Omelie 2022 di don Giorgio: SETTIMA DOPO PENTECOSTE

24 luglio 2022: SETTIMA DOPO PENTECOSTE
Gs 24,1-2a.15b-27; 1Ts 1,2-10; Gv 6,59-69
Il primo brano della Messa di questa domenica fa parte del capitolo 24 che chiude il libro di Giosuè: merita una particolare attenzione.
A Sichem, al centro della terra promessa, in quello che sarebbe poi diventato un santuario caro a tutte le tribù e già legato alle memorie dei patriarchi, Giosuè, prima di chiudere la sua esistenza terrena, convoca un’assemblea generale di tutto Israele, popolo e capi insieme che “si presentano davanti a dio”, compiono cioè un rito ufficiale di rinnovamento dell’alleanza. Giosuè apre la celebrazione pronunziando un discorso che contiene anche quello che è stato chiamato dagli studiosi “il credo storico d’Israele”.
La fede d’Israele non si basa su astratte dichiarazioni o tesi su Dio, diversamente dai nostri “Credo”, pensate a quello lungo della Messa, chiamato niceno-costantinopolitano, perché composto, in origine, dalla formulazione approvata al primo concilio di Nicea (325), a cui vennero aggiunti ampliamenti, relativi anche allo Spirito Santo, nel primo concilio di Costantinopoli (381), esso fu redatto a seguito delle dispute che attraversavano la chiesa del IV secolo, soprattutto a causa delle teorie cristologiche di Ario (Arianesimo).
Il Credo della Messa andrebbe sostituito con quello più corto e più antico, che solitamente si legge in Quaresima.
La fede d’Israele si basa sul riconoscimento della presenza di Dio all’interno della sua storia. È così che Giosuè inizia evocando la chiamata dei patriarchi e il dono della discendenza offerto ad Abramo. Passa poi a “confessare” la presenza divina all’interno dell’esodo dalla schiavitù egiziana e durante la marcia nel deserto, ove Israele conobbe la lotta, ma anche la vittoria sia sui nemici militari sia quelli più misteriosi come il mago Balaam. Il Signore è per eccellenza colui che si rivela efficacemente all’interno degli eventi e delle vicende umane. Giosuè continua a pronunciare il suo “credo storico” e, dopo i patriarchi e l’esodo, evoca il terzo momento della storia della salvezza, quello della conquista della terra promessa, avvenuta attraverso la vittoria sulle popolazioni indigene, vinte anche con le forze della natura (il simbolo delle “vespe pungenti” che mettono in fuga i due re amorrei) per indicare che era il Signore a guidare l’esercito d’Israele. La terra è, così, un dono divino e un segno della sua azione-rivelazione nella storia.
A questo punto si ha la grande svolta: al gesto del Signore deve rispondere l’impegno dell’uomo. Esso è rappresentato attraverso un dialogo serrato e reiterato, in cui Giosuè chiede a Israele di aderire ufficialmente al Signore e alla sua legge attraverso un vero e proprio patto. Lo schema, infatti, su cui è costruito il capitolo 24 è quello dei cosiddetti “trattati d’alleanza”, che venivano stipulati nell’antico Vicino Oriente tra un re e i suoi vassalli. La parola che esprime l’impegno del popolo è il verbo “servire”, che verrà ripetuto all’interno del brano 14 volte, secondo un numero simbolico di piena perfezione (due volte il numero perfetto sette).
Vorrei farvi notare che il verbo “servire” in ebraico indica varie dimensioni, compresa quella liturgica ed è usato anche per il lavoro: nella terra promessa Israele non sarà più “servo” di padroni e di dèi stranieri, costretto a lavori forzati, ma sarà per sua libera scelta “servo” del Signore, lo potrà invocare nel culto e potrà lavorare la terra che gli è stata donata. Il popolo solennemente ripete il suo impegno e si proclama testimone ufficiale di questa scelta.
Potremmo star qui delle ore sul verbo “servire”. Ha molti significati, ma quello più denso di valore è la libertà di servire, ovvero quel rapporto profondo intimo dello spirito con lo Spirito divino. Non c’è schiavitù o sudditanza nello Spirito. Tutti ricordiamo le parole di San Paolo: “Ubi autem Spiritus Domini, ibi libertas”, “dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà”.
Chiariamo. San Paolo parla di spirito, solo nello spirito c’è libertà.
Servire Dio allora che cosa significa? Servirlo in quanto Spirito. Pensate al dio delle religioni, che è un idolo. Ogni idolo impone un modo di servire che è schiavitù. L’ordine di Giosuè a non servire gli dèi stranieri dovrebbe farci riflettere, quando la stessa religione impone i suoi dèi o idoli da adorare.
La libertà sta nell’adorare Dio in quanto Spirito, che è il Bene Assoluto, ovvero slegato da ogni condizionamento carnale. Solo nel profondo della nostra anima, nel fondo del nostro essere, là dove lo spirito si purifica, c’è libertà.
E pensate poi alla libertà del lavoro. Qui sembra di essere utopisti, fuori di ogni realtà, quando parliamo di un lavoro che ci libera, e ci viene in mente l’espressione nazista “il lavoro rende liberi” che era posta all’ingresso dei campi di concentramento.
Il lavoro nobilita, il lavoro ci rende liberi, ma quali lavori, in che senso il lavoro ci libera?
Credo che già basterebbe la domenica, giorno di riposo, per farci capire quanto sia importante sospendere attività materiali per dare spazio allo spirito.
Come non riflettere già sul nome “domenica”, dies domini, giorno del Signore? Eppure tutti prendono la Domenica, giorno del Signore, come fosse un giorno da gestire nel modo più laicista possibile. E così si organizza di tutto, pur di togliere alla domenica la sua vera identità: giorno dello spirito, giorno in cui do libertà allo spirito di respirare.
Dunque, giorno di riposo fisico perché lo spirito si riprenda il suo spazio. Oramai tutto è così assurdo che sembra impossibile restituire alla domenica l’esigenza spirituale di un essere che è anzitutto essere, poi avere, sapere, potere, ecc.
C’è un altro particolare, quando, dopo il patto stipulato tra il popolo eletto e il Signore, Giosuè prese una grande pietra e la drizzò sotto il terebinto, un albero considerato sacro, all’interno del recinto del tempio. Allora Giosuè disse al popolo: “Ecco, questa pietra sarà una testimonianza per noi, perché essa ha udito tutte le parole che il Signore ci ha detto; sarà una testimonianza contro di noi, perché non rinneghiate il vostro Dio”.
Davvero interessante che una pietra possa diventare come un documento pubblico commemorativo dell’evento. Forse possiamo anche leggere la mentalità antica, che vedeva in alcuni oggetti la presenza della divinità. Ma l’autore sacro va oltre, e vede la partecipazione del creato alle grandi opere di Dio.
Quando l’uomo perderà ogni memoria divina, quando lo stesso credente non riconoscerà più la presenza di Dio nella storia, il creato testimonierà il nostro tradimento, e la natura continuerà a generare meraviglie, quasi a sfidare l’intelligenza umana, che è persa nella nebbia dell’oblio più tenebroso.
E, non dimentichiamolo, la natura anche nelle sue ribellioni (pensate ai terremoti, alle montagne che franano) sono la voce di Dio che richiama la stupidità dell’essere umano.

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