Omelie 2022 di don Giorgio: QUARTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

25 settembre 2022: QUARTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Pr 9,1-6; 1Cor 10,14-21; Gv 6,51-59
Sentendo o leggendo i tre brani della Messa c’è un verbo che potrebbe quasi impressionarci tanto da provocarci, ed è il verbo “mangiare”.
Eppure, è un verbo che fa parte della nostra vita quotidiana, e richiama uno dei problemi che assillano drammaticamente l’umanità anche oggi, visto che ci sono ancora milioni e milioni, forse miliardi di persone al mondo, che non hanno di che sfamarsi.
E poi anche la Bibbia invita alla gioia del cibo e ricorre frequentemente all’allegoria del banchetto per indicare la gioia dello stare con Dio.
Anche in diverse parabole di Gesù è presente il banchetto. E gli stessi evangelisti ricordano alcuni i tipici banchetti a cui Gesù partecipava (ricordiamo solo il banchetto con Levi o Matteo il daziere, e con il ricco Zaccheo, capo dei dazieri), suscitando anche forti critiche da parte dei suoi oppositori, e l’accusa di essere “un mangione e un beone”. Da notare che, come specifica Gianfranco Ravasi, l’originale greco ha l’espressione “phágos” e “oinopótes”, appunto un mangiatore senza ritegno e un bevitore accanito, oltre che avere come compagni di bisbocce figuri malfamati.
E infine presso gli antichi greci il banchetto era l’occasione per grandi discussioni filosofiche: ricordiamo il Convito di Platone.
Già da questi esempi possiamo capire che c’è pane e pane, cibo e cibo, banchetto e banchetto. Gesù, dopo la moltiplicazione dei pani, dirà di se stesso: “Io sono il pane della vita!”. Nel Padre nostro invochiamo non solo il pane materiale per la giornata, ma un pane sostanziale, quello essenziale, il pane divino.
Come a dire: il corpo ha bisogno di un cibo materiale, mentre lo spirito ha bisogno di un cibo del tutto spirituale. Dunque, ripeto, c’è cibo e cibo.
Adesso possiamo leggere con maggiore attenzione e in profondità il primo brano della Messa. È desunto dal Libro dei Proverbi, dove fin dall’inizio la sapienza è rappresentata come una persona che parla e agisce. Diciamo che la Sapienza divina è una nobile Signora, una Donna del tutto speciale, una persona che diventa maestra in pubblico. Ella con un “voi” diretto agli ascoltatori esorta gli inesperti e gli stolti a ravvedersi prima che sia troppo tardi e su di essi piombi il giudizio divino.
Il capitolo 9, di cui fa parte il nostro brano, mette in contrasto tra loro la sapienza e la stoltezza, come due donne che si contendono tra loro l’uditorio.
Anzitutto, ecco Donna Sapienza, raffigurata sullo sfondo di un edificio perfetto (“sette colonne”, sette numero perfetto), da alcuni pensato come un simbolo del tempio. Ella imbandisce la sua mensa, fatta di cibi semplici e fondamentali, come il pane e il vino.
Dice l’autore sacro: «Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”».
È già problematico oggi dire agli inesperti o agli imbecilli di rivolgersi alla Sapienza. Chi ascolta i sapienti oggi? Oggi tutti vorrebbero riempire la pancia della gente con tante promesse che riguardano qualcosa di materiale, e la gente abbocca, sentendo i borbottii del ventre. Ma dire alla massa: “Venite che vi do un cibo del tutto speciale che riguarda il vostro essere, il vostro spirito”, sarebbe come parlare al vento, colpiti anche da improperi.
“Venite, mangiate il mio pane…”. Qualcuno ha tradotto, non so con quale giustificazione del testo originale: “Venite, mangiate la mia Bellezza!”.
La bellezza è un riflesso del Bene Assoluto, ovvero del Bene sciolto da ogni limitazione o condizionamento o interessi materiali.
Ma usiamo pure la parola “bellezza” che sembra più radiosa e affascinante. Si dice che la bellezza salverà il mondo, e poi succede che facciamo tutto il contrario. Mai come oggi sembra di vivere in un mondo del tutto brutto, opaco di luce, tenebroso, coperto da una fitta nebbia, che gli insipienti vorrebbero farci credere come qualcosa di superlativo.
Pensiamo anche al linguaggio che usiamo anche normalmente. Sembra quasi che siano proibite le parole nobili. Tutto volgare, intendendo per volgo la parte meno nobile dell’essere umano. Siamo dei bruti, oltre che brutti in tutti i sensi.
Pensando alla recente, per fortuna terminata, campagna elettorale non posso non ricordare di nuovo il commento don Angelo Casati a proposito della bellezza. Scrive:
«Sto mangiando bellezza? Stiamo mangiando bellezza? O mangiamo parole che sono scialo di squallore, di disgusto, di degrado, di egoismi, di intolleranza, di miopie dello spirito, di insensatezza del vivere?… Ciò che leggiamo, ciò di cui ci nutriamo diventa spesso per assimilazione parte integrante di noi e ci succede di diventare per assonanza uomini del disgusto, del degrado, delle mille miopie, delle più che sconcertanti durezze di cuore. Succede così che proprio noi, che ci diciamo intelligenti, noi che ci proclamiamo acculturati, abbandoniamo la via dell’intelligenza”.
Ecco perché la Sapienza divina ci invita: «Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».
E che cos’è la Sapienza? O, meglio, essendo una Donna, chi è la Sapienza?
È il Logos eterno che si è incarnato come cibo e bevanda per il nostro spirito. Dal brano del Vangelo appare evidente che il vero pane della vita è Cristo stesso, il Verbo incarnato. Ma non basta nutrirsi fisicamente del pane eucaristico. Bisogna come sempre andare al di là di qualcosa di fisico, di qualcosa di rituale: certo, anche i sacramenti servono, sono importanti per noi cristiani, ma il loro intento qual è? È che ciascuno rientri in se stesso, e qui, all’interno dell’essere, si vive quella generazione ininterrotta del Verbo o Logos, di cui parlavano i Mistici medievali.
Sto leggendo Sant’Agostino, il quale insiste nel dire quanto sia essenziale rientrare dentro di noi, dove c’è la Luce che illumina il nostro essere. Che il Logos eterno sia la luce, lo dice lo stesso Giovanni nel Prologo, quando scrive: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”.
La vita viene dalla luce, prima dunque la luce, di conseguenza la vita. Per vivere occorre essere illuminati dall’intelletto divino. Ecco perché la Sapienza invita: “Andate diritti per la via dell’intelligenza”. Chi si addentra nei meandri dell’oscurità, in una selva oscura, perde il sentiero della vita, ovvero muore.
Anticamente, il battesimo era chiamato illuminazione, perché, come scrive S. Giustino, coloro che ricevono questo sacramento vengono illuminati nella mente.

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