30 marzo 2025: QUARTA DI QUARESIMA
Es 17,1-11; 1Ts 5,1-11; Gv 9,1-38b
Soffermiamoci sul primo brano: è tratto dal libro dell’Esodo. Già la parola “esodo”, che significa “uscita”, ci dice il contesto in cui inserire il racconto dell’autore sacro. S’intende l’uscita degli Ebrei dall’Egitto, dove erano rimasti schiavi per circa 400 anni: Dio li ha liberati per mezzo di Mosè, che li ha fatti incamminare nel deserto verso la terra promessa.
Esodo dunque vuol dire “uscita” e vuol dire “cammino” verso la libertà. Un cammino che ha richiesto i suoi costi. La libertà è un cammino che esige continuamente un distacco: dal passato e dal presente. Si è sempre tentati di tornare indietro, verso la schiavitù, che ha anche i suoi lati di comodità, quando il distacco per la libertà si fa troppo esigente.
Il libro dell’Esodo è in ogni caso da leggere con gli occhi dello Spirito, altrimenti si finirebbe nelle mani di esegeti così esigenti, storicamente parlando, da distruggere ogni virgola della Bibbia. Un libro, dunque, di forti emozioni, di contrattempi per inaspettate difficoltà di ogni genere, di ingratitudine di una massa che contesta Dio, contestando Mosè, il portavoce di Dio. Quando agli Ebrei in fuga dall’Egitto verso la terra promessa veniva a mancare il pane, eccoli contestare Mosè, sognando “le cipolle d’Egitto”. Il brano di oggi è una conferma. Manca l’acqua, ed ecco una dura contestazione: “Dateci acqua da bere!”. «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».
Un esegeta giustamente fa notare che bisognerebbe leggere questo brano alla luce del profeta Geremia, che fa del deserto e dell’acqua due simboli chiave della predicazione.
Riflettiamo almeno su queste parole: «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua».
Come a dire: certo, ci vuole anche l’acqua fisica per dissetare il corpo, ma in un deserto, che cosa si deve pretendere: di trovare sorgenti in ogni istante, o di scavare pozzi se si è in cammino? Sarebbe come pretendere di avere in un deserto una bella villetta magari prefabbricata da spostare man mano si procede verso la terra promessa. Sapevano che dovevano fare una vita da nomade, ed ecco che montavano e smontavano le tende, anche la Tenda del Convegno, una specie di dimora di Dio, l’antefatto del tempio in muratura. Il vero problema è che quegli Ebrei in cammino verso la terra promessa pensavano solo al corpo e non allo spirito. In quella Tenda del Convegno che li accompagnava nel loro cammino quale Dio era presente? Un Dio sempre pronto a fare miracoli appena quella massa caotica di ebrei contestava per la mancanza del pane (neppure contenti per la manna o per le quaglie) o per la mancanza d’acqua? E dimenticavano lui, sì lui, la sorgente d’acqua viva. Ecco l’accusa dei profeti.
Sorge una domanda, che non solo gli ebrei si ponevano, ma che noi stessi ci facciamo, secondo una logica che non rientra per nulla nella pedagogia divina. Eccola: perché Dio ha scelto per Israele la strada del deserto, per di più un cammin o di quarant’anni, quando poteva condurlo per una strada più comoda e più breve? È lo stesso libro del Deuteronomio a rispondere, 8,2-5: «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore… Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te».
Dunque, quel deserto è stato un test pedagogico della paternità di Dio. Nel linguaggio sapienziale, il percorso del deserto è stato una scuola di sapienza e di correzione, dove il Padre “mette alla prova” il figlio, per togliergli le maschere del cuore, per educarlo alla ri-conoscenza (intesa nel suo duplice senso di riconoscimento e gratitudine).
Nel deserto, cifra esistenziale dell’ambiguità e dei miraggi, Israele è stato chiamato a distinguere la Parola di Dio dalle parole umane, a sperimentare la propria fragilità, la sconfitta delle proprie sicurezze per rendersi conto che la vita dipende unicamente da Jahve.
Chiariamo meglio. Quel cammino doveva essere un periodo educativo, positivo, quasi ideale, visto dagli stessi profeti come il momento della crescita di un popolo neonato, che prende coscienza della sua liberazione, e deve imparare a muovere i primi passi non solo verso “la terra”, ma “alla presenza di Dio”, accogliendone le direttive.
In realtà non è stato così. Per gli ebrei in fuga dal faraone egiziano e in cammino verso la terra promessa il deserto era vissuto come luogo inospitale e invivibile, spazio degli agguati e dimora degli spiriti maligni, dove bisognava avere i beni vitali essenziali, saper gestire bene le proprie forze per poterne uscire. Certo, nel cuore d’Israele c’è la memoria euforica della prodigiosa liberazione e il futuro delle promesse. Ma restano, non del tutto rimossi, due inquietanti interrogativi; il primo suggerito dal Faraone: «II deserto bloccherà Israele?»; il secondo suggerito dal popolo: «Mosè, che ha fatto uscire Israele dall’Egitto, lo farà morire nel deserto?». Alle spalle la “morte” dell’Egitto, davanti la “morte” del deserto.
Israele è chiamato ad una scelta: saprà affrontare il rischio della sua libertà giovane e prepararsi a divenire quel che è? Saprà fidarsi di Mosè e di Jahvè, che lo ha liberato e credere che si tratta di un tempo intermedio, ma obbligatorio, perché momento di nuda e necessaria verità? Oppure la difficoltà, la vertigine di questa libertà, ridesterà l’illusione e il rimpianto della falsa sicurezza della schiavitù?
Nel primo caso il deserto può essere l’opportunità della più completa intimità tra Dio e il suo popolo, e della provvidenza di doni impensati nell’ottica di Dio; nel secondo, il deserto diventa lo spazio dell’insofferenza, della protesta, dello smarrimento.
È per questo che nella memoria profetica d’Israele, il deserto sarà un simbolo ambivalente: in un certo filone (Os 2,16; Ger 2,2) viene letto in chiave ideale e positiva come il tempo del “fidanzamento”; ma in un altro filone profetico, il deserto non è stato altro che il tempo di una continua e crescente ribellione. Scrive Ezechiele: «Ma gli Israeliti si ribellarono contro di me nel deserto; essi non camminarono secondo i miei decreti, disprezzarono le mie leggi, che bisogna osservare perché l’uomo viva» (Ez 20,13). Nel racconto dell’Esodo e dei Numeri, pur con differenze, ritroviamo quest’ultima pessimistica conferma: dal Mar Rosso al Sinai ed anche dopo il dono della Legge, Israele non ha saputo cogliere questa opportunità.
Come si può notare da quanto ho detto, nella Bibbia troviamo anche la nostra esperienza: tutti vorremmo uscire da situazioni di schiavitù, e poi sbagliamo subito strada, una volta usciti. O ci lamentiamo perché il cammino della libertà costa sacrifici, e perciò ricadiamo in altre schiavitù, sempre di male in peggio. Lo stesso si dica delle istituzioni, o dei capi di potere che forse hanno perso l’arte di educare al meglio.
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