Sì al diaconato e al sacerdozio femminile. Oppure no?
Sì al diaconato e al sacerdozio femminile.
Oppure no?
2022 7 mar
Il 18 febbraio 2022, Voices of Faith ha ospitato un incontro con Sr. Philippa Rath, Burkans Hose e Maria Mesrian. Con il suo libro “…perché Dio lo vuole”, la benedettina Philippa Rath ha dato una forte spinta alla discussione sui ministeri ordinati per le donne. Il nuovo volume “Donne in carica!” fa un passo avanti: 100 uomini di Chiesa – sacerdoti, diaconi e religiosi, laici e anche alcuni vescovi – si mostrano solidali con la del diaconato femminile. Le testimonianze a più voci dal mezzo della Chiesa sono un appello appassionato a riconoscere finalmente i diversi carismi e talenti delle donne nella Chiesa. Danno una risposta potente alle testimonianze delle donne e mostrano che le donne e gli uomini vogliono il cambiamento nella Chiesa. Le donne e gli uomini vogliono la giustizia – perché Dio la vuole!
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da www.settimananews.it
Il diaconato femminile:
due cautele
9 maggio 2024
di: Massimo Nardello
In queste note vorrei offrire alcune riflessioni di natura teologica su due cautele che, a mio parere, si dovrebbero avere nel processo decisionale relativo alla possibile introduzione dell’ordinazione delle donne al diaconato permanente.
Anche se mi trovo tendenzialmente in sintonia con un’opzione del genere, mi pare che vi siano ancora delle questioni aperte di cui occorre essere ben consapevoli in questa fase del cammino ecclesiale, per evitare di fare scelte poco avvedute e molto divisive.
In che modo la Tradizione è normativa?
Una prima questione riguarda il problema teologico della Tradizione.
Com’è noto, la possibilità di ordinare le donne al diaconato permanente è stata propiziata da una serie di studi, anche recenti, nei quali si è mostrato come nell’antichità siano esistite delle diacone ordinate con l’imposizione delle mani.
Non possiamo affermare con certezza che questa prassi sia stata riconosciuta come legittima sempre e da tutte le Chiese locali, dal momento che le fonti molto antiche di cui disponiamo gettano luce solamente su ciò che è avvenuto in alcuni territori e per alcuni periodi. In ogni caso, è indubbio che le diacone siano esistite.
Nello stesso tempo, però, tali studi hanno evidenziato come il loro ministero non fosse analogo a quello maschile, ma fosse relativo esclusivamente al mondo femminile. Dunque, come è naturale che sia, lo studio dei documenti antichi non ci consegna dei dati dal significato inconfutabile, ma una serie di elementi che devono essere interpretati.
A prima vista, tale interpretazione pare un’operazione molto semplice. Oggi sembra evidente che la destinazione dell’antico ministero diaconale femminile alle sole donne sia stata motivata dalla mentalità patriarcale caratteristica dell’età patristica. Ciò non toglie, però, che, ai nostri giorni, il ripristino di quel ministero potrebbe avvenire solo in termini paritari rispetto a quello maschile, e quindi comporterebbe l’attivazione di una forma ministeriale che non è mai esistita nella Chiesa. La cosa è legittima?
Per rispondere a questa domanda, occorre chiarire, dal punto di vista teologico, in che modo la Tradizione sia normativa per la Chiesa. Si può introdurre solo ciò che è già stato presente in passato o ci sono dei margini di cambiamento o, addirittura, di creatività? In effetti, di fatto la Tradizione ha subìto molti sviluppi, talora anche discontinui, anche nella teologia del ministero ordinato.
La domanda, quindi, diventa come discernere la legittimità di un cambiamento della prassi antica. La questione non è banale. Possiamo, ad esempio, rinunciare all’episcopato, o utilizzare altri alimenti rispetto al pane e al vino nella celebrazione dell’eucaristia in nome della volontà dello Spirito? Ovviamente no.
Non serve a molto rimandare il problema al magistero, dal momento che il papa e gli altri vescovi svolgono il loro servizio di discernimento autorevole della volontà divina in modo assolutamente umano, confrontandosi con il senso di fede delle loro comunità e, in particolare, con quanto emerge dalla riflessione teologica che scelgono di frequentare. Anch’essi, insomma, hanno bisogno di capire in che modo la Tradizione è normativa, e fino a che punto si possono introdurre dei cambiamenti rispetto a quanto è avvenuto in passato.
Ora, a mio parere, la teologia cattolica contemporanea non è in grado di dare una risposta condivisa a questa domanda.
A complicare la questione, vi è la crescente incidenza di una visione teologica che definirei antropocentrica – non semplicemente antropologica –, secondo la quale, dal momento che l’umano è destinatario della rivelazione, ciò che emerge di genuino e di umanizzante da un contesto antropologico, ovvero da determinate istanze culturali, deve essere considerato espressione del volto del Dio di Gesù Cristo e del suo volere sulla sua Chiesa e sull’umanità.[1] Nel caso del diaconato femminile, il fatto che la parità tra uomo e donna sia un valore culturale sicuramente autentico e condiviso nelle società occidentali – almeno, in teoria –, fa sì che, secondo la visione in esame, l’ordinazione diaconale delle donne sia certamente legittimata.
In questa prospettiva, la domanda sul modo in cui la Tradizione è normativa per la vita della Chiesa perde di significato. Le idee e le prassi del passato diventano semplicemente un repertorio da cui attingere liberamente per costruire una Chiesa, anzi un cristianesimo, che si fa plasmare dalle istanze culturali. E, siccome le culture sono molteplici e differenti, questo approccio comporta inevitabilmente una frammentazione del tessuto ecclesiale e, alla lunga, una rottura della comunione tra le Chiese locali.
In realtà, se si assume questa fondazione antropocentrica della teologia, cioè determinata primariamente dalle istanze culturali, molti aspetti della dottrina della fede vengono compromessi. Ad esempio, la convinzione che il vescovo di Roma sia il successore di Pietro, e che, in quanto tale, possa esercitare il suo attuale ministero primaziale, non regge più. In fondo, nel Nuovo Testamento non si parla mai di un legame tra l’Apostolo e il papa, e i recenti studi hanno messo in evidenza come esso cominci ad essere formalizzato solo intorno al IV–V secolo.
Più ancora, sul piano culturale, un ruolo così autorevole come quello del pontefice non ha alcuna giustificazione. Nelle società liberali il potere è delegato dal popolo e ha sempre una durata prestabilita. Dunque, assumere le istanze culturali come espressione della rivelazione divina significa anche far cessare il ministero del vescovo di Roma così come si configura oggi, e instaurare nella Chiesa un regime democratico.
