Omelie 2013 di don Giorgio: 50° anniversario dell’Ordinazione sacerdotale

30 giugno 2013: 50° Anniversario del mio sacerdozio

Non so ora, ma anni fa durante la celebrazione delle Prime Sante Messe i cori parrocchiali eseguivano un grandioso “Tu es Sacerdos”, facendo quasi vibrare le pareti della Chiesa. Le prime parole “Tu es sacerdos” erano del tutto aderenti al momento solenne, e la gente comune capiva che era successo qualcosa di speciale in quel giovane appena ordinato ministro di Cristo e della Chiesa. L’aggiunta “in aeternum” suggeriva qualcosa di ancor più sacro, di intoccabile, di indistruttibile, creando un legame con Dio più o meno come l’amore indissolubile che c’è tra un uomo e una donna. Tranne che Dio non muore mai, perciò il legame tra Dio e il suo ministro rimane in aeternum, su questa terra e anche dopo la morte.
Il canto poi continuava: “secundum ordinem Melchisedek”, e qui il mistero, racchiuso in quel nome così enigmatico, si faceva ancora più fitto. Ma noi preti giovani, pur conoscendo il fatto biblico, non eravamo del tutto coscienti che cosa potesse rappresentare essere consacrati “secondo l’ordine di Melchisedek”. Se lo avessi saputo fin dall’inizio (ma come avrei potuto, se la Chiesa istituzionale mi aveva inculcato un altro genere di sacerdozio?), forse avrei perso meno tempo a comprendere almeno qualcosa del mio essere ministro di Dio, anche se, come dirò, sarei arrivato per altre vie.
Il brano biblico si può leggere nel libro della Genesi 14,17-20. Abramo, mentre è di ritorno da una vittoriosa impresa militare, incontra il re di Salem (l’antica Gerusalemme), di nome Melchisedek, il quale, essendo anche sacerdote offre al suo Dio pane e vino, e benedice Abramo capostipite del popolo eletto, ricevendo in cambio la decima di tutto ciò che aveva con sé. Non si sa nient’altro di Melchisedek, se non il significato del nome: “re di giustizia”, e il fatto che non era ebreo, ma pagano, benché fosse singolarmente “sacerdote del Dio altissimo”, divinità ancestrale dei clan semiti.
Di Melchisedek si parlerà altre due volte nella Bibbia: una volta nell’Antico Testamento, precisamente nel Salmo 110, un salmo messianico dove Melchisedec è visto come prototipo di Cristo; e la seconda volta nel Nuovo Testamento, precisamente nella Lettera agli Ebrei, dove il richiamo di Melchisedek serve all’autore per presentare il sacerdozio di Cristo come superiore a quello levitico e al sacerdozio di Aronne.
Notiamo come l’autore della lettera presenta Melchisedek: «Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre». Dunque, Melchisedek è il grande sacerdote di una religione cosmica che abbraccia tutti i popoli e il cui tempio è il mondo intero.
Noi preti siamo stati consacrati secondo l’ordine di questo sacerdozio universale. Eppure nella Chiesa, nonostante fosse chiara l’apertura espressa dalla lettera agli Ebrei, c’è stato fin dall’inizio un ritorno all’antico sacerdozio levitico e mosaico, ovvero a un sacerdozio puramente rituale, di leggi e di comandamenti, di prescrizioni e di norme veterotestamentarie. Anche se l’oggetto dei sacrifici non è più un animale, come avveniva ancora ai tempi di Cristo, il sacerdozio cristiano assume ancora aspetti sacrificali. Ad essere sacrificata è l’umanità, talora la stessa persona nella sua coscienza più inviolabile.
Melchisedek è sacerdote universale, senza legami di carne e di tempo, senza genealogia, libero da ogni condizionamento, ministro di un Dio non strettamente religioso, al di sopra di tutti e di tutto, non per restare lontano dalle vicende umane, ma per essere ancor più vicino a tutti indistintamente.
Noi preti dovremmo ricordarci di essere senza padre e senza madre, senza genealogia, di non essere legati ad un determinato tempo, ad un determinato spazio, pur vivendo in una determinata epoca e incarnati in un determinato territorio, per essere più liberi di vivere il presente in tutta la sua carica di Umanità..
