Omelie 2023 di don Giorgio: Quarta dopo il Martirio di S. Giovanni il Precursore

24 settembre 2023: Quarta dopo il Martirio di S. Giovanni il Precursore
Is 63,19b-64,10; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35
A parte il libro dei Salmi, che raccoglie 150 tra le migliori preghiere, con cui l’orante ebreo invocava il suo Dio, non solo per motivi strettamente personali, ma anche per la propria nazione quando era in difficoltà, a cui ogni buon ebreo era particolarmente legato per un patto con Jahvè, chiamato Alleanza, nell’Antico Testamento troviamo altre preghiere, degne di attenzione, soprattutto nei testi profetici. Generalmente si tratta di preghiere liturgiche di carattere penitenziale.
È il caso del primo brano della Messa, che troviamo nel libro chiamato dagli studiosi Terzo Isaia, scritto da un anonimo profeta vissuto dopo l’esilio babilonese.
Anche se nel testo è il profeta stesso a invocare il Signore, in realtà è una supplica collettiva di un popolo che, ricordando un passato glorioso per opera della misericordia e della gratuità di Dio, ora, tornato da Babilonia dopo essere stato sottoposto a dura prova che lo ha in parte purificato, si accinge a restaurare la nazione distrutta, affrontando anzitutto gli attriti con gli ebrei rimasti in patria. Possiamo anche immaginare queste difficoltà di convivenza.
Un ritorno dunque desiderato per tanti anni, e perciò idealizzato, ma ecco la dura realtà: bisogna ricominciare, tra lacerazioni e diffidenze reciproche. Da soli non ce la fanno, e chiedono aiuto al loro Dio. Non basta averli liberati dalla schiavitù babilonese, ora li deve aiutare nella ricostruzione ex novo di un popolo, frantumato in esilio.
Ed ecco l’invocazione che dice già tutto: “Solo tu sei il nostro Padre”, perché non ci sono più padri a cui rivolgersi.
“Abramo non ci riconosce e Israele (Giacobbe) non si ricorda di noi”. Come a dire: questi grandi patriarchi sono morti da secoli, e tacciono nello sheol, ritenuto a lungo dagli ebrei come luogo di silenzio, senza alcuna comunicazione con i viventi sulla terra, perciò quanti sono morti, come i grandi patriarchi, non sono più in grado di soccorrere gli ebrei che ora vorrebbero rivivere in una patria resa un rudere con pochi resti.
Dunque, solo Dio il Vivente è da invocare, e lo si invoca come “Padre”. Notiamo: è la prima volta che nella Scrittura si applica a Dio questo attributo, “padre”. Gli ebrei erano restii a chiamare Dio Padre come, spesso, i popoli pagani chiamavano le loro divinità. Un tale linguaggio avrebbe facilmente equivocato su ipotetici matrimoni con “le figlie degli uomini”, come la mitologia pagana, invece, ricordava facilmente.
Ora, dunque – così pensa il popolo ebraico – non ci sono padri in grado di toglierlo da una situazione difficile: resta solo Dio, che è l’unica speranza nuova.
Ed ecco l’invocazione diventata famosa nella liturgia d’Avvento, in preparazione al Natale: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!…”. Notate il verbo “squarciare”: quanto è forte nella sua simbologia! I cieli sono diventati così chiusi, impenetrabili che bisogna squarciarli, usando la forza per aprirne un varco, per permettere a Dio di scendere sulla terra.
Il popolo ebreo, disperato, invoca tutta la potenza di Dio perché si manifesti con una venuta straordinaria. Ma sa di essere in peccato: è tutta colpa sua se la patria è così mal ridotta, avendo tradito l’alleanza con il Dio dell’Alleanza.
Credo che non basti rileggere il testo sacro, anche se ci mettiamo in sintonia profonda con la situazione storica di un popolo che torna in patria e che la trova distrutta soprattutto nei luoghi sacri (pensate al tempio di Gerusalemme raso al suolo).
Proviamo a rileggere questa preghiera anche ai nostri tempi, supposto che oggi il popolo sia cosciente di essere nella stessa situazione narrata nel brano di oggi.
La parola “patria” richiama “padre”, ma di quale padre si tratta? Con il passare del tempo, i profeti presero coscienza del senso della parola “padre”, applicandola a Dio, non più visto come il Dio unico per il solo Israele, popolo si “eletto”, ma non per essere l’unico popolo privilegiato per dominare su tutti gli altri popoli, ma “eletto” da Dio per essere il portavoce di un messaggio destinato a tutto il mondo. Pensate alla fatica degli stessi cristiani a superare le barriere di una Chiesa, chiamata “cattolica”, ovvero universale, ma sempre tentata di chiudersi in uno schema diciamo dogmatico e oltre, pur allargando i suoi confini ma non per espandere il Regno di Dio nella sua entità spirituale, ma solo nella sua realtà carnale, ovvero come struttura, come istituzione, come religione.
Mi pare che neppure oggi la Chiesa abbia capito in che cosa consista la sua vera missione: non è quella di espandersi come religione, o come istituzione, ma nel suo messaggio universale. Il papa e i vescovi vanno in giro per il mondo, ma a fare che cosa? Solo a sostenere le proprie strutture di Chiesa da incoraggiare?
Basterebbe fare un semplice giro di occhi, per vedere quanto sia tragica la situazione attuale di un mondo in effervescenza, ma non per valori che esplodono per essere raccolti e realizzati, ma per quel caotico mal essere che sta dilaniando ogni popolo e una società di inermi e di indifferenti ad ogni bruciore anche per ferite provvidenziali.
Riprendiamo la preghiera del primo brano, e facciamola nostra, con qualche ritaglio: «Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco… siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento… Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Signore, non adirarti fino all’estremo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo. Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte».
Anche qui bisognerebbe chiarire il concetto di giustizia secondo la Parola di Dio, che intende la giustizia al di là di quel concetto puramente giuridico che fa parte della legge umana. Tra Dio e la sua creatura non c’è un giuridico interscambio di diritti e di doveri: ci sono solo i diritti di Dio che sono iscritti come doveri nell’essere umano, che perciò è essenzialmente essere, senza libertà di scelta.
O ci fidiamo totalmente di Dio, oppure mettiamoci nelle mani di una legge umana, altalenante e bizzarra, in vista di un potere disumano, che privilegia i diritti suoi.
Con Dio non si discute, perché è il Bene Assoluto. O lo prendi così com’è, oppure tradisci la tua coscienza, che diventerà vittima del sistema più perverso.

1 Commento

  1. Gianfranco ha detto:

    Sbaglia anche il prete a dire messa diceva mia nonna e oggi il prete di Cernusco Lombardone ha fatto decine di errori in quanto ha mescolato parole del rito vecchio e quello nuovo (es. effusione/rugiada) inciampando in continuazione.
    Tutto sommato comunque con questo celebrante la liturgia è tornata a un livello dignitoso e decoroso al confronto dei dilettanti delle domeniche scorse. Peccato che questo sacerdote è un mero tappabuco in quanto normalmente celebra in Tanzania quindi non so se resterà ancora per una domenica o due al massimo poi si vedrà che cosa succede. La chiesa si è un po’ ripopolata ma ciò è dovuto al fatto che molta gente va per curiosità, per vedere se c’è copertura ed anche perché ogni volta c’è un prete diverso.
    Il vescovo Mario non gradisce che venga ricollocato il don Giorgio, mi è stato detto, per il prezioso contributo che egli sta dando alla comunità nella quale opera attualmente.

    Ciao Gianni

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