L’inchiesta di Haaretz sulle stragi di palestinesi durante la distribuzione del cibo a Gaza

Palestinians carry humanitarian aid packages near the Gaza Humanitarian Foundation distribution center operated by the U.S.-backed organization in Khan Younis, southern Gaza Strip, Thursday, June 26, 2025. (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Palestinesi vicino al centro di distribuzione del cibo della Gaza Humanitarian Foundation a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, il 26 giugno (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

da www.ilpost.it

L’inchiesta di Haaretz sulle stragi di palestinesi

durante la distribuzione del cibo a Gaza

Soldati israeliani hanno raccontato in forma anonima di avere ricevuto precisi ordini di sparare deliberatamente sui civili
Un’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz ha raccontato come le stragi di civili palestinesi ai punti di distribuzione di cibo nella Striscia di Gaza, compiute nelle ultime settimane, siano state il risultato di precisi ordini dati dai comandanti israeliani ai loro soldati. Gli spari dovevano servire a disperdere le folle e hanno ucciso decine di persone. Sono accuse molto gravi, raccontate ad Haaretz dagli stessi soldati in forma anonima.
Le stragi sono state compiute vicino ai centri della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), l’organizzazione voluta da Israele per controllare la distribuzione del cibo nella Striscia e usare la fame come ulteriore arma contro i palestinesi. La Ghf ha iniziato a operare da maggio con quattro centri, tre nel sud e uno nel centro, aperti per una sola ora al giorno, la mattina. Per questo, da quando hanno iniziato a essere operativi, attorno ai centri si sono create grandi folle, con migliaia di civili in coda fin dalla notte per cercare di ricevere del cibo, in una situazione sempre più drammatica.
Haaretz ha scritto che in diverse occasioni i soldati israeliani hanno sparato sui civili prima dell’apertura dei centri, per disperdere le folle, e poi dopo la chiusura, con la stessa motivazione.
Un soldato ha descritto le aree intorno ai centri come «zone della morte» («killing fields», in inglese). «Quando ero stanziato lì, venivano uccise ogni giorno da una a cinque persone. Erano trattate come forze ostili, non c’erano misure di controllo della folla o gas lacrimogeni, solo spari con qualsiasi arma a disposizione», come mitragliatrici, lanciagranate e mortai. «Quando i centri aprono i colpi si fermano. Il fuoco è la nostra forma di comunicazione».
Il soldato ha raccontato che nella sua esperienza nessun civile in coda ha mai risposto al fuoco israeliano e che nella sua zona di competenza l’esercito chiama informalmente questa procedura con il nome israeliano del gioco per bambini “un, due, tre, stella”. È un riferimento macabro al fatto che chiunque si muova, vicino ai centri, possa essere ucciso.
Secondo il ministero della Salute della Striscia, da fine maggio 549 persone sono state uccise vicino ai centri di distribuzione della Ghf o ai camion dell’ONU, e oltre 4mila sono state ferite. È possibile che questi numeri siano solo parziali.

Palestinians carry boxes containing food and humanitarian aid packages delivered by the Gaza Humanitarian Foundation, a U.S.-backed organization approved by Israel, in Rafah, southern Gaza Strip, on Tuesday, May 27, 2025. (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Civili palestinesi a Rafah con le scatole di cibo della Gaza Humanitarian Foundation, a fine maggio (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Haaretz ha scritto che l’esercito ha sparato anche contro i civili che si erano radunati intorno ai camion o ai centri di distribuzione delle Nazioni Unite, che operano in modo molto limitato perché Israele controlla e limita molto l’ingresso di aiuti nella Striscia. Alcune fonti dell’esercito hanno detto che, oltre ai soldati, in alcuni casi hanno sparato contro i civili anche i membri di milizie palestinesi finanziate da Israele, come quella guidata da Yasser Abu Shabab e attiva nel sud della Striscia.
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I soldati israeliani dovrebbero stare a varie centinaia di metri di distanza dai centri della Ghf: non possono entrare al loro interno, dove lavorano dei contractor statunitensi, e non dovrebbero avvicinarsi nemmeno ai “corridoi” che i palestinesi percorrono per raggiungerli. Non sempre questo succede. I soldati si posizionano intorno ai centri con carri armati, cecchini e mortai, in teoria per garantire la sicurezza delle operazioni di distribuzione. Un ufficiale in servizio presso uno dei centri ha detto che durante la notte «iniziamo a sparare per indicare alla popolazione [di Gaza] che questa è una zona di combattimento, e non devono avvicinarsi».
Varie persone sentite da Haaretz hanno ricondotto l’ordine di sparare al generale Yehuda Vach, comandante della Divisione 252 dell’esercito israeliano. Ma «molti comandanti e soldati lo accettano senza farsi troppo domande», ha detto un ufficiale. La divisione 252 non è l’unica a operare nelle zone vicine ai centri, ed è possibile che anche altri comandanti oltre a Vach abbiano dato le stesse indicazioni.
Un altro soldato riservista nella Divisione 252 ha detto che gli spari «dovrebbero essere colpi di avvertimento […] ma alla fine è diventata normale amministrazione. Ogni volta che spariamo uccidiamo o feriamo persone, e quando qualcuno chiede perché è necessario [sparare], non c’è mai una buona risposta. A volte anche la sola domanda irrita i comandanti». Aggiunge: «Sai che non è giusto […] ma Gaza è un universo parallelo».
Haaretz scrive che questa settimana un generale ha ordinato ai soldati della divisione 252 di sparare nel mezzo di un incrocio dove erano radunati dei civili che attendevano l’arrivo di un camion di cibo. Otto civili sono stati uccisi. L’esercito ha condotto un’indagine preliminare, ma non sono state prese azioni disciplinari.
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Le persone sentite da Haaretz sono concordi nel dire che i civili palestinesi radunati ai centri non rappresentano un pericolo per i soldati israeliani. «Posso dire con certezza che le persone non erano vicine ai soldati e non li mettevano in pericolo. Non aveva senso: sono stati uccisi, per niente», ha detto un comandante israeliano riferendosi a un episodio in cui più di dieci persone palestinesi sono state uccise. «Questa cosa di uccidere persone innocenti è stata normalizzata», aggiunge.
Per alcuni di questi episodi (una minoranza rispetto al totale) l’esercito israeliano ha avviato delle indagini gestite internamente da una sezione che si occupa di esaminare casi di sospette violazioni del diritto bellico.

