Omelie 2013 di don Giorgio: Festività di Santo Natale

25 dicembre 2013: SANTO NATALE

Is 8,23b-9,6a; Ebr 1,1-8a; Lc 2,2-14

In Provenza, antica provincia del sud-est della Francia, tra le molte statuine che compongono il presepio, ce n’è una che rappresenta un uomo con un volto stupendo, carico di meraviglia ma con le mani vuote. Gli hanno dato il soprannome di “Stupìto” o “L’incantato”. Un giorno, le altre statuine del presepio si arrabbiarono e lo rimproverarono aspramente perché solo lui non portava nessun dono al Bambino Gesù:  “Non ti vergogni di venire a mani vuote da Gesù senza portare neanche un piccolo dono?”. “Stupìto” non sembrava accogliere i rimproveri e continuava a guardare Gesù. Maria, vedendo che le altre statuine continuavano a rimproverare il povero Stupìto, prese le sue difese e disse: “Non è vero che non porta nessun dono a Gesù; egli ha portato il dono più bello: la sua meraviglia! Questo significa che è stato attratto dall’immenso amore di Dio che lo ha incantato!”.

Lo “Stupìto” non dovrebbe mai mancare anche nei nostri presepi moderni. Anzi, forse oggi, più di ieri, abbiamo bisogno di stupore. Etimologicamente stupore significa reazione ad un qualcosa d’imprevisto, di inaspettato, da cui siamo stati come battuti, colpiti. Uno dei mali del nostro secolo è la mancanza di stupore. Stupore di fronte alle meraviglie della vita, dell’universo, del mistero divino. I pagani stessi si lasciavano incantare dallo stupore. Con l’espressione “stupor mundi” possiamo indicare la meraviglia di fronte al mondo che già i primi pensatori greci avrebbero provato e che sarebbe stata alla base della loro riflessione filosofica. Platone fa dire al suo maestro Socrate che “la meraviglia è la passione (pathos) di un filosofo”, e la filosofia, secondo Aristotele, trova la sua origine nella meraviglia. C’era dunque una componente sacrale nella meraviglia, che i primi filosofi avrebbero provato di fronte al mondo, tanto che potremmo anche definirla “sacro stupore”.

Dunque, lo stupore di fronte alle cose, la capacità di lasciarsi sorprendere, di rimanere in ascolto della loro voce sono da sempre temi cari alla riflessione filosofica dell’Occidente. Non solo i filosofi, anche gli scienziati erano spinti alla ricerca dalla meraviglia. Sono di Albert Einstein queste parole: «Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere».

Giustamente è stato detto che “lo stupore è la molla della conoscenza, la condizione del pensiero, la porta della comprensione artistica, tecnica e scientifica della realtà”. “Tutta  la scienza  ha inizio con la meraviglia: la ricerca scientifica, infatti, prende avvio da scoppi di meraviglia”.

Gesù ci ha parlato di una buona o di bella Notizia, ovvero di una Novità sempre fresca, e noi cristiani abbiamo perso la capacità di meravigliarci? Chi smette di stupirsi non può dirsi cristiano. La statuina dello Stupìto dovrebbe essere l’emblema del vero credente. Un cristiano, per la sua stessa natura, in quanto cristiano, dovrebbe essere l’incantato: colui che si fa prendere ogni giorno dalla meraviglia di un Dio che si è fatto uno di noi. Non vi sembra assurdo che la religione ci tolga la meraviglia, e ci immerga in un mondo di cose già viste e già scontate? Noi ci preoccupiamo di offrire tanti doni al Signore, ma il Signore non li considera: ci vuole contemplativi, persone estasiate.

Bisognerebbe rileggere la Bibbia alla luce dello stupore, e faremmo grandi scoperte. Anzitutto, il primo a farsi prendere dalla meraviglia è stato Dio stesso, quando ha creato il mondo. Al termine di ogni atto creativo, l’autore sacro annota: Dio vide che era cosa buona. Dio si meraviglia di se stesso. Inoltre, pensiamo ad Abramo: qualcuno ha scritto che il capostipite del popolo eletto è l’icona dello stupore. Abramo ha colto con meraviglia l’invito di Dio a lasciare ogni cosa e a seguirlo per una strada oscura e impervia, ha prestato fede alla promessa di una terra e di un popolo numeroso, «Abramo, guarda le stelle del cielo, le puoi contare? Così sarà la tua discendenza» (Gen 15, 5). Abramo, ogniqualvolta sollevava lo sguardo verso il cielo e vedeva in quelle stelle la forza della promessa divina, trovava la forza di continuare il suo cammino. Il firmamento non è solo oggetto di studio astronomico: occorre, affascinati, cogliervi un senso più profondo e più carico di significato: la promessa di Dio.

Non sto qui a passare tutta la Bibbia. Fermiamoci a quanto ci scrivono gli evangelisti (Luca e Matteo) a proposito dell’infanzia di Gesù. Gli episodi sono narrati tra stupore e meraviglia. C’è lo stupore di Zaccaria e di Elisabetta, c’è lo stupore di Maria e di Giuseppe, lo stupore degli stessi angeli e dei pastori. E così tutto il Vangelo è narrato tra lo stupore della gente, quando sente parlare e agire Gesù.

