equilibri di potenza, e rinsaldata l’amicizia con gli Stati Uniti: unioni continentali, quali unità di primo grado di una più organica società federale delle nazioni, unioni doganali, questi i passi necessari per arrivare a una legge internazionale nuova, nata dal consenso degli Stati più «coraggiosi», capace di combattere le violazioni del diritto, di difendere, in qualunque parte del mondo gli Stati più deboli dall’aggressione, di non riconoscere i regimi che si fossero formati con la violenza, insomma una progettualità, quella sturziana, che ebbe la sua eco negli anni Trenta in Francia, in Inghilterra, e negli anni ’40 nella letteratura sociologica e giuridica americana. Mi pare superfluo rilevare la consonanza di queste idee con il pensiero e la politica di Alcide De Gasperi: ritengo, anzi, che su questo terreno l’intesa fra Sturzo e lo statista trentino sia stata massima. Piano Marshall, UEO, CED, NATO, sono tutti momenti storici di quell’interazione europea ed euro-statunitense, di cui possiamo leggere i presentimenti, anche se in una chiave culturale diversa, più mitteleuropea in De Gasperi, più euro-atlantica in Sturzo, in non pochi testi politici di questi due grandi intelletti dei cattolici.
Non ci furono divergenze nell’obiettivo dell’integrazione europea, ci furono diversità nella valutazione dello spazio, della localizzazione del luogo, che avrebbe dovuto rappresentare finalmente l’incontro fra le grandi correnti della cultura europea: De Gasperi, d’ accordo con Adenauer, vedeva questo centro propulsore nell’area renana; Sturzo pensava alla prima Europa, alla civiltà greco-orientale, a Siracusa, a Tessalonica, ancora una volta al Mediterraneo. Non riesco a immaginare – o forse posso immaginarlo – che cosa avrebbero pensato di questa perdita della straordinaria tensione culturale e spirituale che fu all’origine dell’attuale Europa comunitaria e che oggi sembra molto mercato e poco casa comune.
Ce n’è abbastanza per ribadire il concetto della continuità. La discontinuità è, anzitutto, nella struttura e nella conformazione dei due partiti: la DC è molto più partito di massa di quanto sia stato il PPI; tutto sommato il PPI è stato poco partito di governo e più partito di opposizione, almeno la sua parte migliore l’ha recitata quando è passato all’opposizione prima della pratica moderata-trasformista, poi del fascismo. De Mita ha colto nel segno quando ha detto che il popolarismo è stato insieme partito organizzato e movimento. Le circostanze storiche diverse del secondo dopoguerra hanno avuto naturalmente il loro peso: le condizioni della Chiesa dell’Est, i timori destati in larga parte della popolazione dalla politica frontista socialcomunista, prepararono il clima di una mobilitazione generale, che abbracciò, in forma si direbbe plebiscitaria, vasti strati sociali del paese, attorno al nucleo aggregante costituito dall’unità politica dei cattolici. Fu un’operazione politico-elettorale di dimensioni storiche, perché le paure nelle classi medie venivano dalle notizie dei colpi di mano del comunismo nell’Europa dell’Est, paure, però, che questa volta furono contenute e tradotto nel segno di una scelta per la democrazia, senza le suggestioni moderate del blocco d’ordine.
Non umiliamo la storia di questi quarant’anni e più di vita democratica, come se si trattasse di una storia minore, – sopportata, zoppa: tra l’altro, come non valutare positivamente la preziosa conquista dell’abitudine e dell’educazione alla prassi e alla vita della democrazia da parte di un popolo intero, che non aveva conosciuto per decenni la democrazia e anche per il periodo post risorgimentale, l’aveva conosciuta a intermittenza, con suffragi ristretti?