Palestinians wave to the camera while carrying bags containing food and humanitarian aid packages delivered by the Gaza Humanitarian Foundation, a U.S.-backed organization, in Rafah, southern Gaza Strip, Tuesday, June 10, 2025. (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Palestinesi vicino al centro di distribuzione della Ghf a Rafah, il 10 giugno (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

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dal Corriere della Sera
Rassegna delle guerre

«Questa cosa chiamata uccidere

persone innocenti è stata normalizzata».

I racconti choc dei soldati israeliani a Gaza

GIANLUCA MERCURI
«Dalle conversazioni con ufficiali e soldati è emerso che i comandanti hanno ordinato alle truppe di sparare contro le folle per allontanarle o disperderle, anche se era chiaro che non rappresentavano una minaccia». È la sconvolgente rivelazione di Haaretz, che ha pubblicato le testimonianze di una serie di militari israeliani in un reportage dal titolo urticante, “It’s a Killing Field”: IDF Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid, «“È un campo di sterminio”: i soldati israeliani hanno ricevuto l’ordine di sparare deliberatamente contro i gazesi disarmati in attesa di aiuti umanitari». A queste rivelazioni si aggiungono quelle sui contractor americani, pagati per demolire le case dei palestinesi.
Le stragi quotidiane che avvengono da settimane nei luoghi di distribuzione degli aiuti sono note, ma le testimonianze raccolte dal giornale israeliano – testimonianze di importanza eccezionale, perché la presenza dei giornalisti a Gaza non è ammessa e perché si tratta di fonti militari – rivelano le dimensioni inimmaginabili di quella che un soldato definisce «la totale rottura dei codici etici delle Forze di Difesa Israeliane (l’acronimo IDF sta per Israel Defense Forces) a Gaza». La situazione è talmente degenerata che, scrive Haaretz, l’Avvocato generale militare ha incaricato il «Meccanismo di valutazione dei fatti dello Stato Maggiore dell’IDF» – l’organismo che esamina le potenziali violazioni – di indagare sui sospetti crimini di guerra.
Tutto è precipitato da fine maggio, quando la distribuzione degli aiuti alla popolazione è stata definitivamente sottratta alle agenzie umanitarie internazionali e affidata alla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation (GHF), un ente le cui origini e i cui finanziamenti restano opachi: «Si sa che è stata creata da Israele in coordinamento con evangelici statunitensi e appaltatori di sicurezza privati», scrive Haaretz. Questa svolta si è incrociata con quella militare e umanitaria, che negli ultimi tre mesi ha visto l’esercito israeliano emettere ogni giorno ordini di evacuazione che costringono la popolazione a spostarsi: 680 mila negli ultimi tre mesi, 242 mila solo nell’ultimo mese. In questa fase, l’82% per cento del territorio è off limits per i suoi abitanti, che sono ammassati nel restante 18%. Vuol dire che oltre due milioni di persone sono costrette a vivere in 65 chilometri quadrati, in condizioni che favoriscono la continua diffusione di malattie. E sono ridotte alla fame.
In questo quadro, la GHF gestisce quattro centri di distribuzione di cibo – tre nel sud della Striscia e uno nel centro – il cui personale è composto da operatori americani e palestinesi ed è protetto dall’IDF a qualche centinaio di metri di distanza. Più vicini ai centri si muovono invece i membri di Abu Shabab, la milizia legata all’Isis che gli israeliani hanno cooptato per scalzare Hamas.
Ogni giorno, migliaia o decine di migliaia di gazawi arrivano in questi centri per ricevere cibo: nonostante israeliani e americani, nel cacciare le agenzie Onu, avessero garantito che la distribuzione sarebbe stata ordinata, avviene tutto nel caos, con la folla che si accalca a ridosso dei siti, aperti in genere per un’ora al mattino ma a volte, e senza preavviso, al pomeriggio, cosa che contribuisce al disordine. Secondo le testimonianze dei militari israeliani, «l’IDF spara alle persone che arrivano prima dell’orario di apertura per impedire loro di avvicinarsi, o di nuovo dopo la chiusura dei centri, per disperderle».
È per descrivere questa situazione che un soldato ha usato l’espressione «campo di sterminio», che ha motivato così:
«Vengono trattati come una forza ostile – niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni – solo fuoco vivo con tutto ciò che si può immaginare: mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai. Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da qualche centinaio di metri di distanza, e a volte li carichiamo da vicino. Ma non c’è alcun pericolo per le forze armate. Non sono a conoscenza di un solo caso di risposta al fuoco. Non ci sono nemici, non ci sono armi».
Le altre testimonianze raccolte da Haaretz confermano o aggravano questo quadro:
«Gaza non interessa più a nessuno. È diventato un luogo con un proprio insieme di regole. La perdita di vite umane non significa nulla. Non è nemmeno uno “sfortunato incidente”, come si diceva una volta» (un riservista che questa settimana ha completato un turno di servizio nella Striscia settentrionale).
«Lavorare con una popolazione civile quando il tuo unico mezzo di interazione è aprire il fuoco è altamente problematico, per non dire altro. Non è eticamente accettabile che le persone debbano raggiungere, o non riescano a raggiungere, una zona umanitaria sotto il fuoco di carri armati, cecchini e colpi di mortai. Una brigata da combattimento non ha gli strumenti per gestire una popolazione civile in una zona di guerra. Sparare con i mortai per tenere lontana la gente affamata non è né professionale né umano. So che tra loro ci sono agenti di Hamas, ma ci sono anche persone che vogliono semplicemente ricevere aiuti. Come Paese, abbiamo la responsabilità di garantire che ciò avvenga in modo sicuro» (un ufficiale che presta servizio di sicurezza in un centro di distribuzione).

«Contractors come sceriffi»