Gli esegeti o interpreti della Bibbia ci dicono che Marco è l’evangelista che, più degli altri tre, fa della «meraviglia» una dimensione fondamentale del suo racconto. Reazioni stupite, meravigliate, di timore e paura accompagnano il lettore di questo Vangelo dall’inizio alla fine dell’opera. La meraviglia riveste un ruolo importante per Marco. Soltanto chi si lascia stupire e interrogare dal mistero di Gesù lo può incontrare davvero per quello che egli è: il Cristo, il Figlio di Dio. Questo è il Vangelo: il Vangelo che Gesù proclama, il Vangelo che è Gesù stesso. Nel Vangelo di Marco è Gesù l’uomo della meraviglia. Davanti a lui o ci si chiude dentro le sicurezze del già noto o ci si apre lasciandosi portare altrove, su altre rive, per territori stranieri. Dio si è manifestato in un modo assolutamente inaspettato, egli ha spezzato ogni schema e lo ha ridotto al silenzio.

Gesù ha preso i bambini come modelli per i credenti. Perché? I bambini si fanno incantare dalle cose belle, traboccano di stupore: loro stessi sono un mondo meraviglioso. Dobbiamo allora tenere sempre dentro di noi lo stupore del bambino; rimanere sempre bambini, anche quando l’età avanza. Pascoli parlava di un “fanciullino” che è dentro ciascun essere umano: nell’infanzia si confonde con noi, ma, anche con il sopraggiungere della maturità, non cresce e continua a far sentire la sua voce ingenua e primigenia, suggerendoci quelle emozioni e sensazioni che solo un fanciullo può avere. La vecchiaia dell’animo non è da calcolare dal punto di vista anagrafico, ma è costituita da una esistenza appiattita, senza meraviglia. Posso avere ottant’anni ed essere ancora giovane, nello spirito. Quando noi prendiamo per scontate le cose intorno a noi, quando non ci emozioniamo più di fronte alla bellezza o anche alla sofferenza, allora, non importa l’età anagrafica, il nostro animo è comunque vecchio, privo di vitalità e di risorse.

Cito le parole di un altro autore: “La meraviglia è la condizione stessa di una fede che continuamente si riforma. La nostra fede inizia e si rinnova con lo stupore, stupore di fronte alle parole di liberazione del vangelo e all’incommensurabile amore di Dio rivelato in Gesù Cristo.

La meraviglia è la nostra disponibilità a mettere tra parentesi i nostri pre-giudizi, i nostri pre-concetti, per lasciare spazio alla nostra intuizione, per lasciarci guidare dalla curiosità di capire e di scoprire, di indagare e di svelare i piccoli e grandi segreti della realtà. Una cifra dell’era appena iniziata è proprio un rinato desiderio di reincantare la quotidianità, di imparare nuovamente a lasciarci intrigare, conquistare dal mistero, da ciò che non è scontato, evidente. Chi non riesce più a stupirsi davanti alla magia della vita, all’incantesimo dell’infinitamente piccolo ed al deliquio dell’infinitamente grande, agli insondabili meccanismi della quotidianità ed alle sorprendenti dinamiche delle eccezioni, chi resta indifferente a tutto ciò è pietrificato. Così, ghiacciato in una gabbia di stereotipi, di schemi e paradigmi che privano il suo sguardo della freschezza e la genuinità, fanciullesca, rischia di perdere il gusto dell’autenticità e dell’ingenuità diventando cieco alla bellezza, sordo all’armonia, insensibile al mistero, morto alla vita”.

Il grande poeta francese, Charles Peguy, parlando dell’amico Victor Hugo, scrisse: “Non vedeva il mondo con uno sguardo abituato […]. Tutto il problema di un genio è proprio qui, […] guadagnare, acquisire mestiere, mio Dio sì, ma soprattutto, ma essenzialmente non perdere in stupore e in novità, non perdere questo fiore, se possibile non perdere un atomo di stupore. È il primo che conta. È lo stupore che conta […]. Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse stato appena nato”. Per Peguy, la differenza tra il genio e il bambino consiste in questo: nel genio accade “eccezionalmente” ciò che nel bambino accade “naturalmente”. Nel bambino vedo l’inizio di una vita. Così dovrebbe essere per il cristiano: il mondo è sempre in gestazione, ad ogni nuova nascita un nuovo germoglio di vita. A nulla servono venti secoli di cristianesimo, venti secoli di carità, venti secoli di teologia, se ogni giorno non riaccade lo stupore di un nuovo inizio.  

Anche il Natale di Gesù andrebbe visto così. Non è tanto la commemorazione di un evento grandioso, e tanto meno un insieme di festività rituali e ancora peggio folcloristiche. Il Natale cristiano è l’irruzione nella storia del Nuovo, che ha rotto gli ingranaggi, ha messo in moto un processo, un cammino oramai inarrestabile. E questo processo avviene ogni giorno. Nel Bambino Gesù dobbiamo riscoprire il nostro impegno di reinventare la storia, di rimetterci nuovi germogli di vita. Ogni giorno la Chiesa deve rinascere. Così il cristiano.

Ciò accadrà, quando la Chiesa e i cristiani si faranno prendere dallo stupore. Lo stupore vede ciò che la semplice ragione non riesce a vedere. Lo stupore ci fa cogliere di Dio ciò che la religione, nei suoi dogmi, non potrà mai cogliere. San Gregorio di Nissa ha scritto: “I concetti creano gli idoli, solo lo stupore coglie qualcosa”. Chi crea stupore è pericoloso: come può un bambino far paura? È quanto capiterà anche al bambino Gesù. È quanto capiterà ai profeti. Il profeta fa paura: è come un bambino che si fa incantare da un Dio che ricrea ogni giorno la terra. 

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