26 marzo 2017: QUARTA DI QUARESIMA
Es 34,27-35; 2Cor 3,7-18; Gv 9,1-38b
I due temi, della vita e della luce, sono anticipati nel famoso Prologo del quarto Vangelo, e poi sviluppati da Giovanni, in particolare con il racconto della risurrezione di Lazzaro (tema della vita) e il racconto della guarigione del cieco nato (tema della luce). La liturgia invita oggi a soffermarci sul tema della luce.
Tema della luce
Vorrei anzitutto far capire quanto sia importante la presenza della luce presso ogni religione, e perciò anche presso la religiosità ebraica. Basti pensare che il termine stesso “Dio” significa etimologicamente “cielo luminoso” (latino “dies”, in italiano “giorno”). Alla luce sono infatti connessi immediatamente significati di chiarezza, verità, bene, gioia, vita, che hanno indubbiamente la loro radice nella nostra natura: infatti il greco “phos”, luce, è legato a “physis”, natura, dal momento che la vita è legata alla luce.
Allora possiamo capire le parole del Prologo di Giovanni: “In lui (Logos) era la vita e la vita era la luce degli uomini” (1,4). E poi: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1,9).
Anche presso il mondo dei Mistici la luce è fondamentale. L’”essere stesso è luce”, “vivere ed essere sono luce”, ovvero luce è la realtà stessa sia in senso fisico che in senso metafisico.
La festa delle Capanne
Per comprendere il miracolo della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita, dobbiamo inquadrarlo nel contesto della Festa delle Capanne, una delle più grandi solennità giudaiche: gli ebrei commemorano i gesti prodigiosi compiuti un tempo da Dio nel deserto in favore del suo popolo. Anticamente, era la festa agricola della raccolta dei frutti in autunno, con riferimento alla vendemmia e al raccolto delle olive: si soggiornava in abitazioni provvisorie sistemate nei campi. In seguito, tale abitudine fu vista come la commemorazione della vita degli ebrei in tende e capanne durante il soggiorno nel deserto. Ai tempi di Gesù le tende, fatte di foglie di palma, erano poste sui tetti delle case, nei cortili e nei giardini, e la gente vi andava ad abitare per una settimana. Due processioni sacerdotali partivano ogni mattina dal Tempio: una andava a raccogliere rami frondosi e l’altra si dirigeva verso la piscina di Silone. Al ritorno si versava acqua sui gradini del Tempio in modo che essa scorresse scendendo in direzione del mondo esterno, a simboleggiare la fede ebraica che avrebbe inondato il mondo. Durante i giorni della festa, nel cortile delle Donne si disponevano quattro grossi candelieri, con grandi lampade piene di olio; dalla città tutti potevano vederne la luce, e sotto, tenendo in mano torce ardenti, si eseguivano musiche e danze. Festa, dunque, di gioia: festa delle luci in ricordo della “luce” della divina Torah.
Guarigione del cieco nato
L’evangelista Giovanni, dal capitolo 7 all’inizio del capitolo 10, inserisce diversi fatti di Gesù, proprio durante la Festa delle Capanne, anche in un contesto di scontri tra la luce e le tenebre. Sempre nel Prologo, troviamo: “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno vinta… venne tra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto” (1,5.11). Ed è proprio in un clima di tensioni che Gesù, sempre nell’ambito della festa delle luci, dichiara: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Come vedete, anche Gesù collega la luce alla vita.
È in questo ambito che Giovanni inserisce anche la guarigione del cieco nato, che ora possiamo meglio cogliere in tutto il suo significato simbolico di luce fisica e di luce metafisica o mistica: Gesù non si è accontentato di ridare la vista degli occhi fisici, ma anche la vista della fede, intesa nella sua realtà più spirituale.
Non mi soffermerò sulla polemica riguardante la legge del sabato, sulla quale ci siamo già più volte soffermati, anche recentemente, e neppure mi soffermerò sulle reazioni negative da parte dei farisei, dei genitori, della gente comune: chi per un motivo chi per l’altro, non ha capito il gesto liberatorio di Gesù.
A parte Gesù, l’unico vero protagonista di tutto l’episodio, narrato anche nei minimi particolari, è proprio l’uomo cieco dalla nascita che mette nel sacco, a modo suo, i caporioni che, sentitesi offesi, lo buttano fuori dalla sinagoga, ovvero dalla comunità ebraica. Questa è sempre stata la tattica della Chiesa ufficiale che, non sapendo fare altro, ha usato condanne e scomuniche per eliminare i dissidenti. E anche la Chiesa non ha capito che, facendo così, ha permesso loro di incontrare il Cristo mistico.
Solo fuori della struttura, avviene il vero incontro con il Divino
Per fare questo incontro, dunque, il cieco, a cui era stata ridata la vista fisica, ha dovuto farsi buttar fuori dalle strutture, e, fuori dalle strutture, ha incontrato il Cristo interiore, il quale a sua volta si era fatto buttar fuori dalla sinagoga. Morirà, fuori dall’ebraismo. Sul Calvario, fuori da Gerusalemme.
Ancora oggi siamo legati al concetto che la salvezza è qualcosa che avviene fuori del nostro essere più profondo: si pensa che avvenga ad opera delle opere, delle strutture, dei sacramenti, dei riti, delle formalità religiose. Non dico che tutto è solo merito della grazia di Dio, ma il nostro impegno parte dal di dentro, non è anzitutto qualcosa di esterno a noi. Sì, non possiamo fare a meno anche dei riti, dei sacramenti, dei mezzi della Chiesa, ma questi resteranno vuoti, privi di salvezza, se non saranno animati o spiritualizzati dal Divino che è in noi.
Dunque, il vero incontro con il Cristo della fede o il Cristo Mistico avviene dentro di noi e, perché sia sincero, efficace, il nostro spirito interiore deve essere libero da ogni impedimento.
In fondo, siamo schietti: ci costa poco, pochissimo praticare la nostra fede, visto poi tutto il mondo folcloristico che la circonda. Ci costa di più rientrare dentro di noi e confrontarci con il Divino, che non si accontenta di darci qualche briciola, ma ci chiede tutto.
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