Omelie 2024 di don Giorgio: QUINTA DOPO PENTECOSTE

23 giugno 2024: QUINTA DOPO PENTECOSTE
Gen 17,1b-16; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
Se dovessi esprimere in una parola il cuore o il nocciolo dei tre brani della Messa la parola non potrebbe che essere “fede” o “credere”.
In breve: fede o credere in quello che Dio ci rivela, è contare e appoggiarsi ciecamente su di lui. L’“amen” che diciamo al termine di ogni preghiera non è un augurio o la speranza che Dio ci ascolti. “Amen” è un atto di fede, perciò andrebbe tradotto: “cosi è” e non “così sia”. Se noi preghiamo Dio per ottenere una grazia e poi diciamo: “così avvenga”, sarebbe una pretesa, una bestemmia, come se costringessimo Dio ad ascoltarci, magari andando contro quel suo voler ciò che è veramente il nostro bene, che non sempre corrisponde alle nostre richieste.
L’unica autentica preghiera si trova nel “Padre nostro”, quando diciamo: “Sia fatta la tua volontà”. Solo il volere di Dio è anche il nostro unico autentico bene.
Vorrei aggiungere che la parola ebraica “amen” richiama stabilità, sicurezza, fermezza, che sono di garanzia per il nostro credere, il quale dunque appoggia come su una roccia.
L’autore del Salmo 18, primi versetti, così prega: “Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio…».
E allora ecco la domanda: che significa fede, ovvero credere?
Se leggiamo attentamente l’Antico Testamento, troveremo che fede significa porre tutta la propria fiducia sulla parola di Dio: se Dio parla, dobbiamo ascoltarlo. E come ci parla? Sicuramente possiamo dire che egli parla a modo suo, e parla al nostro spirito, misteriosamente.
La Bibbia ci dice che Dio ha voluto stringere con il suo popolo un patto, quasi per stringere in un forte abbraccio i suoi eletti, ponendo una perentoria condizione: mi devi obbedire, e se tu non mi obbedisci rompendo così l’alleanza io ti sarò sempre fedele, pronto a stringerti in una nuova alleanza, sempre più forte e sempre più spirituale. Si parla di alleanza, in realtà è unilaterale: se noi la rompiamo, Dio rimane sempre fedele alla sua parola.
Se Dio è spirito e noi siamo spirito, come non intenderci e non vivere in perfetta armonia?
Credere allora è vivere nella libertà dello Spirito, a patto che noi facciamo spazio o il vuoto necessario perché la Luce entri nel nostro essere più profondo.
Questo dicono i Mistici medievali, ed è l’unica opera giusta che dovremmo fare. Questa è la fede evangelica di cui parlava Cristo. Fede è dare il massimo spazio in noi, alla presenza di Dio.
San Paolo afferma le stesse cose, anche se in modo fortemente provocatorio, sostenendo il principio che noi siamo giustificati (cioè resi giusti) dalla fede e non dalle opere.
Nel terzo capitolo della Lettera ai cristiani di Roma l’Apostolo torna continuamente sulla consapevolezza che le opere prese in se stesse non giustificano. È la fede che ci fa entrare nel mondo purissimo di Dio. E la fede è quell’atto con cui ognuno di noi confessa la sua radicale insufficienza, la sua precarietà che, senza la fede, renderebbe invano, inutile, ogni nostro agire.
La salvezza viene interamente da Dio che ci sceglie, ci accoglie e ci rende giusti, e nella giustizia divina ogni cosa che io compia, anche se piccola, umile, acquista senso e valore, perché permeata dalla Grazia. Le opere contano nulla davanti a Dio, se sono compiute nell’io o nell’ego, e non nella sua Grazia.
Con il quarto capitolo San Paolo vuole dimostrare le sue affermazioni: non sono le opere che ci salvano in Dio ma, prima di tutto, la fiducia in Lui. E questo è avvenuto anche nel Vecchio Testamento, dice Paolo che così rilegge la Scrittura e la vicenda di Abramo, ritrovandovi la stessa consapevolezza.
Seguiamolo nel suo ragionamento, che è importante anche per noi cristiani di oggi, che poniamo tutto sul nostro agire o fare o strafare senza renderci conto che tutte le nostre opere anche di bene sono vuote, senza la presenza dello Spirito. E purtroppo si fa, anche tanto e anche con nobili intenzioni, ma ponendo fiducia nelle stesse opere che restano carnali, se non sono illuminate dall’Intelletto divino. Pensate già alla gratuità, che non sempre è presente nel nostro agire. La Grazia, che la Gratuità, sta stretta o non ci sta affatto in un nostro agire contaminato da vari tornaconti, anche di carattere diciamo psicologico. Già quando diciamo: “Sto bene, sono soddisfatto” per aver aiutato un povero, dovrebbe farci riflettere. La gratuità comporta umiliazioni, solitudini, emarginazioni, incomprensioni, tensioni, proprio perché si agisce nella più assoluta gratuità.
Ecco il ragionamento di San Paolo. Poiché per gli ebrei Abramo non è solo il capostipite, ma è anche il modello ed è il giusto per eccellenza, proprio la vicenda di Abramo ci aiuta a cogliere il significato della fede, che viene prima delle opere.
E proprio poiché secondo la tradizione dei rabbini Abramo è stato giustificato mediante le opere, ubbidendo alla legge di Dio, san Paolo vuole sfatare questa consapevolezza come leggenda. Se Abramo avesse avuto riconoscimento per le opere, poteva appoggiarsi su qualcosa per glorificarsi davanti a Dio. Ma Abramo se è un modello ed è il giusto per eccellenza è per la sua fede ancor prima che si mettesse in viaggio e poi facesse ciò che ha fatto: la fede di Abramo fu quella di credere alle promesse di Dio, ancor prima di vederle attuate.
Secondo il ragionamento di san Paolo, Abramo visse fidandosi di Dio e quindi seguendo la sua legge. Possiamo dire: Abramo ha obbedito alla legge di Dio perché prima si è fidato di Dio. Abramo ha vissuto ed è stato accolto come giusto da Dio, non perché egli abbia acquisito dei diritti, come chi fa un lavoro ed ha diritto ad un salario, ma perché si è fidato di Dio e “questa fede gli è contata come giustizia”. In altre parole, la fede non è un rapporto di un dare per ricevere, come chi offre il suo lavoro e perciò riceve una ricompensa: la fede è assoluta gratuità perché così è Dio, assoluta gratuità. Fede in Dio è vivere di gratuità divina.
E pensare che noi abbiamo confuso la fede con la credenza religiosa. La fede è pura, non ha bisogno di preghiere per chiedere a Dio qualcosa. La credenza religiosa è un insieme di riti, di preghiere, di cerimonie, di sacramenti con cui pretendiamo di ricevere qualcosa da Dio.
L’unica preghiera è “Sia fatta la tua volontà!”. Ed è nel volere divino che c’è il nostro vero bene. Accendiamo pure una candela, ma come segno della nostra fede pura: la candela accesa a poco a poco si consuma, così noi: quando siamo accesi di fede ci consumiamo nella carnalità che ci porta a prendere Dio come un distributore di grazie. La candela accesa non è una richiesta di grazie, ma è il segno di una fede che, più è splendente più richiede distacco da ogni carnalità. Ho parlato di candela di cera.

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