Commetteremmo, dunque, un errore se risolvessimo la storia della DC nella storia del 18 aprile -1948 ed esaurissimo in quella data la sua storia di grande partito di mediazione, in virtù anche della sua specificità tradizionale interclassista. Credo che ancora per gli anni del secondo dopoguerra si capisca meglio il ruolo della DC, rifacendosi a un concetto di Sturzo sulla funzione di un partito di classi intermedie: «Ogni società- scriveva nel 1933 – per essere tale deve avere un ordine, e questo per quanto è possibile deve essere stabile e al tempo stesso progressivo. Se è solo stabile senza progresso, avremo le società statiche di caste diverse prive di dinamismo, ma se è progressiva senza stabilità, allora ogni acquisto morale economico e politico viene facilmente disperso. Ecco perché, nella economia interiore di ogni Stato occorrono le spinte dai lati per una risoluzione intermedia. Questa funzione di mediazione spetta naturalmente alle correnti o forze o partiti o classi medie, cioè a quei fattori che, per una -posizione acquisita e riconosciuta tale, sono in grado di utilizzare le forze sane che si sviluppano in due lati e che lasciate a sé mancherebbero di equilibrio. Se qui parliamo di classi medie non vi diamo il senso stretto di classi economiche, ma quello assai più largo di forze sociali. In ogni società una classe diviene intermedia fra le altre solo in quanto polarizza in sé le forze che stanno agli estremi. Onde in ogni epoca storica variano le classi intermedie, come varia la funzione di esse, non solo nel campo economico, bensì e più nel campo politico, morale e sociale».
Certo, si potrà dire che la fisionomia di queste classi sociali – non perciò esclusivamente economiche, come avverte Sturzo – è molto cambiata rispetto agli anni ’50, e che la loro funzione mediatrice non si individua facilmente, in una situazione storica singolare in cui le forze che tradizionalmente stavano. agli estremi sembrano svanire. Ma di ciò diremo più in là.
Qui vorrei rilevare ancora alcuni aspetti della continuità-discontinuità nel rapporto DCPPI.
Ad esempio, la politica di governo come politica di coalizioni. Sturzo ci provò durante la crisi del primo governo Facta, nel luglio 1922, a uscire dalla tradizione dei governi uninominalistici, costruiti sulla base di un rapporto fiduciario con la personalità incaricata. E fu un insuccesso, che costò caro alla democrazia liberale italiana. De Gasperi fece tesoro di questa lezione, quando scelse la via del centrismo, con governi di coalizione, che tenevano non tanto conto della forza numerica, quantitativa degli alleati, quanto della loro importanza storico-culturale. Forse mi sbaglio, ma non credo sia stata solo la preoccupazione di affermare la laicità del suo stesso partito a determinarlo in questa scelta, quanto la consapevolezza che alla ricostruzione del nuovo Stato non poteva mancare la risorsa di una tradizione repubblicana, socialdemocratica e cattolica-liberale prefascista.
Gli anni del centrismo sono stati decisivi non solo per la stabilità della nostra democrazia, ma anche per gli indirizzi della politica economica. Già la scelta dell’economia mista è un fatto nuovo rispetto alla tradizione del popolarismo: Sturzo, se sosteneva la Cassa del Mezzogiorno e gli enti di bonifica, non accettava né l’IRI, né l’ENI, né in genere le partecipazioni statali, nelle quali vedeva il pericolo dello statalismo e una minaccia per la libertà economica. Non potremmo nemmeno dire che egli nutrisse simpatia per quello che noi chiamiamo lo Stato sociale: è una formulazione lontana dalla mente di Sturzo, aliena da ogni aggettivazione dello Stato, come era aliena· da ogni visione monopolistica, di gigantismo economico, fosse pubblico o privato: il che non escludeva una presenza dello Stato nel campo della tutela dei diritti dei lavoratori, della salute e della previdenza. La soglia che Sturzo fissava fra mano pubblica e società civile era molto alta, ma molto alta era anche la soglia che egli fissava fra partiti e Parlamento in quanto vedeva nel!’ eletto prima il rappresentante dei cittadini che lo avevano eletto, poi l’uomo di partito.