Insomma, chi si appropria indebitamente delle istanze di riforma giustamente invocate da papa Francesco per decostruire il valore normativo della Tradizione dovrebbe considerare che questo approccio compromette anche l’autorità dello stesso pontefice, che non ha altro fondamento teologico se non nella Tradizione stessa.
Dunque, la riflessione sul diaconato femminile non può essere determinata primariamente dalle istanze culturali, ma richiede una risposta previa alla domanda sul modo in cui la Tradizione sia normativa, cioè su come l’intera Chiesa, guidata dal papa e dagli altri vescovi, possa capire quali cambiamenti sia legittimo introdurre anche nella sua struttura ministeriale. Solo a quel punto si potrà eventualmente stabilire che la destinazione delle diacone dell’antichità al solo mondo femminile può essere superata, e offrire alle donne cattoliche di oggi un ministero diaconale con le stesse caratteristiche di quello maschile.
Al contrario, se un’opzione del genere fosse maturata semplicemente per corrispondere alle istanze culturali relative alla parità tra uomo e donna in base alla loro presunta normatività teologica, si fonderebbe l’ordinazione femminile in modo aleatorio e si alimenterebbe una mentalità estremamente pericolosa e potenzialmente divisiva per la teologia e la vita della Chiesa.
La riduzione del servizio diaconale a quello battesimale
Una seconda questione riguarda l’identità ministeriale del diaconato.
Da circa trent’anni, da quando ho iniziato ad occuparmi della formazione dei diaconi permanenti, cerco di divulgare la convinzione che il ministero diaconale non sia per il servizio tout court. Questa frase può apparire problematica, anche in considerazione dei recenti interventi magisteriali, ma ovviamente deve essere capita bene.
La teologia del diaconato dovrebbe prendere le mosse dalla premessa che il battesimo, completato dalla cresima e alimentato dall’eucaristia, è un fondamento sacramentale ampiamente sufficiente per il servizio all’interno della Chiesa, e anche per “svegliare” le comunità cristiane, ricordando ad esse la vocazione ad avvicinarsi ai lontani, a stare dalla parte degli ultimi, a promuovere una società più umana e a tutelare l’ambiente.
Al contrario, affermare che soltanto il diaconato abiliti ad un’operosità di questo genere significherebbe mettere in discussione la teologia del battesimo, e pure andare contro all’evidenza. In ogni comunità vi sono uomini e donne non ordinati che, per i loro carismi e il loro stile di vita, richiamano tutti all’attenzione ai poveri e alla cura del creato.
Se la logica ha ancora un valore nella Chiesa, occorre spiegare in che senso i diaconi abbiano il compito di “svegliare” le comunità, se di fatto anche altri credenti lo possono fare semplicemente in virtù del loro essere cristiani, a volte in modo migliore rispetto a chi è ordinato.
Questo problema non può essere risolto ridimensionando le capacità di servizio che derivano dal battesimo per valorizzare quelle diaconali. È molto più importante valorizzare la ministerialità di tutti i battezzati non ordinati che il diaconato permanente.
Si può, invece, ricorrere ad un’ecclesiologia di tipo platonico, affermando che il diacono è conformato al Cristo servo, e quindi richiama la comunità al servizio semplicemente per il fatto di essere ordinato, a prescindere da quello che effettivamente fa. Tuttavia, non viviamo più in un contesto culturale che possa dare un senso a un’ecclesiologia di questo tipo, per cui oggi una visione del genere risulterebbe incomprensibile.
Inoltre, il modo di impiegare i diaconi nelle parrocchie e nelle diocesi dimostra che il servizio della soglia, al di là delle proclamazioni teoriche, non è realmente al centro del loro ministero.
Diversi di loro dedicano la maggior parte del loro tempo a compiti che non hanno nulla a che vedere con la vicinanza al mondo della marginalità o dei lontani dalla fede. Ad esempio, dirigere un ufficio in curia, occuparsi di amministrazione, fare catechesi o lavorare nella pastorale familiare sono attività diverse da quelle caritative o di evangelizzazione di chi non è cristiano.
Infine, i diaconi normalmente hanno un’attività professionale che si svolge all’esterno dei confini ecclesiali, e fino alla loro pensione possono offrire una disponibilità di tempo molto più limitata di quella di altri soggetti ecclesiali, come i presbiteri, i religiosi e i volontari pensionati. Anche dopo la fine della loro attività lavorativa, poi, le difficoltà di salute o gli impegni familiari possono renderli meno disponibili al servizio rispetto ad altre figure ecclesiali, magari dedite a tempo pieno alla loro comunità.
La visione che potrebbe aggirare tutte queste criticità è quella di pensare il diaconato non in funzione del servizio ecclesiale tout court, ma come un ministero di leadership volto a guidare autorevolmente, in virtù del carisma ricevuto con l’ordinazione, dei gruppi di credenti, preferibilmente quelli che nelle comunità cristiane operano sulla soglia, cioè si occupano dei poveri, dei lontani e dell’ambiente.
In questo modo, il diacono diventa icona di Cristo servo non perché sia maggiormente al servizio degli altri, ma in quanto è la guida autorevole e il portavoce di quei battezzati che, per carisma personale, esprimono in modo più evidente l’estroversione della loro comunità ecclesiale.
Un servizio del genere, essendo una forma di leadership, può non richiedere molto tempo, anche se esige comunque una formazione teologica e pastorale ben superiore a quella attualmente richiesta nelle nostre Chiese locali ai candidati al ministero diaconale.
Ora, tutto questo è molto rilevante anche per il diaconato femminile. A mio parere, qualora papa Francesco decidesse di autorizzarlo, le probabili forti resistenze ad una leadership femminile nella Chiesa cattolica potrebbero spingere a livellare ancora di più il servizio diaconale su quello battesimale. Così sia i diaconi sia le diacone non avrebbero alcun ruolo autorevole, ma sarebbero semplicemente uomini e donne che si sono distinti per il loro servizio e che quindi sono stati premiati con l’ordinazione.
Questo pregiudicherebbe alla radice quell’auspicata riqualificazione della soggettualità femminile nella Chiesa cattolica che ci si attende dall’eventuale ordinazione delle diacone.
Questo rischio rende necessario riqualificare il diaconato maschile prima o durante il processo di discernimento sull’eventuale riattivazione del diaconato femminile, perché quest’ultimo non trascini anche il primo verso un ruolo ministeriale ancora più debole dell’attuale, sostanzialmente analogo a quello battesimale.