Qui si aggiunge un dettaglio tragicamente rivelatore sull’attività degli appaltatori assunti a Gaza per aiutare le forze di occupazione, fornito da un veterano israeliano:
«Oggi, ogni contractor privato che lavora a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel (circa 1.500 dollari) per ogni casa che demolisce. Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro, e le forze armate devono assicurare il loro lavoro. Gli appaltatori demoliscono dove vogliono lungo tutto il fronte».
In questo scenario da far west, i contractor «si muovono come sceriffi». La campagna di demolizione li porta spesso vicino ai punti di distribuzione o lungo i percorsi utilizzati dai camion degli aiuti. Le sparatorie scoppiano in molti casi per proteggere queste attività e queste persone. «Queste sono aree in cui i palestinesi possono stare, siamo noi che avvicinandoci scegliamo di metterci in pericolo. Quindi, per un appaltatore che vuole abbattere una casa per guadagnare altri 5.000 shekel, si ritiene accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».
Le testimonianze convergono nell’indicare come maggiore responsabile di questa situazione un alto ufficiale, il generale di brigata Yehuda Vach, comandante della Divisione 252 dell’IDF. Haaretz ricorda di avere già riportato «come Vach abbia trasformato il corridoio di Netzarim in un percorso mortale, abbia messo in pericolo i soldati sul campo e sia stato sospettato di aver ordinato la distruzione di un ospedale a Gaza senza autorizzazione». Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere gli assembramenti di palestinesi in attesa di aiuti aprendo il fuoco: «Questa è la politica di Vach, ma molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande».
Un soldato carrista della riserva, che prestato servizio di recente nella Divisione 252, conferma come funziona questa «procedura di dissuasione» per disperdere i civili:
«Gli adolescenti che aspettano i camion si nascondono dietro i cumuli di terra e si avventano sui mezzi quando passano o si fermano nei punti di distribuzione. Di solito li vediamo da centinaia di metri di distanza; non è una situazione in cui rappresentano una minaccia per noi. In un caso, sono stato istruito a sparare una granata verso una folla radunata vicino alla costa. Tecnicamente, dovrebbe essere un fuoco di avvertimento, per far indietreggiare le persone o impedire loro di avanzare. Ma ultimamente sparare granate è diventata una pratica standard. Ogni volta che spariamo, ci sono vittime e morti, e quando qualcuno chiede perché è necessaria una granata, non c’è mai una buona risposta. A volte, il solo fatto di porre la domanda infastidisce i comandanti».
Nel suo caso, aggiunge il soldato, un gruppo ha cominciato a fuggire dopo il lancio della granata ma è stato raggiunto da altro fuoco: «Se doveva essere un colpo di avvertimento, e li vediamo correre indietro verso Gaza, perché sparare su di loro? A volte ci dicono che si stanno ancora nascondendo e che dobbiamo sparare nella loro direzione perché non se ne sono andati. Ma è ovvio che non possono andarsene se nel momento in cui si alzano e corrono, apriamo il fuoco».
Il soldato dice che questa è diventata una routine: «Sai che non è giusto. Senti che non è giusto, che i comandanti qui stanno manipolando le regole. Ma Gaza è un universo parallelo. Si va avanti velocemente. La verità è che la maggior parte non si ferma nemmeno a pensarci».