Rileggendo oggi le pagine di Sturzo sui rischi della partitocrazia non possiamo non riscoprire tante verità, che abbiamo stentato a riconoscere: mi dispiace per il Consigliere, ma quelle pagine continuano a essere attuali e benefiche, quando si pensa di ridisegnare, in uno spirito di libertà non disgiunto dal fattore indispensabile della sussidiarietà, e da un forte impegno etico, i nuovi contorni del rapporto fra società civile, società politica e Stato. La domanda di oggi, pur lontana nel tempo e nei contenuti, è analoga nella ispirazione solidaristico- caritativa, a quella che si posero i democratici cristiani dell’età di Leone XIII quando la fabbrica incominciò a espellere dalla campagna i ceti rurali non protetti: come ricomprendere nella società moderna quella massa di esclusi dalla ricchezza, che oggi non è solo interna ai singoli stati nazionali, ma è anche, se non soprattutto, fuori dai confini divenuti, per altro, labili e insicuri? Un problema che mi pare non sia compreso fra i doveri della nuova Alleanza atlantica – ma posso sbagliare – troppo preoccupata di difendere un’identità europea solo nel libero mercato. Come rimuovere non solo gli ostacoli economici, ma anche le barriere che dividono i cittadini in due classi; quelli che dispongono di risorse e mezzi illimitati e quelli che ne restano fuori? Il che fare dei partiti, cristiani o laici che siano, non rischia oggi di ridursi a una difesa del costituito, della rendita accumulata, del sistema così com’è con rapporti puramente giuridico-formali con i mondi vitali?
Sturzo era convinto della consustanzialità del partito con la democrazia e che funzione del partito fosse quella di una persistente mediazione fra istituzioni razionalizzate e mondi vitali; ove questa mancasse, si avrebbe, secondo Sturzo, una dilatazione irrefrenabile, spontanea, emotiva di una serie di spinte e controspinte che finirebbero per dilacerare ogni forma di solidarietà.
7. C’è una seconda fase nella storia della DC di questo dopoguerra caratterizzata dagli uomini di Iniziativa democratica, i costruttori appunto dello Stato sociale, ché aprono alla collaborazione con il Partito socialista, sono gli artefici di quella economia mista nella quale la mano pubblica ha svolto un ruolo preponderante nello sviluppo economico del paese.
Una nuova classe dirigente media si forma, che impegna lo Stato in una politica economica, che conosce uno sviluppo a scacchiera e· che raggiunge alti livelli di benessere lì dove ha potuto contare su una ben dotata tradizione imprenditoriale-artigianale. Troppo presto lo Stato sociale ha ceduto alle più disparate sollecitazioni di un corporativismo territoriale, che ha condotto alle degenerazioni dello Stato assistenziale, assediato da antiche e nuove comunità di postulanti. Il Parlamento sembra molte volte soggiacere a quel confuso mercato di leggi e leggine, che come una selva intricatissima ha offuscato la vista degli interessi e delle esigenze più vitali del paese. La gravità di questo fenomeno di selvaggio rimboschimento della politica economica e finanziaria del paese era stata già avvertita, come sappiamo, da Aldo Moro. La consapevolezza della crescente dicotomia fra politica e società civile lo teneva, come sappiamo tutti, in profonda apprensione.
Non si può non convenire che siamo pervenuti a una sorta di redde rationem. Non si tratta di cancellare lo Stato sociale, di abolirlo, ma c’è l’esigenza di disboscarlo, di renderlo più funzionale e agibile, con quella stessa intelligenza, che gli antichi Popolari ebbero, dopo lo sconvolgimento seguito alla fine della prima guerra mondiale, quando vanamente si batterono per una riforma istituzionale dello Stato liberale, sommerso da un mare di associazioni, clientele e gruppi di potere, che avevano svuotato l’autorità e il lavoro del Parlamento.
Certamente è nella buona tradizione democratica cristiana la ripresa del discorso sulle autonomie, perché senza una riforma dei meccanismi amministrativi e burocratici, centrali e regionali dello Stato un disboscamento serio non potrà avvenire: occorre una articolazione più moderna delle autonomie, che se mirata a ridurre i costi del centralismo burocratico, d’altro canto non dovrebbe provocare forme dissociative e addirittura lo smembramento del corpo nazionale, con l’effetto di lasciare il paese fuori dall’Europa e nelle condizioni di pericolose conflittualità interne. Sarebbe come un ritorno al congresso di Vienna, dove invece della nazione italiana, si discusse delle nazioni della penisola.