Questo sarebbe un disastro sul piano pastorale, anche perché renderebbe ancora più consolidata l’idea che il vero servizio ecclesiale suppone il diaconato, e che la ministerialità battesimale è qualcosa di informale e di incompleto.
In realtà, sono proprio i battezzati non ordinati la risorsa più abbondante e strategica di cui la Chiesa di ogni tempo dispone per svolgere la sua missione.
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[1] Su questo punto, cf. M. Nardello, La normatività delle Scritture in alcune elaborazioni teologiche contemporanee (qui ).
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Sul diaconato alle donne:
lettera a Massimo Nardello
10 maggio 2024
di: Andrea Grillo
Caro Massimo,
quando ho letto il testo del tuo ultimo intervento su SettimanaNews, dal titolo Il diaconato femminile, due cautele, non volevo credere a quello che leggevo e per questo ho deciso di scriverti apertamente, per dirti tutto il mio dissenso. Che non è sulle cose che dici, ma su come le dici. E non è solo sul tema specifico, ma sul modo più generale di intendere la tradizione.
È del tutto ragionevole che su cose che non investono le verità ultime si possano avere opinioni diverse. Tu, però, per sostenere la tua tesi non esiti a “demonizzare” e giudicare pesantemente ogni prospettiva di vero cambiamento. Il problema è che tu fai diventare decisivo e ultimativo quello che non lo è e questo non solo mi colpisce, ma mi spinge a dirti più chiaramente ciò che penso di quello che hai scritto.
Anzitutto sulla “cautela”. Tu la metti addirittura nel titolo e costruisci il tuo articolo come due momenti di esercizio della cautela. Ma la cautela è una componente della prudenza. Quello che invece ho letto, sotto il nome di cautela, non è cautela, ma paura, una paura matta, che non ti ha condotto alla prudenza, ma all’imprudenza, ai giudizi sommari, e persino ai giudizi sguaiati. Uso questo termine perché ciò che mi spinge a scrivere è la reazione verso un atto di ingiustizia, di cui tu forse neppure ti sei reso conto. Un atto di ingiustizia verso la tradizione e soprattutto verso le donne. Vorrei spiegarti meglio il perché di questa mia reazione.
Tradizione e novità
La tua prima cautela/paura riguarda nientemeno che la tradizione, appunto. Tu ritieni che la tradizione si debba imporre, anche se non la capiamo più. E soprattutto che la tradizione sia autonoma rispetto all’interpretazione che di essa possiamo dare. Soprattutto per il fatto che ogni istanza che nasca dal “mondo” appare a te, e tu la giudichi come una forma di tradimento della tradizione.
Siccome tu hai scritto tante cose anche sul Concilio Vaticano II, questo mi sorprende molto: ti è mai capitato si sentir parlare di “segni dei tempi”? Forse pensi che sia stata una forma di “antropocentrismo” a indurre Giovanni XXIII a parlare di “entrata della donna nello spazio pubblico”? Forse pensi che la Chiesa non abbia nulla da imparare dalla storia? Forse è antropocentrismo anche il contenuto di Dignitatis humanae e l’ammissione della libertà religiosa come principio generale?
Che cosa ti manca per sposare, pian piano, le posizioni di Lefebvre subito dopo il Concilio? Credo che nella prima “cautela-paura” che hai manifestato, tu abbia perso il controllo delle parole che utilizzavi e ti sia collocato in una posizione che non è diversa dal tradizionalismo, quando identifichi la tradizione con il passato. No, la tradizione è precisamente la possibilità della novità. D’altra parte, a te sembra interessare solo che le cose non cambino, non che siano giustificate.
Perché tu usi solo l’argomento più debole: “se non è stato prima, non può essere neppure oggi”. Ma se tu non trovi una ragione per questo, se non dici perché, ma ti nascondi nel mero passato, parli solo per paura, mettendo da parte sia la ragione sia la fede. Il cui nemico peggiore è proprio la paura. Esaminiamo meglio il nucleo del tuo ragionamento: tu dici, la questione è capire “in che modo la tradizione è normativa”. Giusto.
Ma poi aggiungi che “a complicare le cose” c’è una visione teologica antropocentrica, ossia, a tuo avviso, una prospettiva teologica che afferma l’uomo e nega Dio. Qui tu diventi non solo ingiusto, ma cieco. Prova a guardare che cosa è capitato non nel ministero ordinato, ma nel matrimonio. Perché mai il rito dell’anello, che per 350 anni è stato uno solo, quello che il marito infilava nel dito della moglie, nel 1969 è diventato “scambio degli anelli”? Per una deriva antropocentrica? O perché abbiamo faticosamente acquisito che anche marito e moglie, non solo uomo e donna, hanno parità di diritti nella famiglia? Perché non ti stracci le vesti per questa perdita della tradizione? Perché non reagisci così duramente al fatto che Giovanni XXIII, in Pacem in terris, è il primo papa a dire che la fonte di questa evoluzione non è la Scrittura o la Tradizione ecclesiale, ma la Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo? Perché non ti accodi a Lefebvre nel denunciare questa come “caduta antropocentrica”?
Preferisci invece nascondere la tua paura di una “donna autorevole” sul piano ecclesiale dicendo che “nel cattolicesimo non c’è una posizione condivisa”. Neppure negli USA, negli anni 60 del 1800, c’era una posizione condivisa sugli schiavi da riconoscere come cittadini uguali davanti alla legge. Sarebbe questa una buona ragione per lasciar sussistere la schiavitù?
Qui cautela significa solo paura. Che non è mai una buona consigliera per il teologo. Tu accusi chi parla di “diaconato femminile” di voler decostruire il valore normativo della tradizione. Perché hai già deciso, senza portare alcuna prova, che la tradizione è immobile. Ma questo è il peggior modo di considerare la tradizione.
E non è che facendo l’esempio del papa tu progredisca molto. Blondel lo aveva capito già 120 anni fa, ma tu ti ostini a pensare come molti teologi del 1800. Perché il modello con cui il papa, solo alla fine dell’800, è stato pensato come sovrano assoluto che assomma in sé tutto il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, è un modo moderno, troppo moderno, di pensare l’episcopato e il vescovo di Roma, rispetto a cui la sacramentalità dell’episcopato affermata dal Concilio e la “sinodalità” di cui discutiamo in questi anni è una giusta correzione, che cerca di uscire dalle secche di una concezione assoluta del potere.