Raimon Panikkar, morto alla fine di agosto del 2010, figlio di padre indiano induista e di madre cattolica catalana, che ha sempre rivendicato la sua appartenenza a quattro religioni: la cattolica, l’induista, la buddhista e la secolare, alla domanda: «Tu, maestro, sei un sacerdote cattolico. Ma come intendi il tuo ministero?», risponde: «Io sono un prete cattolico e credo nel Cristo. Ma la mia ordinazione sacerdotale è “secondo l’ordine di Melchisedek”, cioè di quel personaggio, di quel re di cui parla la Bibbia, e al quale fa riferimento la teologia del sacerdozio. Melchisedek non era ebreo, non credeva in Jahve, apparteneva ad una razza maledetta, e ciononostante, come attesta la Bibbia, è detto superiore ad Abramo». Parlando poi della Festa del Corpus Domini, Panikkar dice: «Oggi è la festa del sacerdote cosmico, come lo è stato Melchisedek che fu “rivoluzionario” perché non consacrato a nessun ordine, a nessuna burocrazia sacra. Allo stesso modo il sacerdote cattolico non può considerarsi parte di nessuna burocrazia, né di quella vaticana né di quella “tribale”, forgiata sul modello giudaico. Lo stesso Gesù ha avuto il buon gusto di non appartenere a nessuna casta sacerdotale, e non fu mai un capo, un boss, ma solo un laico, un comune servitore degli altri per carisma e umiltà».
Pur non avendo, fin dall’inizio del mio ministero, ben chiara la consapevolezza di essere sacerdote cosmico secondo l’ordine di Melchisedek, non posso però negare di aver sofferto, già nelle mie prime esperienze pastorali, per la ristrettezza di un vestito ministeriale che bloccava quel mio desiderio, che si è tradotto poi man mano in una grande voglia, di essere ministro dell’Umanità, al di là di rigidi schemi e di vedute troppo corte. Ciò che ora chiamo gerarchia ribaltata, ovvero quel mettere al primo posto l’Umanità al cui servizio va posta la Chiesa, e non viceversa, era già presente, e, di anno in anno, si imponeva come esigenza irrefrenabile, pur tra numerose difficoltà e forti crisi, dovute anche alla mancanza di sostegno sia popolare che gerarchico.
L’intuizione che la Chiesa dovesse per forza rimettersi nella linea evangelica, radicalmente evangelica, mi portava a tentare soluzioni nuove, scoperte nuove, lasciando via via cose inutili, puntando all’essenziale. Un cammino lento e lungo, segnato da molteplici e differenti esperienze, da un paese all’altro, ognuno dei quali rappresentava un campo di semina, e contemporaneamente di una maturazione personale di fede alla ricerca dell’Umanità perduta, ma rimessa in causa dal Cristo incarnato.
La forza della mia fede nell’Umanità stava appunto nella Incarnazione del Figlio di Dio. Ma la Chiesa dottrinale, a iniziare da san Paolo e proseguendo con i Padri della Chiesa, tra cui particolarmente sant’Agostino, ha preferito contrapporre l’Incarnazione al mistero tanto dogmatico quanto discutibile del peccato originale originante. Qui stava il mio punto dolente: prendere sul serio il “laico” Cristo, il quale si è svestito di ogni religione, e perciò anche delle sue strutture, compresa quella sacerdotale, proprio per essere compartecipe dell’Umanità nella sua radicalità.
Come non sentirmi soffocato in una struttura religiosa vincolante, che mi faceva credere di essere un intermediario tra Dio e l’umanità, ma che in realtà mi lasciava lì nel mezzo, senza far parte né di Dio né dell’umanità? Il sacerdozio cosmico non è come un “terzo termine” che pretende di mettere in dialogo Dio e l’uomo, rimanendone però fuori, esercitando solo il mestiere del funzionario di Dio. Il funzionario non compartecipa, ma esegue gli ordini. Noi preti siamo sì mediatori, ma nel senso che apparteniamo di fatto, nello spirito e nella carne, alle due realtà che abbiamo il compito di collegare. Come appunto Cristo incarnato, vero Dio e vero uomo.