8. Concludendo, se qualcuno mi chiedesse da quale storia esce la Democrazia Cristiana, di quale tradizione essa è figlia, non avrei esitazione ad affermare che essa discende dalla Rerum novarum. Senza questa enciclica, è difficile vedere come potesse nascere non dico la prima democrazia cristiana, quella di Murri o di Sturzo, ma nemmeno la seconda. Che cosa sia stata politicamente l’enciclica per un cattolico della fine del XIX secolo, lo ricordava ancora Luigi Sturzo cinquant’anni dopo, durante gli anni dell’esilio, quando scriveva che Leone XIII «seppe precisare le posizioni da prendere nel momento quando una ondata reazionaria voleva legare la Chiesa ad un passato che come tale non poteva più tornare». Era ancora visibile negli anni ’90 del secolo scorso quel dissidio fra la Chiesa e il mondo moderno, di cui scrisse Carlo Maria Curci, e in Europa erano ancora forti le correnti legittimiste e ultramontane, che attendevano dalla Santa Sede una conferma del rifiuto delle istituzioni liberali, uscite dalla rivoluzione dell’89. Sulla via della partecipazione dei cattolici alle lotte politiche per la democrazia e le libertà moderne (di associazione, di opinione, di stampa) erano i moniti, i divieti, le condanne della Mirari vos e della Quanta cura con il Sillabo.
Ma sarebbe veramente problematico se noi vedessimo da una parte l’enciclica e dall’altra i cattolici che la recepirono: la trasformazione della Rerum novarum in una sorta di manifesto dell’impegno dei cattolici per la democrazia fu dovuta a quegli uomini che abbiamo già più volte ricordati: da Murri a Sturzo a Meda a De Gasperi a Micheli, furono essi a dare alla Rerum novarum l’importanza di una svolta, il suggello di un incipit, dal quale scaturì tutto il resto della storia del movimento cattolico. È vero che durante il fascismo si ottenebrò il ricordo dell’enciclica, la si dissociò di nuovo da ogni idea di ralliement alla democrazia politica, e se ne fece, al solito, un discorso di pura socialità, coniugabile anche con un regime autoritario. C’è un articolo che Sturzo scrisse durante l’esilio negli Stati Uniti, nel 1941, allorché l’URSS fu travolta dalla guerra in seguito all’invasione hitleriana. Si profilava l’eventualità che gli USA si trovassero a fianco dell’Unione Sovietica nel conflitto: una prospettiva che suscitava una profonda apprensione fra i cattolici americani, preoccupati che l’alleanza sovietico-americana portasse al contagio con il marxismo. Scrisse Sturzo: «Tutti i grandi mali sociali (come i nostri mali fisici) vengono da piccoli inizii, che riparati a tempo non si svilupperebbero o sarebbero meno nocivi e meno estesi. Il marxismo si sviluppò fra gli operai della grande industria nella seconda metà del secolo scorso. Ma quale era allora la situazione di tali operai? Pessima sotto tutti gli aspetti. E che facevano allora gli uomini di governo, gli uomini di chiesa, le classi agiate per questi paria della società industriale?
Presso che nulla. Solo verso il 1870 si cominciò a comprendere che c’era un dovere sociale e morale imprescindibile verso tali operai, e in genere verso la classe operaia. I nomi dei Cardinali Gibbons in America e Manning in Inghilterra sono quelli dei grandi pionieri del movimento sociale cristiano. Leone XIII resterà per tutti il Papa degli operai. I nomi di Léon Harmel in Francia, di Toniolo in Italia, di Ketteler in Germania, di Pottier nel Belgio, di De Courtins nella Svizzera, di Schaepman in Olanda resteranno nella storia. Ma quanti non furono fra i cattolici ad avversare allora i sindacati operai come pericolose novità e a denunziare la Democrazia Cristiana come un’eresia? Così quel poco che si poté fare dalla Rerum Novarum in poi dai cattolici non fu mai pari al bisogno della massa operaia trascinata verso l’apostasia religiosa per offrire un rimedio sano e adeguato ai mali economici creati dal capitalismo eccessivo».
Non c’è bisogno che sottolinei la lucidità critica di questo testo sturziano, la libertà di spirito e l’alta fede con le quali il sacerdote di Caltagirone lesse nel lungo periodo storico limiti e meriti dell’enciclica. Tutto ciò non toglie nulla a un’altra lettura, più profonda, meno legata alle Circostanze del vivace dibattito che si svolgeva alla fine del secolo scorso nei circoli cattolici di Roma, Friburgo, Liegi, nei circoli cattolici americani, fra i Cavalieri del lavoro, e più legata a una lettura aperta all’ascolto di quel che si moveva nelle viscere del mondo economico e sociale del tempo: la grande rivoluzione operaia, scaturita dall’altra rivoluzione, quella delle industrie, con tutto lo sconvolgimento di valori e di modi di vita.