Questa non è decostruzione, ma ermeneutica della tradizione, che può essere giudicata come “antropocentrismo” solo se, al posto della prudenza, si lascia la parola alla paura. Perciò si deve capovolgere la tua argomentazione: tu pensi che sia divisiva ogni modificazione della tradizione, che tu leggi come “cedimento all’antropocentrismo”. Io dico che la definizione di uomo e di donna, su cui la Chiesa non ha potere, ridefinisce i ruoli di autorità nella Chiesa. Ed è compito della tradizione con la T maiuscola ascoltare la storia e non ricostruirsela a tavolino. Divisivo è oggi pensare di giudicare la realtà ecclesiale e ministeriale con la comprensione di uomo e donna di 800 anni fa. E confondere la fede con la cultura di un’epoca è il vero antropocentrismo pericoloso, anche quando si veste in modo solenne e si sacralizza. Gli errori di valutazione non sono mai sacri.
Paura di una leadership femminile nella Chiesa
Ma purtroppo non ti sei fermato. Sei andato avanti e sei arrivato addirittura a ritenere che un’eventuale apertura del diaconato alle donne sarebbe un indebolimento irrimediabile del diaconato stesso. Per arrivare a questa conclusione tu anzitutto leggi il diaconato in modo forzato, ossia come una sorta di “attentato” alla naturale ministerialità battesimale.
Dici molte cose che di per sé appaiono anche ragionevoli, ma le collochi su un orizzonte in cui il diaconato non deve essere pensato come “servizio”, ma come leadership. È una tua visione, legittima, che non solo tu utilizzi dialetticamente rispetto al servizio battesimale, ma che poi porti a conseguenze del tutto inaccettabili quando arrivi a dire:
A mio parere, qualora papa Francesco decidesse di autorizzarlo [il diaconato femminile], le probabili forti resistenze ad una leadership femminile nella Chiesa cattolica potrebbero spingere a livellare ancora di più il servizio diaconale su quello battesimale. Così sia i diaconi sia le diacone non avrebbero alcun ruolo autorevole, ma sarebbero semplicemente uomini e donne che si sono distinti per il loro servizio e che quindi sono stati premiati con l’ordinazione.
Non ti accorgi che tutto il tuo ragionamento ha dietro, in modo neppure troppo nascosto, l’argomento cardine con cui il medioevo escludeva in radice ogni possibile ordinazione della donna: ossia l’incapacità della donna di esercitare la leadership in pubblico. La tua cautela, di cui vorresti investire addirittura il papa, è in realtà frutto di paura e di una teologia non solo vecchia, ma di cui dovremmo vergognarci. Invece, tu non solo non la contesti, ma la utilizzi come “argomento”.
Tu dici, in sostanza: il diaconato è già molto debole, pur essendo interpretato dai “forti maschietti”; se lo affidiamo alle deboli femminucce, allora lo vogliamo davvero affossare… Qui la paura e il pregiudizio ti hanno forzato la mano e hai scritto cose di cui io sentirei il dovere di scusarmi con tutte le donne che leggono un tale testo. Scusami se lo dico così: ma tanti anni di studio della tradizione, dei documenti, della teologia ti servono per fare una battuta da bar? Il teologo parla con la migliore riflessione possibile, non mentre gioca a scopa (ovviamente solo con altri tre maschi).
Museo o giardino?
Io mi chiedo come tu possa pensare tutto questo come “cautela nella tradizione”. Il punto qualificante dell’accesso delle donne al diaconato (all’unico diaconato comune a uomini e donne) è proprio da intendersi in modo capovolto. Proprio la presenza delle donne nel ministero può permettere una grande reinterpretazione di un “ministero minore”, che è rimasto tale proprio per i motivi molteplici che tu hai saputo richiamare, ma che può trovare proprio nella caduta della “riserva maschile” non il colpo di grazia (nel senso giudiziario del termine) ma il dono di grazia di un nuovo orizzonte.
La tradizione può fare paura perché è principio di cambiamento. Se diventa una polizza assicurativa, solo rassicurante, viene stravolta e addomesticata. La tradizione deve far paura perché è esigente: al suo centro sta la libertà con cui lo Spirito conduce la storia e spiazza i nostri disegni. La cautela necessaria è perciò la capacità di affrontare il cambiamento che si impone, non di inventare sempre nuovi trucchi per evitarlo.
Permettimi di concludere con un’immagine. Dopo aver letto il tuo testo si ha un senso di oppressione e di chiusura, si esce dal museo non confortati dalle “statue di marmo” che si sono visitate. La tradizione è piuttosto un giardino, non un museo. Un giardino che può di nuovo fiorire, purché non si abbia paura del sole, dell’acqua, del vento, degli animali, degli uomini e delle donne. Il museo “protegge” e “conserva”, ma senza fiori e senza frutti; il giardino espone e mette a rischio, ma dà fiori e frutti. Io penso che antropocentrica sia una teologia che presume di stare soltanto nel chiuso del museo o di allungare le gambe sotto il tavolo del bar, giocando a carte tra soli uomini. Dio sta sempre nel rischio della vita.
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Sul diaconato alle donne:
risposta ad Andrea Grillo
11 maggio 2024
Nella teologia italiana è raro che vi siano veri e propri dibattiti su quaestiones disputatae, che sarebbero segno di vitalità in cerca della migliore intelligenza della fede possibile. L’intenzione di questa risposta di Massimo Nardello alle critiche rivolte al suo articolo Diaconato femminile: due cautele da Andrea Grillo va proprio nella direzione di ampliare il confronto all’interno della teologia di casa nostra. Il tema chiama in causa direttamente le donne e il loro ruolo ministeriale nella Chiesa, come redazione auspichiamo anche interventi da parte delle teologhe per dare forma a una vera e propria alleanza di pensiero.
Caro Andrea,
ti ringrazio della lunga lettera con cui hai espresso in modo articolato le tue forti riserve sul mio articolo relativo alle cautele da avere nell’introduzione del diaconato femminile. Al di là del fatto che in diversi passaggi non mi sono sentito capito, ho apprezzato il tuo stile schietto e il desiderio di promuovere un dialogo trasparente su questioni così importanti come quelle in esame. Mi pare sia questo il modo giusto di affrontare le divergenze, soprattutto nel nostro ambiente teologico.
