Omelie di don Giorgio 2024: SS. TRINITÀ

26 maggio 2024: SS. TRINITÀ
Es 33,18-23; Rm 8,1-9b; Gv 15,24-27
Credo che sia istintivo chiederci se fosse proprio necessario istituire una festa, quando tutto, anche un trifoglio, è un richiamo al Mistero trinitario. Sì, possiamo dire che Dio creando l’universo ha lasciato una impronta trinitaria, in latino “vestigium Trinitatis”.
E poi c’è un gesto che compiamo tutti i giorni, forse più volte, il segno della croce, che è una vera professione nei due misteri principali della nostra fede: unità e trinità di Dio (richiamate dalle parole) e incarnazione passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo (richiamate dal gesto). Due Misteri che sono lo stesso Mistero. Del resto sulla Croce è presente il Mistero trinitario: Cristo parla col Padre, e ci offre il suo Spirito.
La festività liturgica in onore della SS. Trinità nasce nell’VIII d.C., ed è di origine monastico-inglese. Fu infatti il monaco inglese Alcuino di York il primo a comporre una Messa in onore della Santa Trinità, ma all’inizio si trattava di una devozione privata. Tuttavia, la devozione si diffuse ben presto in tutta Europa. Nonostante ciò, papa Alessandro II (seconda metà dell’XI secolo), non ritenne opportuno riconoscere questa celebrazione come festa della Chiesa Universale, in quanto affermò: «ogni giorno l’adorabile Trinità è senza posa invocata con la ripetizione delle parole: Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto, e in altre formule di lode». I monaci continuarono comunque a diffondere la celebrazione della festa, sia in Inghilterra che in Francia e nel resto d’Europa grazie alle Abbazie dei monaci Cistercensi. Papa Giovanni XXII, prima metà del Trecento, visto ormai il riconoscimento “de facto” di tale festa nella cristianità, sancì con decreto che la Chiesa Cattolica accettava la festa della Santa Trinità e la estendeva a tutte le Chiese locali.
Aveva ragione papa Alessandro II nel sostenere che una festa in onore della SS. Trinità sarebbe inutile, visto che ogni giorno onoriamo la SS. Trinità. Si dice che un sacerdote, all’inizio della sua omelia durante la Festa della SS. Trinità, avesse detto: “Siccome tutti dicono che la Trinità è un Mistero del tutto incomprensibile, allora la mia predica finisce qui”. In fondo, non aveva torto.
Eppure, sono stati scritti volumi e volumi sul Mistero Trinitario. Anche Sant’Agostino ha scritto un trattato “De Trinitate”. E a proposito di Sant’Agostino, si narra un episodio (leggenda o no, non importa). Un giorno, Agostino in riva al mare meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. S’avvide allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?». La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo, Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento ma, il bambino fattosi serio, replicò: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero trinitario». E detto questo sparì.
Tra gli appunti di don Piero Pointinger (un prete che visse la sua prima e ultima esperienza pastorale a Rovagnate, dove a quarantanni circa morì, per tumore al cervello), ho trovato questa preghiera alla Trinità: «Penso alla Tua Trinità, Signore: inaudita pienezza d’essere. Capisco di non poter comprendere nulla, così come il mio occhio piccino non potrà mai abbracciare la vastità terrestre che si sviluppa oltre le sue possibilità visive. M’accontento di contemplarti e di lasciarmi inebriare dalla Tua pienezza d’essere, fiore d’un giardino il cui ingresso non varcherò mai, ma il cui intenso profumo giunge fino al mio spirito. Guidato da questo profumo, ritorno più sereno alle cose».
Dunque dalla mistica contemplazione si passa all’azione, la quale è illuminata dal Mistero trinitario. Qualcuno ha fatto notare che «le verità religiose non sono proposizioni puramente teoriche. Vogliono entrare in relazione con tutto l’uomo, con il suo intelletto come con la vita della sua volontà e del suo sentimento. La conoscenza della verità deve essere per l’uomo uno stimolo spirituale e una guida nella sua tensione verso Dio; deve trasformare il suo modo di pensare e il suo agire. Le verità della religione superano la portata del nostro intelletto e proprio nelle dottrine fondamentali del Cristianesimo tale mistero è più profondo». A queste dottrine si può applicare l’acuta espressione di G. K. Chesterton: «Esse sono come il sole; non si riesce a guardarvi dentro, ma nella sua luce intravediamo tutto il resto».
Deve essere allora possibile, attraverso una considerazione rispettosa e allo stesso tempo penetrante, custodire i confini del mistero e tuttavia intrecciare una relazione tra dogma e vita reale. Ho detto dogma, ma attenzione: il dogma richiama qualcosa di fisso, di ben determinato, di formulazioni che non lasciano spazio alla creatività, ma la creatività da rispettare non quella della nostra ragione: la creatività sempre ricca di sorprese, di novità fa parte della stessa verità divina, che è infinita.
Oggi la gente comune, forse la stessa chiesa istituzionale, non sa più che cosa sia un dogma, e tanto meno lo accetta, ma è successo che si sia perso anche l’essenza stessa del Mistero divino. Nel Medioevo, il dogma della Santissima Trinità deve aver avuto un significato del tutto particolare nella vita cristiana. Lo dimostrano gli antichi canti, in cui emerge con forza di continuo il grande Mistero, oscuro e nello stesso tempo luminoso. Anche le antiche indicazioni per la vita spirituale lo confermano. Pensate che la Lex Sadica (era la legge dei Franchi Salii, una delle fonti più antiche del diritto germanico, la cui più antica versione viene fatta risalire al Regno di Clodoveo agli inizi del VI secolo) in alcune redazioni risalenti al IX secolo si aprivano con la formula «In nomine Sanctae Trinitatis».
E oggi? Anche per noi credenti Dio è diventato così evanescente, diciamo vago, nebuloso da sostituirlo con devozioni più o meno superstiziose, o con cerimonie sacramentali, pensate ai battesimi, cresime, prime comunioni, ecc. che definirle pagliacciate non renderebbe ancora bene l’idea di un Cristianesimo ridotto in poltiglia.
Avrei voluto parlare del giusto atteggiamento che dobbiamo avere anche nei riguardi del Mistero trinitario. Nel libro “Imitazione di Cristo”, un semplice e concreto tracciato di vita ascetica, il cui autore resta sconosciuto, benché possa essere collocato in ambiente monastico attorno ai secoli XIII-XIV, trovo scritto: «A che cosa mai ti può servire stillarti il cervello in sottili ragionamenti intorno alla Trinità divina, se insieme non nutri nell’intimo quel sentimento di vera umiltà che solo ti può rendere a lei gradito?».
Umiltà comporta il distacco da ogni nostro vacuo e inutile ragionamento. Tornano le parole di don Piero: «Capisco di non poter comprendere nulla, così come il mio occhio piccino non potrà mai abbracciare la vastità terrestre che si sviluppa oltre le sue possibilità visive. M’accontento di contemplarti e di lasciarmi inebriare dalla Tua pienezza d’essere, fiore d’un giardino il cui ingresso non varcherò mai, ma il cui intenso profumo giunge fino al mio spirito. Guidato da questo profumo, ritorno più sereno alle cose».

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