Si preparavano tempi nuovi per l’Europa e per il mondo intero: insieme con lo sviluppo industriale cresceva la spinta alle conquiste coloniali e ai nuovi mercati, si era entrati nell’età della concorrenza e del conflitto fra gli imperialismi. Non era compito dci redattori dell’enciclica occuparsi di pensiero e di politica economici, e nemmeno formulare i principi di una economia cristiana; non c’è nella Rerum novarum nessun tentativo di ricerca di una «terza via». Altro era il compito dei redattori dell’enciclica: indicare alla luce dell’etica cristiana le regole di comportamento dei nuovi ricchi, delle nuove forze economiche e sociali, che stavano cambiando le condizioni del lavoro e della produzione. Direi che il presentimento dei tempi nuovi più che nelle parole di un latino impeccabile, è nel tono, in quel parlare più alto delle speranze, ma anche delle paure del tempo, di un tempo che sarà diverso da quello dell’operaio semplice e risparmioso e del padrone benefattore dei monti di pietà e delle casse rurali; il presentimento è nella ricchezza stessa delle suggestioni, dei richiami e degli echi patristici, presenti nell’enciclica.
Oggi, certamente, la situazione politica mondiale ci appare lontana anni luce dai tempi e dagli uomini della Rerum novarum. A pensare solo all’Italia, è unanime ammissione che negli ultimi 45 anni la crescita economica è stata così impetuosa, da cambiare l’immagine stessa del paese, quell’immagine che si era tramandata, con lente rettifiche, per secoli. La rapidità della crescita è stata tale che a stento riusciamo a capire quale sia l’Italia di oggi. In un passato relativamente recente la terra conferiva ancora un senso di stabilità e sicurezza, era la base dei nuclei vitali, delle mentalità di villaggio, delle economie.
Oggi il quadro è ben diverso: la società è percorsa da una febbre continua di ammodernamenti e innovazioni tecnologiche, dalle impalpabili e seducenti variazioni della produzione elettronica, che hanno come unico referente il mercato, un mercato per sua natura inquieto e incerto, immerso nella perenne ricerca di nuovi spazi a est e ad ovest, insofferente di ogni ostacolo ideologico, politico, burocratico. Ma può esserci anche un’inversione di rotta, nel senso che la paura della sfida di segno neoliberista risusciti forme nuove di autoconservatorismo economico, di chiusure corporative, a carattere anche regionalistico, territorialmente circoscritte: questa inversione di rotta si accompagna con il sogno di contesti arcaici, differenziati e bloccati, plurilalistici, liberi dal peso, presunto o meno, di contribuzioni per i meno ricchi, per la soluzione di grandi problemi posti a livello anche mondiale dalle nuove povertà, e dalle economie arretrate del pianeta. In tal caso, con le frammentazioni regionalistiche, verrebbero di colpo a mancare le premesse dello sviluppo economico intensivo, il quale ha bisogno, per crescere e durare, non di frazionamenti e segmentazioni locali, ma di larghi mercati, di un territorio unificato e garantito dallo Stato, che resta il più valido referente anche per la comunità europea.
Certo, per questo mondo così dinamico, produttivo, ma anche mobile fino a sentirsi precario e instabile, i contenuti della Rerum novarum non servono; tuttavia ritengo che il ritardo di ciò che essa rappresentò per il mondo cattolico, per lunga o breve stagione, dovrebbe aiutarci ad accettare nell’intimo della nostra coscienza non solo religiosa, ma anche civile, la sfida di altri tempi nuovi. Noi abbiamo il dovere di riconoscere questa paternità ideale, più di quanto sia avvenuto ieri, negli anni di Sturzo e di De Gasperi dal momento che i nostri problemi, anche quelli che si prospettano come locali, non possono non tenere conto degli sconvolgimenti in corso, delle cadute di miti che hanno suggestionato le classi operaie di tutto il mondo, quelle classi che hanno brandito per un secolo e mezzo, si potrebbe dire parafrasando un passo di Brecht, i testi di Marx e poi di Lenin nella speranza di una riscossa in nome di una violenza redentrice, che nulla ha redento e tutto ha offeso di quanto appartiene alla umana dignità.