Venendo alle tue osservazioni, ti garantisco che non ho affatto paura dei cambiamenti che possono intervenire all’interno della Chiesa cattolica. Al di là dei miei lavori sul Vaticano II che hai citato, ho scritto un libro nel 2018 per mostrare, forse in modo troppo complicato, come di fatto la Tradizione evolva anche in modo discontinuo, come questo sviluppo sia del tutto legittimo sul piano teologico e come apra alla Chiesa possibilità di cambiamento piuttosto rilevanti. Inoltre, come ho scritto nell’articolo che hai commentato, sono favorevole all’ordinazione diaconale delle donne. Ciò che mi preoccupa non sono questi cambiamenti, ma le motivazioni che mi pare li stiano supportando, almeno in certi settori della Chiesa. Tali motivazioni hanno a che fare con il peso delle istanze culturali nella riforma ecclesiale e, alla radice, nella teologia.
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È ovvio che l’esperienza cristiana è sempre culturalmente connotata, e che le sfide culturali ci aiutano a comprendere più pienamente l’evento cristologico che è l’autocomunicazione del Dio trinitario. Mi sembra però di intravedere in diversi orientamenti teologici attuali la tendenza a riconoscere una sorta di normatività alle istanze culturali, e quindi a decostruire la Scrittura e la Tradizione quando difformi da tali istanze. Mi pare invece che i cambiamenti dottrinali e strutturali nella Chiesa vadano legittimati non semplicemente per il fatto che sono richiesti dalla cultura, ma a partire da un approccio ermeneutico alla Tradizione.
Sono favorevole all’ordinazione diaconale delle donne perché penso che questo sia un modo legittimo di leggere la Tradizione, e non primariamente o semplicemente perché questa opzione è espressione della parità tra uomo e donna, che oggi è giustamente invocata nelle nostre società occidentali. Ovviamente non nego questo valore fondamentale, ma non credo che debba essere anzitutto questo a muoverci verso l’ordinazione delle donne al diaconato.
Ora, il problema dell’ermeneutica della Tradizione non è banale, visto che, a mio parere, è la vera causa della non piena comunione tra le Chiese cristiane. L’Ortodossia ritiene che la Tradizione evolva in modo omogeneo, senza discontinuità, e possa essere attestata solamente dalla Scrittura e dai Concili ecumenici quali sono quelli del I millennio. Il mondo protestante riconosce un carattere strettamente normativo alla sola Scrittura, e quindi si sente libero di legittimare cambiamenti anche strutturali all’interno della Chiesa, purché non in contrasto con il dato biblico.
E poi ci siamo noi cattolici, che riteniamo che siano possibili evoluzioni nella dottrina e nella struttura della Chiesa rispetto al Nuovo Testamento, che alcuni di questi sviluppi diventino Tradizione e abbiano una loro normatività, e che altri siano da rifiutare. Non ci possiamo esimere dallo spiegare, anche in un contesto ecumenico, come facciamo a capire se uno sviluppo della Tradizione è legittimo e quindi la alimenta, o se va contro alla Tradizione e quindi va scartato. La soluzione che la teologia cattolica ha sempre invocato, quella di affidarsi al magistero, non è in discussione, ma oggi possiamo riconoscere che anche il papa e i vescovi hanno bisogno di capire meglio come operare il discernimento su ciò che è realmente normativo nella Tradizione.
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In assenza di tali chiarimenti, potrebbero nascere difficoltà molto grosse nella Chiesa. Ad esempio, rendere possibile l’ordinazione delle donne al diaconato – cosa che io auspico, come ho detto – comporta anche lo spiegare perché esse non possano accedere al presbiterato e all’episcopato, e mi pare che sia difficile farlo in modo convincente senza una teologia della Tradizione un po’ più sofisticata dell’attuale. Le istanze culturali, almeno occidentali, orienterebbero sicuramente verso un loro pieno inserimento nel ministero ordinato.
Infine, riflettere sul tema che ho proposto non significa in alcun modo mettere in discussione o dilazionare a tempi indefiniti l’eventuale ordinazione delle donne al diaconato, almeno per quanto mi riguarda. Qualche mese di riflessione non farebbe la differenza.
Ovviamente si può pensare che queste mie considerazioni siano preoccupazioni indebite e che basti solo un po’ di buon senso per capire che l’ordinazione diaconale – e non solo – delle donne sia più che legittima e auspicabile. Mi sembra però che chi si occupa professionalmente di teologia debba affrontare le questioni in modo un po’ sofisticato, cercando di mettere in evidenza delle criticità che a prima vista non sono evidenti.
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A riguardo della seconda parte del mio articolo, non mi sono sentito capito. Cerco di essere più chiaro. Auspico l’ordinazione al diaconato delle donne, ma temo che sarà oggetto di forte resistenza in alcune aree della Chiesa cattolica. Il fatto che lo tema significa che questo possibile esito mi rattristerebbe molto e mi troverebbe in totale disaccordo. Tale resistenza potrebbe esprimersi o nel rifiuto dei presbiteri di presentare delle candidate al ministero diaconale – in alcuni casi, questo avviene già per il diaconato maschile –, o nell’assegnazione alle neo ordinate di compiti di modesta rilevanza, magari gli stessi che svolgevano prima dell’ordinazione.
Come fare per evitare questa deriva? La mia proposta è quella di riqualificare il ministero diaconale, in modo che se e quando le donne vi accederanno, abbiano maggiori garanzie di esercitare un ruolo di effettiva responsabilità. Lo possiamo fare? Io penso di sì, dal momento che il diaconato fa parte del sacramento dell’ordine, lo stesso ricevuto dal vescovo e dal presbitero (LG 28), il cui compito originario è quello di custodire la fede apostolica delle comunità cristiane. Dal mio punto di vista, tale custodia comporta inevitabilmente una certa leadership, dal momento che richiede di poter prendere la parola in modo autorevole all’interno della propria comunità cristiana. Ovviamente nel caso dei diaconi e delle diacone tale compito non sarebbe rivolto ad una comunità che celebra ordinariamente l’eucaristia in quanto porzione della Chiesa locale, cioè la parrocchia, ma a gruppi più piccoli, preferibilmente dediti al servizio dei poveri, all’evangelizzazione dei lontani e alla cura dell’ambiente.
Sono consapevole che questa mia proposta è un’ipotesi di lavoro, che però mi pare poter garantire un ruolo più solido alle future diacone e consentire anche agli attuali diaconi di essere maggiormente valorizzati all’interno delle loro comunità cristiane. Va da sé che un orientamento del genere richiederebbe una formazione teologica superiore rispetto a quella attualmente richiesta, ma questa è un’altra questione.