Sono stato ordinato nel 1963, dunque nel pieno svolgimento del Concilio Vaticano II (che si è aperto nel 1962 ed è terminato nel 1965), ma, pur potendo usufruire delle primizie del soffio vitale dello Spirito, nessuno di noi giovani preti ha saputo cogliere la grazia provvidenziale, casomai ci siamo preoccupati anzitutto di disfare il vecchio rituale, di toglierci i paludamenti liturgici pomposi, di disfare gli altari, di scrollarci di dosso secolari tabù morali, prendendo anche in modo scriteriato strane vie di fuga, senza sapere dove andavamo. Dopo i primi entusiasmi per le novità, in realtà più marginali che sostanziali, ci siamo resi conto che la Chiesa non si era mossa dal suo piedistallo dogmatico. Arrivò il ’68, il quale servì non solo a dare ulteriori colpi alla struttura inflessibile, ma ad aprire finalmente nuove strade, sulla scia dello Spirito di libertà. Ma ben presto presagimmo che tutto sarebbe tornato come prima, constatavamo che le nuove generazioni post sessantottine si erano di nuovo sedute, che veniva meno la voglia di un radicale cambiamento. Ce ne voleva ora di energia divina per non farci risucchiare! La società progrediva nella conquista di diritti umani, e la Chiesa reagiva, come sempre, all’idea di convertirsi all’Umanità. Dopo il rifiorire di promettenti comunità di base, il cerchio autoritario della Chiesa si restringeva, e il popolo, come gregge di pecore protetto da cani fedeli, riprendeva l’antica strada della normalità. Più il tempo passava, più sembrava che si spegnesse il soffio vitale del Concilio. La società politica non cambiava, e la Chiesa si adeguava, alleandosi con il potere più corrotto. Il cerchio si stava per chiudere.
Addio ai bei sogni, alle utopie, alle speranze? No! Perché demordere? La scoperta pur tardiva del significato di quel “secundum ordinem Melchisedek” era la conferma di quella apertura di fede, non dico “innata”, ma che cresceva man mano che passavano gli anni, e aumentava al contatto con le realtà esistenziali. E più gli ambienti pastorali erano infuocati (basterebbe pensare alla mia esperienza a Sesto S. Giovanni subito dopo il ’68, nella parrocchia più estesa della città, 25 mila abitanti), più il mio essere prete usciva dagli angusti ranghi ecclesiastici. Notavo che gli orizzonti si aprivano dentro di me, e non potevo certo far finta di nulla, nemmeno se il contatto con la dura realtà diminuiva, perché nuove esperienze pastorali mi portavano in ambienti più piccoli, ma sempre vitali.
Anche la pausa pastorale, che è durata quasi tredici anni, sotto la guida personale del cardinale Martini, servì ad aumentare la mia fede nell’Umanità, in quel sacerdozio cosmico prefigurato da Melchisedek, e ripreso, nella forma più laicale, dallo stesso Gesù Cristo.
Infine, l’attuale esperienza pastorale in questa piccolissima comunità di Monte è stata come l’esplosione di una energia nucleare che da infinitamente piccola diventa man mano infinitamente grande. E questo sta a significare che negli ambienti piccoli i cieli si possono squarciare, ma quando ci sono la forza delle idee e la determinazione di farle valere.
Non è sempre vero che con l’età gli ideali si smorzano e le convinzioni si attenuano. Almeno per me non è stato così, ma esattamente il contrario. La fortuna o la grazia di avere la possibilità di celebrare Messe ecumeniche, partecipate da gente di ogni paese e anche di credenze diverse, è stata per me un ulteriore stimolo per un’apertura ancor più radicalmente evangelica. Il cristianesimo ha lasciato definitivamente la veste religiosa, è diventato un’esigenza di umanesimo integrale, senza più remore e timori. A parte le mie personali convinzioni, ho constatato anche il bisogno della gente comune per una disponibilità ad un confronto più aperto con l’Umanità e i suoi imprescindibili valori.
Sono partito come prima esperienza pastorale da un piccolo paese di montagna, in Valsassina, e alla fine, dopo varie esperienze in paesi di campagna e di città, sono arrivato in un piccolissimo paese di collina, quasi a chiudere un arco di vita ministeriale, ma con l’animo aperto di chi ha percorso un lungo faticoso cammino di fede nell’Umanità  che non può ora fermarsi, né per l’età né per ordinamenti disciplinari.
Chi ormai è abituato a navigare in oceani sconfinati sotto cieli aperti non accetterà più di annegare in un bicchiere d’acqua.

