Omelie 2013 di don Giorgio: Festa di S. Stefano, martire
26 dicembre 2013: Festa di S. Stefano
At 6,8-72a; 7,51-8,4; 2Tm 3,16; 4,1-8; Mt 17,24-27
Non so quando, come e perché la liturgia della Chiesa abbia messo la festa di S. Stefano il giorno dopo il Santo Natale. Prima addirittura della festa di San Giovanni, l’autore del quarto Vangelo. Sembra quasi che la liturgia voglia rovinarci subito la gioia di questi giorni. Non è che sia bello immaginare la scena della lapidazione di questo primo martire. E poi è stato veramente il primo martire? Fra qualche giorno festeggeremo i santi innocenti, i bambini fatti trucidare da Erode. Altra violenza, altro sangue versato sul bianco Natale. E ancor prima c’era stato un altro martire: Giovanni Battista.
Non dimentichiamo che, quando i primi cristiani hanno iniziato a festeggiare la Nascita di Gesù, erano già in vigore le persecuzioni. La Chiesa sentì il bisogno di proporre dei testimoni, perché i credenti non cedessero alle minacce. È per questa ragione che la Chiesa primitiva onorava i martiri, prima ancora di permettere il culto dei santi, che avevano professato la loro fede, ma senza aver dato il loro sangue. In breve, nei primi tre secoli l’unico culto permesso dalla Chiesa è stato per i martiri.
Il martirio di Stefano divenne allora il modello per eccellenza per ogni cristiano, messo a dura prova nella sua fede. Ma c’è un altro motivo: tenendo ancora oggi la festa di Santo Stefano, la Chiesa intende farci capire che il Natale è una cosa seria, da non essere ridotta solo a puro sentimentalismo. Fa bene un po’ di poesia, fa bene un po’ di sentimento, ma il Natale di Cristo va ben oltre.
Il martirio di Stefano diventa allora una catechesi, che può aiutarci a comprendere il cristianesimo. Stefano che cosa dice al cristiano di oggi. Dice che vale la pena dare la propria vita per la causa di Cristo. Notiamo: Stefano ha dato la sua stessa esistenza, non ha dato solo un po’ del suo tempo, qualche perditempo, una frazione della sua fede.
Per quanti cristiani moderni vale la pena sacrificarsi per la causa del Vangelo?
Quando uno è disposto a dare la vita per una causa, vuol dire che la causa sta in primo piano e che tutto il resto conta relativamente. Oggi la causa per cui viviamo o per cui lottiamo non è forse un insieme di tante banalità? Ed è per queste banalità che siamo disposti a sacrificare il nostro tempo, la nostra stessa vita, ovvero, per essere chiari, siamo disposti a fare della nostra vita una banalità. Sacrifichiamo magari un’intera esistenza nella rincorsa di illusioni. E tutto questo chiamiamo causa per cui vale la pena di vivere?
Santo Stefano non è morto da disperato, ma davanti a lui si sono spalancati i cieli. Ecco: i cieli si aprono! Questa è la visione del martire, di colui che si sacrifica per una grande causa, per una causa nobile. Quante persone muoiono su un mondo che si chiude davanti a loro. Tutto il castello che si sono costruiti si sgretola di colpo.
Stefano “vide i cieli aperti”. Qui possiamo notare tutta quella apertura che il Cristianesimo porterà nel mondo ebraico e nel mondo pagano. Ma la religione è sempre tentata di chiudere i cieli, mentre lo Spirito della Profezia li vuole aprire.
C’è una invocazione, fatta propria dalla liturgia dell’Avvento, che troviamo nel libro di Isaia, capitolo 63, versetto 19: “Se tu squarciassi i cieli…”. Quando dopo giornate e giornate di pioggia, un angolino di cielo si apre, ci viene spontaneo esclamare: Finalmente! Basterebbe uno squarcio di cielo che si apre a ridarci speranza.
Non penso che Santo Stefano abbia goduto solo per sé l’aprirsi dei cieli, ma credo che il suo martirio abbia contribuito a farlo gustare al primi cristiani. E non solo. Ogni testimonianza di fede è un pezzo di cielo che si apre sopra di noi, e dentro di noi. Sopra di noi il cielo è sempre aperto, anche se è coperto da fitte nubi. È dentro di noi che si accumulano così dense tenebre da sentire prima o poi il bisogno di diradarle.
Nessuno può rubarci il cielo che è sopra di noi, e quel cielo che è dentro di noi. Mi piace qui citare le parole di una giovane donna olandese, Etty Hillesum, di origini ebraiche, vittima della Shoah: morì (aveva 29 anni) a Auschwitz il 30 novembre 1943. Il prossimo 15 gennaio ricorrerà il centenario della sua nascita. Ci ha lasciato un Diario, scritto tra il ’41 e il ’43, che è rimasto sconosciuto al pubblico fino a quando, nel 1981, verrà stampato, prima in una riduzione ridotta, ora finalmente nella sua versione integrale. Anche in lingua italiana.
Quando le restrizioni dei nazisti nei confronti degli ebrei cominciano a farsi più severe, Etty Hillesum scrive: «Ci è stato proibito di passeggiare sul Wandelweg. Ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta “vietato agli ebrei”. Questi cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto. E ciononostante, quanto spazio in cui si può ancora stare ed essere lieti e far musica e volersi bene… Sopra quell’unico pezzetto di strada che ci rimane, c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole; possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento. Ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la nostra millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno; è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli». E conclude con un invito a se stessa e ai suoi fratelli ebrei a dilatare il cuore per volgere al positivo anche quella situazione dolorosa: «Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile». E ancora: «Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma di individualismo malaticcio».
Mi ha sempre impressionato l’urlo satanico dei lapidatori, e l’urlo di perdono di Stefano. Due voci che urlano e che si contrappongono: l’uno di odio, l’altro di compassione. Ho detto di contrapposizione: in realtà, la compassione fende l’odio. Ad assistere un ragazzo, di nome Saulo, il futuro san Paolo. Partecipava in quel momento all’urlo dell’odio. Poi passerà alla misericordia di Cristo. L’odio ha le sue catene, catene che si possono spezzare mediante l’amore.
Tornando al suo Diario, ecco che cosa scrive Etty Hillesum: «Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. È quel pezzettino d’eternità che ci portiamo dentro». E ancora: «A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita”. Infine: «So che quelli che odiano hanno le loro buone ragioni. Ma perché dovremmo sempre scegliere la via più facile? Nel Lager, ho sentito con tutta me stessa che il minimo atomo di odio aggiunto a questo mondo lo rende ancor più inospitale».
Perché ho accostato questi due martiri: Stefano e Etty Hillesum? Sembra paradossale: Stefano era un cristiano che è stato ucciso da ebrei fanatici, Etty Hillesum era un’ebrea uccisa da cristiani fanatici. La fede nell’umanità è al di fuori di ogni razza e religione. Anche il fanatismo. Ambedue, Stefano e la donna olandese hanno saputo vedere il cielo aprirsi, dentro di loro e sopra di loro.
Il fanatismo e l’odio vorrebbero chiuderci i cieli. Ancora oggi. Tocca a noi non farcelo derubare. Ma i cieli talora si spengono anche per colpa nostra. E ciò succede quando spegniamo l’entusiasmo per una causa nobile. Forse sta qui il venir meno della vera democrazia, e forse sta qui il venir meno di una Chiesa che ha perso il vero contatto con il Divino.
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