Dunque, io non ho scritto che occorre sospendere l’ordinazione delle donne al diaconato perché potrebbe compromettere ulteriormente la rilevanza del diaconato maschile, ma al contrario ho sostenuto che dobbiamo riqualificare il diaconato maschile perché le diacone possano avere a suo tempo un ruolo di responsabilità più tutelato. Attivare un processo del genere non mi pare richieda anni di lavoro, ma semplicemente un percorso che porti ad orientamento più definito sulla teologia del diaconato. Spero di essere stato più chiaro.
Grazie dell’attenzione e delle critiche. Ben venga che questo nostro dialogo possa dar vita ad ulteriori riflessioni da parte dei nostri colleghi e colleghe.
Con amicizia, Massimo Nardello
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Sul diaconato alle donne:
del buon uso della tradizione
12 maggio 2024
di: Severino Dianich
Carissimi Andrea e Massimo,
mi è piaciuto molto il vostro bel litigare, sempre fecondo, quando l’animo è puro.
Caso mai è san Paolo che potrebbe fare obiezione. ma il discorso di Legrand mi sembra incontestabile: le stesse ragioni per cui nella società del suo tempo era bene che nell’assemblea cristiana non si desse parola alla donna, sono le ragioni per cui oggi è doveroso dargliela.
Ne va di mezzo quel che per la Chiesa deve contare più di ogni altra cosa, aprirsi le vie per l’evangelizzazione.
In quanto alla tradizione, forse non c’è altro argomento su cui si sia rivelata così mobile come nel caso della dottrina sull’Ordine.
Basti pensare che nelle prime generazioni il prete non poteva celebrare da sé l’Eucarestia, che poi almeno fino al Niceno II l’ordinatio absoluta fosse ritenuta invalida, che per Trento, almeno secondo molti dei Padri, l’episcopato non era di istituzione divina, che nel decreto dottrinale non compare la predicazione perché verrebbe dalla giurisdizione non dal sacramento, che l’episcopato non è un grado dell’Ordine mentre lo è il suddiaconato, che il Vaticano II ha sic et simpliciter abolito un grado dell’Ordine, appunto, il suddiaconato, e così via.
Appellarsi a un argomento così inconsistente, come è la tradizione, per dire di no a fedeli che chiedono una cosa ragionevole, buona e utile alla Chiesa, solo perché sono donne, è un’ingiustizia.
Credo che da teologi dobbiamo sostenere con forza almeno l’ammissione delle donne al diaconato. Grazie mille per il vostro contributo.
Ciao a tutti e due,
don Severino
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da www.settimananews.it
Sul diaconato alle donne:
alcuni nodi del dibattito
14 maggio 2024
di: Giuseppe Guglielmi
Ringrazio Settimananews perché costituisce un luogo di confronto teologico senza “vidimazioni”, sponsor istituzionali, riconoscimenti dietro le quinte. Ciò fa sì che possiamo andare zu den Sachen selbst, alle cose stesse!
Provo anch’io a dire qualcosa partendo dal dibattito in corso tra Massimo Nardello e Andrea Grillo in merito al diaconato femminile. Io sono a favore del diaconato femminile e senza “pregiudiziali” del tipo: sì, ma blindando nel dettaglio la sua concezione e i suoi compiti, onde evitare di passare poi ad altri gradi del sacerdozio. Io, al contrario, credo che per ora la Chiesa sia chiamata a dare “questa” risposta, lasciando ai credenti del futuro la capacità e possibilità di discernere su cosa sarà più opportuno. La Chiesa deve e dovrà farlo cercando di mettere in campo procedure. Aggiungo solo che a questo proposito il Diritto canonico (chi l’avrebbe mai detto sotto il pontificato di papa Francesco!) sta diventando il grande (non unico) convitato.
Costruire una tradizione
In merito al dibattito vorrei riferirmi ad alcune posizioni di Nardello che credono necessitino di un ulteriore approfondimento. Per prima cosa credo che Massimo ponga la Scrittura e la tradizione come una sorta di argine (normatività) rispetto alle istanze culturali. Ed è proprio questo presupposto che occorre “decostruire”. Ho usato apposta questo termine, molto caro ad esempio al teologo Pierre Gisel, perché non credo sia un termine da proibire nella teologia. Decostruire significa smontare, capire, collegare tenendo presente i rapporti di forza (potere), le istanze e i valori che muovono ad alcune scelte (un presente) e i desideri di legittimazione (politica). Non si tratta di un’operazione obbrobriosa.
Decostruire non significa annientare; significa ragionare. Quanto alla tradizione, significa mostrare gli ineludibili presupposti culturali attraverso cui lo Spirito parla alle Chiese. La tradizione risulta una costruzione a partire da vari fattori. Una costruzione che, a sua volta, fa storia perché lega e crea identità. Ho detto “lega” e “crea”, proprio per sottolineare che la tradizione non è una meteorite che giunge dal cielo, o un fatto contro cui urtiamo. A chi pensa: dato che è una costruzione, allora è falsa; devo rispondergli che dire “falso” presuppone che ci sia un vero nel senso di “esteriore”, non fatto da mani d’uomo.
Sui fattori che sostanziano le tradizioni mi sto occupando da un po’ di tempo (nei prossimi mesi uscirà un mio volume in proposito). Ebbene, entrando in dialogo con teologi dal calibro di Ruggieri, Theobald, Seewald, Gisel, Grillo, storici come Certeau, e soprattutto filosofi come Nietzsche e Foucault, comprendo bene come la tradizione costituisca “un gesto fondamentalmente storico” (Gisel). Un gesto attraverso cui possiamo finalmente concepire le continuità non più (o non tanto) come ritrovati storici, bensì come produzioni di senso entro discontinuità di tempi, mentalità e credenze. Vorrei dire molte cose su ciò, ma non mi dilungo, e passo alla seconda considerazione.
Storia e dottrina
La seconda questione che il dibattito tra Nardello e Grillo mette in evidenza riguarda, a mio avviso, l’ermeneutica della storia in teologia. Faccio però due precisazioni.
In primo luogo, non ho detto una “corretta” ermeneutica della storia. Confesso che provo un senso di insofferenza quando sento i teologi utilizzare aggettivi qualificativi. I concetti non si rafforzano con gli aggettivi ma con le argomentazioni. Nessuno quindi sta dicendo che dobbiamo parlare a casaccio. Io non amo la teologia degli slogans e cerco, per quanto mi è possibile, di non cadere in questo tranello.
