23 marzo 2025: TERZA DI QUARESIMA
Dt 6,4a; 18,9-22; Rm 3,21-26; Gv 8,31-59
Tre brani, che ci presenta la liturgia ambrosiana nella terza domenica di Quaresima, che richiederebbero troppo tempo, anche solo per dare qualche spunto di riflessione che, più che qualche pur timida risposta, offre altre domande che impegnano seriamente la nostra fede, tanto più che l’attualità disgregante sta mettendo in discussione sicurezze consolidate.
Primo brano: si parla di terra, che il Signore ha promesso per il suo popolo, il popolo da lui eletto per essere segno di misericordia e di salvezza per tutta l’umanità.
Il Signore lo aveva liberato dopo anni di schiavitù nella terra d’Egitto, dove avrebbe dovuto imparare tante cose, ad esempio il valore della libertà. Durante il lungo cammino verso la terra promessa, la cosiddetta Palestina, gli ebrei appena hanno un problema di fame o di sete imprecano contro Dio e il suo luogotenente, Mosè, dicendo con parole diventate famose: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio».
Da qui è nata l’espressione: “rimpiangere le cipolle d’Egitto”. Come a dire: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Ovvero, meglio schiavi, ma con la pancia piena! Ragionamento di buon senso o di sano realismo, così ci si giustificava, che ha attraversato secoli e millenni della storia umana, passando da una schiavitù all’altra, tramite rivoluzioni anche feroci, tutte finite nel sangue, dove le vittime diventavano carnefici.
È quanto farà il popolo eletto, lo vediamo ora, ed è quanto facciamo anche noi nel nostro piccolo. Da che mondo è mondo, mai l’uomo ha capito il vero valore della libertà, rendendosi conto che tutti siamo figli dello stesso Dio che vuole una umanità come un’unica famiglia, senza confini, senza barriere, senza nazionalismi o pretese criminali di conquista di terre di altri, che hanno gli stessi diritti che ho io.
E il popolo eletto che cosa ha fatto, conquistando la terra promessa già abitata da altre popolazioni? Le ha distrutte con la violenza, in nome della purezza della razza ebraica. Questo non ci fa riflettere? Carnefici e vittime, vittime e ancora di nuovo carnefici. Sempre in nome della razza pura. Anche oggi è così.
Volere di più, sempre di più, violentando i diritti degli altri; conquistare terre, in nome di quell’“amor sui”, amore di appropriazione, il vero peccato originale, la fonte di ogni male.
Male! Che cos’è il male? Trasgredire una legge di Dio, o meglio una legge che ogni religione impone per sottomettere le coscienze? Il male non è tanto una parola sbagliata, un gesto irriverente, una violenza compiuta a danno di un altro, una disobbedienza alle autorità cosiddette costituite dall’alto: il male è un bene, a cui manca di essere completato.
Una volta si parlava di peccati omissioni, oggi non se ne parla più. Se non tendo verso il Meglio, compio qualcosa che non va, proprio perché manca quel bene che lascio in sospeso. Ci siamo sempre limitati a confessare i cosiddetti peccati veniali o mortali (talora assurde distinzioni stabilite dalla chiesa religione), dimenticando la cosa essenziale: devo continuamente pentirmi su quanto avrei dovuto fare di bene e non l’ho fatto, ma il bene che cos’è? Non è una legge da osservare, o un’opera buona da compiere, ma è il Bene Sommo a cui tendere, rientrando in me stesso.
Passo al secondo brano. Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, parla di giustizia di Dio, in una prospettiva totalmente diversa da quanto noi siamo abituati a pensare. Noi riteniamo che giustizia sia valutare in modo imparziale le persone e il loro comportamento, e retribuire ciascuno secondo i suoi meriti. E invece, nella Scrittura, alla giustizia di Dio corrispondono la sua benevolenza, la sua grazia, la sua misericordia, al di là di una legge stabilita secondo il criterio umano. Dio fa giustizia quando fa germogliare il bene, trasforma il peccatore in giusto, ovvero cosciente della sua nobiltà, frutto non tanto di opere buone, ma della Grazia che libera il nostro spirito, sempre soggetto alle perversioni di un ego che ci rende schiavi.
Certo la Grazia, Dono gratuito di Dio, chiede il nostro impegno, con il distacco dalla schiavitù delle cose. Basta questo, e poi la Grazia fa il resto, al di là di ogni previsione umana. In altre parole, la Grazia ci precede, pronta a intervenire quando lasciamo libero lo spazio interiore. Il nostro distacco, che ci sembra troppo impegnativo, viene ricompensato, in modo del tutto sorprendente, dall’abbondanza infinita della Grazia.
Passiamo al terzo brano: un testo altamente drammatico e anche violento nelle parole, e anche nei fatti: quegli ebrei, tra l’altro simpatizzanti di Gesù, vorrebbero lapidarlo.
Gesù inizia il dialogo/scontro con una provocazione: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Parole che già di per sé dovrebbero far tremare i filosofi e i teologi di tutti i tempi. Immaginate la scena: le diatribe anche ridicole per stabilire che cos’è la verità e che cos’è la libertà, e il loro rapporto: prima la verità o prima la libertà?
Gesù non discute, dice subito: “Sono io l’unico Maestro, ciò che vi dico vi rederà liberi”. Ovvero il Logos eterno è la verità di Dio che rende liberi. Sul fatto che è la verità a rendere liberi, gli ebrei non facevano problemi, ma, ecco la domanda: chi è il Maestro?
A parte Dio, in ogni caso lontano e inconoscibile, un ebreo si sentiva figlio di Abramo. Nel brano di oggi il nome Abramo torna 11 volte. Questo fa capire quanto importasse Abramo per un ebreo: erano figli di Abramo, e di nessun altro. Come Gesù osava dire di essere lui la verità che libera? Gesù tenta inutilmente di togliere quegli ebrei da una figliolanza tribale.
Certo, Dio aveva scelto Abramo come capostipite del popolo ebraico. Ma Abramo non era altro che un capostipite tribale. Il Logos eterno si era fatto carne per dire anzitutto al suo popolo, diventato schiavo di una religione tribale, che doveva essere liberato, tanto più che a ingannarlo non era quell’Abramo di cui loro si vantavano di essere figli, ma il diavolo, colui che dice: io ti libero, perché io sono la verità. O meglio, siccome ti libero sono la verità.
La libertà non esiste senza la verità. È la verità che libera. Non il contrario. Ma che significa: ti libero, quando tutto è un inganno? Gesù lo dichiara apertamente: voi siete figli dell’inganno in persona, voi non siete figli di Abramo, ma del padre della menzogna.
All’offesa: “Tu sei un samaritano”, Gesù risponde per le rime: “Voi siete indemoniati”, e termina con una provocazione che va al di là di ogni sopportazione ebraica: “Prima che Abramo fosse, Io Sono!”. Quegli ebrei avevano capito che Cristo si era definito Figlio di Dio:
presero le pietre per ucciderlo.
Hanno ripetutamente detto che da tempo Dio è morto. Sì, Cristo è morto sulla croce, ma forse ancora pochi si sono accordi che, mentre moriva, donava lo Spirito. Quello Spirito che richiama in continuazione le parole di Gesù alla Samaritana: il Padre va adorato in spirito e verità. Nella libertà del nostro essere più puro.
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