Quelle universalità ideologiche partorite dalla cultura romantica del XIX secolo sono finite: tutto torna grande, ma nel piccolo, in una pluralità di soggetti; che hanno in comune l’aspirazione a riconoscersi in una comunità nazionale o internazionale, capace di collocare in piano, più che il rispetto, l’amore per i diritti umani e per quanto di giustizia, di benessere, di tranquillità contro le paure del passato queste parole coinvolgono. Età difficile, di cui molto spesso non troviamo né gli strumenti né i discorsi adatti a comprenderla: non ci sono più possibilità di mobilitazione di massa, dal momento che il Nemico di urta volta non c’è più, e tuttavia vediamo gli oppressi che combattono contro gli oppressi, gli amanti del campanile stringersi in consorzi di solidarietà corporative, solo ansiosi di distruggere il territorio comune.
Non confondiamoci le idee, non lasciamoci irretire dal clamore degli improvvisati moralizzatori e degli immancabili profeti di prossime sciagure. Le emozioni, gli scontenti, le rabbie che si manifestano qui e lì nel corpo elettorale vanno sempre rilette nell’ambito proprio: grosso modo, ci sono le reazioni che nascono dalle povertà antiche e nuove, povertà che più facilmente si comprendono alla luce della cultura dello Stato sociale; ci sono poi le reazioni che sono da benessere e da ricchezza che mi richiamano alla mente qualcosa dei conflitti patrimoniali delle famiglie ricche del XVIII secolo: élites della finanza e dei grandi affari, che coltivano il rifiuto della politica ovvero il culto alla moda di un ritornante apoliticismo, di un altro non expedit, praticato con misura e sufficienza verso i cosiddetti partiti del Palazzo.
Tutte reazioni che possono diventare pericolose, quando si rivestono di motivazioni che appaiono di senso comune. Ci sono anche le reazioni delle piccole e grandi arroganze di chi ritiene di disporre come che sia del potere e di tutelarsi all’ombra del partito.
Resto fermo nel convincimento che è ancora nei grandi partiti della tradizione democratica repubblicana nazionale la capacità di leggere, interpretare e tradurre nella positività di un nuovo grande disegno politico i segnali per un cambiamento giusto, appropriato, adeguato ai tempi nuovi. A mio avviso, come non è più visibile il Nemico del vecchio e sfinito Comunismo di ieri, così non è visibile alle porte nessun Fascismo. Primitività istintive, orgogli e intemperanze localistici, ribellioni di senso comune, non richiedono per essere capiti la rievocazione di chiavi interpretative legate agli schemi della letteratura antifascista.
Guai se i partiti tradizionali mancassero al loro ufficio storico di riformare lo Stato, guai se, per la loro interna inerzia, cedessero al ricatto delle nuove Signorie corporative che albeggiano nel suolo cedevole e paludoso di false ideologie produttivistiche.
Non c’è tempo per nessuna autocontemplazione, dobbiamo camminare guardando un po’ più in alto delle nostre misure quotidiane, così come seppero fare uomini come Sturzo, De Gasperi, Ferrati, Dossetti, Piccioni, Vanoni, Scelba, Rumor, Saraceno e altri che sono ancora fra noi, la cui nobiltà e generosità politica e civile fo ed è indiscussa; dobbiamo attrezzare il partito in modo meno burocratizzato, meno legato all’esercizio quotidiano del potere, per farne uno strumento di ascolto più diretto e sensibile dei problemi e delle esigenze nuove che, in questa fase ciclica di transizione, sono al fondo della tumultuosa richiesta di più autonomie, di più verità, di più autenticità, una richiesta che sale dalle viscere di questa nuova storia, che non vediamo ancora, ma che sentiamo vicina.
Gabriele De Rosa
Gabriele De Rosa è stato uno storico e politico italiano.
***
Leggete anche
Democrazia cristiana, una storia da rileggere

Lascia un Commento

CAPTCHA
*