Una seconda aggiunta. Quando parlo di ermeneutica della storia in teologia, non intendo le imitazioni (copie sbilenche e addomesticate) della filosofia della storia di un Vico, di uno Schelling o di un Hegel, di cui una certa letteratura teologica ha dato prova fino a un ventennio fa. Per storia intendo, come direbbe Lonergan, quella vissuta, che viene poi narrata e interpretata criticamente dalla storiografia. Non una storia speculativa (metafisica), in cui cioè i giochi sono fatti in partenza. Ma anche su questo punto non posso addentrarmi.
Fatte queste due precisazioni, dico subito che la questione di una ermeneutica della storia in teologia è stata affrontata, a mio avviso in modo serio e convincente, da Giuseppe Ruggieri nel corso della sua lunga ricerca. Il teologo siciliano la esplicita soprattutto (ma non solo) quando affronta il problema dell’essenza e/o della verità del cristianesimo[1]. Studiando l’utilizzo del termine “verità” del cristianesimo, egli ammette quale sia stato l’esito finale: l’adeguamento del cristianesimo alla sua dimensione dogmatica.
A questo proposito scrive: «la dialettica, tra l’egemonia dottrinale del cristianesimo da una parte e la sua dimensione vissuta di imitazione del Cristo dall’altra, costituisce uno dei motivi di fondo della storia cristiana e vi si inserisce come spina lacerante»[2]. Più avanti Ruggieri spiega che «le fonti manifestano sempre un dinamismo dialettico dell’esperienza cristiana, per cui questa non adegua mai quello che essa ha ricevuto». Pertanto, «il problema della “verità” del cristianesimo non è concettualmente o istituzionalmente risolvibile in maniera adeguata […] La storia ha visto il moltiplicarsi di tante regole, definizioni, strutture per venirne a capo del problema stesso. Ma la verità sfugge alla presa»[3].
Uno tra i compiti post-sinodali
Proprio collegandomi a questa caratterizzazione della verità cristiana, credo che occorra lavorare per una ricomprensione del magistero, almeno nella sua formulazione dopo il motu proprio Ad tuendam fidem (1998). Sto parlando ovviamente di quel magistero che per comodità chiamo “definitivo”, vale a dire riguardante (come dicono i documenti) quelle dottrine attinenti al campo dogmatico o morale che, sebbene non siano formalmente rivelate, sono ritenute necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede[4]. Insomma, per chi intende la teologia nel binomio produttivo di vocazione/professione (Berufung) c’è molto da fare!
[1] Come fa per ogni questione teologica, Ruggieri cerca di evidenziare il retroterra storico e culturale della questione. Attraverso questa “storia dei concetti” (Begriffsgeschichte) o “storia delle idee” teologiche, Ruggieri non sta però facendo quella che, scolasticamente/manualisticamente, in teologia è definita la “parte storica”, ovvero una parte non ancora propriamente teologica ma semplicemente preambolare (e asservita) ad una “sistematica”. Questo perché la storia non rappresenta il contorno di una verità altrimenti nota, ma “forgia” quel problema. In base dunque al peso che si accorda a questo luogo generativo, dipende anche il tipo di teologia che uno produce. Aggiungo che, intorno a questa storia della teologia e dei suoi concetti, Ruggieri ha dato il meglio di sé negli scritti deli anni Novanta del secolo scorso. Si vedano, ad esempio, quei termini che di solito appaiono come scontatissimi punti partenza nella teologia: “rivelazione”, “credibilità”, “dottrina” etc., ma che, in realtà, nascono in specifici contesti e si portano dietro un tale mondo (contese, violenze, accordi, compromessi, reticenze). Per non parlare poi della decostruzione che Ruggieri ha offerto a proposito dei “fortini disciplinari” (teologia fondamentale nello specifico).
[2] G. Ruggieri, Cristianesimo, Chiese e vangelo, Il Mulino, Bologna 2002, 44.
[3] Ib., 65.
[4] Cf. J.-F. Chiron, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées?, Cerf, Paris 1999. Sulla discussione aperta dal motu proprio Ad tuendam fidem, si veda l’intero numero di «Cristianesimo nella storia» 21 (2000), con interventi di G. Alberigo, J.P. Boyle, J. Gaudemet, P. Hünermann, J. Komonchak, A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri, S. Scatena e C. Theobald.
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da www.settimananews.it
Sul diaconato alle donne:
le questioni dei ministeri
25 maggio 2024
di: Luigi Girardi
I lavori del Sinodo hanno dato forza al dibattito teologico relativo all’accesso delle donne al diaconato, portandolo fin sul bordo di una possibile decisione di grande portata per la Chiesa cattolica.
Ciò fa emergere con ancora più vivezza tante questioni e diversi approcci al tema dei ministeri e, in particolare, del ministero ordinato. Aggiungo la mia voce al dibattito recente sviluppato su SettimanaNews, sapendo che è già stato detto molto (e molto meglio).
Accesso delle donne al diaconato
Personalmente – e senza alcuna pretesa – ritengo che sia possibile e anche auspicabile per la Chiesa muoversi in questa direzione. Credo che sia in atto un crescente sviluppo della “coscienza ecclesiale” (non solo della cultura) che porta a percepire non solo la poca consistenza delle motivazioni contrarie, ma anche la matrice evangelica, le ragioni teologiche e l’equilibrio pastorale che un tale passo potrebbe portare con sé. Sarà più difficile motivare un diniego piuttosto che un assenso a questo cambiamento, anche se entrambe le decisioni potrebbero suscitare una grande reazione di “resistenza” su fronti opposti.
È vero anche che questo eventuale passo pone il problema del posizionamento della Chiesa attuale rispetto alla Tradizione e alla sua normatività. Naturalmente la coscienza ecclesiale di oggi si sviluppa dentro il proprio contesto culturale, anche se non coincide con esso. Ciò del resto è sempre avvenuto anche nel passato e non è un problema, giacché proprio l’impatto con la cultura aiuta a far emergere in ogni contesto la novità del Vangelo, esso stesso “inculturato”.
La fedeltà alla Tradizione dunque non può risolversi in una sua riproposizione materiale, come se il suo sviluppo di fatto fosse già concluso nel passato e la Chiesa di oggi non ne facesse più parte. Anche per questo, a favore di tale decisione non possono valere solo argomenti “storici”. Credo che la fedeltà alla Tradizione debba comportare la ricezione di una memoria fondativa dell’esperienza ecclesiale, ma anche l’ermeneutica di come le ragioni evangeliche abbiano preso forma in contesti socio-culturali differenti, consentendo così un discernimento sul peso della cultura tanto di oggi quanto di ieri, e quindi l’assunzione di responsabilità di fronte al mutamento dei nuovi contesti, nei quali potrebbe non apparire più l’evidenza evangelica di certe scelte elaborate nel passato e potrebbero sorgere nuove forme di realizzazione di esperienze ecclesiali[1].