 

 

4 Commenti

  1. renato ha detto:

    Carissimo Don Giorgio un po’ in ritardo le faccio anch’io gli auguri per l’anniversario di sacerdozio, la ringrazio per quello che fa quotidianamente per il bene comune di tutti noi, da quando frequento le sue celebrazioni ho riscoperto grazie a Lei il gusto di scoprire e gustare DIO il DIO vero universale il CRISTO autentico grazie di cuore anche per il bellissimo concerto di ieri un vero spettacolo culturale veramente bellissimo
    ONTINUI COSI’e non cambi finche’ avra’ un soffio di vita anch’io contnuero’ a saeguirLa con entusiasmo
    AUGURI DI CUORE

  2. GIANNI ha detto:

    Intanto, auguri di cuore.
    In occasione di questo anniversario,
    un ricordo personale, su questa figura di re biblico.
    Secondo un mio amico sacerdote,
    ecco un’altra interpretazione.
    A testimonianza che poi fugure strane ed emblematiche, possono esser reinterpretate come si vuole.
    Per lui Melcidesek era ed è simbolo della chiesa cattolica assolutista.
    CIoè Melchisedek sarebbe re, interprete assoluto di DIo, quasi una figura superiore a Cristo stesso.
    A significare, secondo lui, il fondamento monarchico della chiesa stessa, nonchè la sua struttura gerarhica.
    Insomma,Melchisdek antecendete della figura papale e della sua supremazia assoluta.
    Melchisedek sarebbe il primo papa ante factum, a dimostrazione che solo la chiesa cattolica potrebbe essere universale e solo se in osservanza strettissima e rigoroza delle prescrizioni gerarchiche.
    Insomma, la chiesa fatta persona in una osservanza strettissima.
    Io commento, dicendo, come farò notare a questo mio amico sacedote:
    strano come la stessa figura dia luogo sd interpretazioni così contrastanti.
    Strana anche l’occasione: proprio qualche tempo fa ebbi a domandadrgi chi fosse ‘sto Melchisedek.
    Certo, avevo letto qualcosa ricercando su google, ma senza capirchi granchè.
    Adesso, anche grazie a don GIorio, vengo ad apprendere un significato opposto.
    Interessante, molto interessante.
    Comunque, auguri ancora.

  3. ada ha detto:

    Un augurio affettuoso, caro don Giorgio, per la ricorrenza della sua ordinazione sacerdotale.
    Che Cristo l’accompagni nel suo servizio, ma le auguro anche di scoprire la bellezza di lasciarsi indirizzare dal suo vescovo e da papa Francesco che ogni giorno ci dà spunti per la riflessione e per confermarci nella fede!
    AUGURI!!!

  4. davide ha detto:

    Tanti auguri D. Giorgio e un unico rammarico ….. averla “incontrata” un po tardi. GRAZIE

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