All’inizio di questa settimana, aggiunge il giornale, i soldati della Divisione 252 hanno aperto il fuoco su un incrocio dove i civili stavano aspettando i camion degli aiuti: «Un comandante sul posto ha dato l’ordine di sparare direttamente al centro dell’incrocio, causando la morte di otto civili, tra cui alcuni adolescenti. L’incidente è stato portato all’attenzione del capo del Comando Sud, il Magg. Gen. Yaniv Asor, ma finora, a parte una revisione preliminare, non ha preso provvedimenti e non ha chiesto spiegazioni a Vach sull’alto numero di morti nel suo settore».
Un altro ufficiale della riserva che comandava le forze nell’area conferma così l’andazzo:
«Ero presente a un evento simile. Da quello che abbiamo sentito, sono state uccise più di dieci persone. Quando abbiamo chiesto perché avessero aperto il fuoco, ci è stato risposto che era un ordine dall’alto e che i civili avevano rappresentato una minaccia per le truppe. Posso dire con certezza che non erano vicini alle truppe e non le mettevano in pericolo. È stato inutile: sono stati uccisi e basta, per niente. Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. Ci è stato costantemente detto che a Gaza non ci sono non combattenti, e a quanto pare questo messaggio è stato recepito dalle truppe».
Un alto ufficiale denuncia la crescente anarchia degli alti comandanti sul campo rispetto ai vertici dello Stato Maggiore. E le sue parole tirano le somme di questa catena di incidenti, che non è casuale, che non è voluta dai civili stremati dalla fame, dalle continue deportazioni e dal sovraffollamento negli accampamenti:
«Il mio timore più grande è che gli spari e i danni ai civili a Gaza non siano il risultato di una necessità operativa o di una scarsa capacità di giudizio, ma piuttosto il prodotto di un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo».
Un’altra fonte militare racconta una recente riunione del Comando Sud, in cui è emerso che le truppe hanno iniziato a disperdere la folla usando proiettili di artiglieria:
«Parlano dell’uso dell’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a chiedersi perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno».
Ancora una testimonianza, ancora un alto ufficiale:
«Il fatto che il fuoco vivo sia diretto contro la popolazione civile – sia con l’artiglieria, i carri armati, i cecchini o i droni – va contro tutto ciò che l’esercito dovrebbe rappresentare. Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché hanno oltrepassato la linea, o perché a qualche comandante non piace? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a rischiare la vita solo per togliere un sacco di riso da un camion? Ed è a lui che spariamo con l’artiglieria?».
Haaretz racconta che i tentativi del Comando Sud dell’IDF di occultare o minimizzare le stragi quotidiane stanno incontrando l’opposizione dell’Ufficio dell’Avvocato Generale Militare, un cui funzionario sottolinea che «l’affermazione che si tratta di casi isolati non è in linea con gli incidenti in cui le granate sono state lanciate dall’aria e i mortai e l’artiglieria sono stati usati contro i civili. Non si tratta di poche persone uccise, stiamo parlando di decine di vittime ogni giorno».
A Gaza non ci sono controlli, non ci sono osservatori internazionali, non ci sono giornalisti. Ci sono i soldati, e il loro racconti. Fuori da Gaza c’è il mondo, ci siamo noi. A parti invertite, e per fortuna, non lo consentiremmo. Così, non ci interessa e lo consentiamo.
Gli israeliani possono essere fermati solo dalle loro coscienze.

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