L’esercizio di questa responsabilità ecclesiale diventa a sua volta il modo in cui la Chiesa di oggi compie la sua ricezione della Tradizione con una fedeltà dinamica che ne rimette in moto il processo. Su molti punti rilevanti la Chiesa ha agito così lungo la storia, anche oggi. Con ciò non intendo dire che la decisione concreta di questo Sinodo debba andare necessariamente nel senso auspicato, ma che la Chiesa attuale deve assumersi la propria responsabilità rispetto a questa scelta, nei tempi in cui sarà in grado di farlo.
Questioni connesse
Naturalmente occorre essere consapevoli anche dei problemi e delle sfide che questa eventuale decisione porrebbe. Per esempio, sono convinto che il rispetto e il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa (nella prospettiva dei segni dei tempi) debba essere accolto da tutti irreversibilmente come un valore evangelico; tuttavia non sono sicuro che la Chiesa cattolica possa muoversi agevolmente “alla stessa velocità” in tutto il mondo, tenendo conto propriamente dei diversi percorsi culturali[2].
Inoltre rimane il fatto che il recupero del diaconato permanente è relativamente recente e presenta una identità non chiara di questo ministero, sia sul piano teologico sia sul piano del suo esercizio pratico. Vi sono esperienze molto difformi di questo ministero e non tutte sono convincenti[3]. A maggior ragione, l’accesso delle donne al diaconato, che presenterà probabilmente condizioni di esercizio e aspettative specifiche, esigerebbe di muoversi decisamente almeno verso un ripensamento delle relazioni tra i ministeri ordinati e una chiarificazione sulla fisionomia pastorale del diaconato, per non risultare deludente.
Sia chiaro che questi richiami non intendono mettere in dubbio o rimandare la possibilità di una eventuale decisione, ma piuttosto richiamare che la problematica è complessa. Se è vero che l’apertura al diaconato femminile può mettere in moto ancor di più tutto l’impianto pastorale delle nostre Chiese, è altrettanto vero che ciò non avviene automaticamente: è importante attivare e promuovere una disponibilità concreta verso una ministerialità ecclesiale partecipata. Anche questo fa parte della responsabilità ecclesiale. Insomma, siamo sicuri che la “coscienza ecclesiale” così com’è è in grado di accogliere e valorizzare una scelta di tale portata? Io credo che a tal fine sia necessario impegnarsi anche su altri fronti.
Questioni ulteriori
Mi permetto di aggiungere che la presa in carico della questione femminile da parte della Chiesa non riguarda solo l’accesso al ministero ordinato, benché questo ne sia il caso emblematico e di più grande portata. Vi è una vita “ordinaria” della Chiesa in cui si deve cominciare a riconoscere sempre di più il contributo di tutte e tutti nell’ambito ministeriale. Non va dimenticato che la riserva maschile per i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato è caduta solo nel 2021 e che i suoi effetti non sono ancora assodati e diffusi come si vorrebbe.
Ma per una ragione analoga, occorre aggiungere che la presa in carico della questione ministeriale non riguarda solo il tema delle donne, ma più ampiamente una visione di Chiesa non clericale, bensì aperta alla ricchezza delle identità battesimali che si articolano come “membra” del corpo ecclesiale. Da questo punto di vista, credo che vi sia molto da fare per favorire un impianto ministeriale stabile delle nostre Chiese. Non si può negare che spingono in questa direzione anche fenomeni come la riduzione del numero dei presbiteri e il riassetto territoriale delle parrocchie. Ma è evidente che dovrà consolidarsi una nuova visione di parrocchia.
Anche in questo campo si incontrano problemi e sfide non indifferenti. Una di queste riguarda il tipo di riconoscimento e incarico che viene dato ai ministeri battesimali. Talora si insiste sulla necessità di una “istituzione”, intesa come un riconoscimento forte e stabile che configura la persona che la riceve in una identità particolare. Ciò varrebbe per alcune figure: attualmente i lettori, gli accoliti e, da ultimo, i catechisti.
Ma è evidente che l’istituzione non può valere per tutte le forme ministeriali. Ci sono altri ministeri per i quali è più adeguata una forma di incarico meno istituzionale, un “mandato”, un affidamento temporaneo, finanche un semplice riconoscimento di fatto. In ogni caso, la storia ha finito per mantenere come istituiti solo alcuni ministeri chiaramente “liturgici” (lettorato e accolitato).
Ma, essendo gli unici ad essere “istituiti”, talora rischiano di essere sovraccaricati di altre attese pastorali. Ciò che invece ancora manca – mi sembra – è la capacità di individuare ministeri pastorali stabili a servizio della vita della comunità, ministeri che non riguardino l’ambito liturgico, ma altri ambiti. Circa il ministero del catechista, anch’esso istituito solo nel 2021, dobbiamo ancora capire quali contorni reali possa avere nel contesto italiano e come sia praticabile.
Queste osservazioni sono certamente interlocutorie e discutibili. Ciò che mi sembra importante sottolineare è l’opportunità di parlare delle “questioni ministeriali” al plurale. L’intento non è di sfuggire al tema di partenza, ma di collocarlo in un quadro più ampio, dove anch’esso può avere il giusto risalto e può dare una grande spinta rinnovatrice. A onor del vero, credo anche che sia prezioso il contributo che tutte e tutti, non solo nel campo della teologia, possono dare su questo plesso di temi: si può concorrere anche in modo indiretto a promuovere una coscienza ecclesiale che sappia affrontare decisioni come quella relativa al diaconato.
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[1] In questo processo la Chiesa riesce a chiarire sempre meglio a sé stessa il modo di essere fedele “alla e nella” Tradizione e può anche indicare ciò su cui ritiene di non poter intervenire.
[2] Le reazioni di diversi Episcopati rispetto alla possibilità introdotta dal documento Fiducia supplicans sono emblematiche. Ma anche nel nostro contesto ci sono “sacche di resistenza”.
[3] Su questo punto, condivido la preoccupazione di Massimo Nardello. Potrebbe essere utile aprire in questa sede un dibattito altrettanto vivace e concreto sul tema del diaconato in sé. Personalmente ho formulato qualche pensiero in L. Girardi, Presbiteri e diaconi. Identità e ministero liturgico, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2021, 63-88.
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