Omelie 2023 di don Giorgio: QUARTA DI PASQUA

30 aprile 2023: QUARTA DI PASQUA
At 6,1-7; Rm 10,11-15; Gv 10,11-18
Per capire certi brani, che vengono anche superficialmente per non dire scriteriatamente estrapolati, ovvero tolti dal loro contesto anche storico, bisognerebbe tutte le volte fare delle premesse di chiarimento, a meno che, come succede spesso tra i parroci più pragmatisti, di soffermarsi su qualche parola o frase a se stanti.
A dire il vero, il tempo a disposizione per l’omelia è quello che è, circa dieci minuti, e perciò non si ha il tempo di spiegare il contesto del brano proposto.
Cercherò perciò di essere sintetico nel dire che le prime comunità cristiane non erano monolitiche, omogenee, ma complesse nella loro composizione: c’erano credenti provenienti da diversi mondi (religiosi, culturali e socio-politici), quindi comunità di credenti ex ebrei, ex pagani, specificando poi che che c’erano ebrei più ligi alla legge, come quelli che vivevano in Palestina ed ebrei più aperti, che vivevano nella diaspora, ovvero in zone fuori della Palestina, che erano a contatto con la cultura ellenistica o greca. E anche il mondo pagano era molto diversificato.
E ora, provate a farvi una idea di quanto le prime comunità cristiane fossero veramente articolate, composte di gente provenienti da mondi diversi, per cultura e per religione.
Chiaro che ciò comportava non poche difficoltà di convivenza e creava problemi di evangelizzazione, senza dimenticare che gli stessi Apostoli provenivano per lo più dal mondo ebraico palestinese.
Adesso potremo capire meglio anche il primo brano della Messa. Si parla di discepoli di lingua greca, che aumentavano di numero, e perciò potevano avanzare i loro diritti con maggior peso, visto che erano trascurate le loro vedove, che avevano bisogno di una assistenza quotidiana, anche materiale.
I Dodici apostoli si riuniscono per vedere il da farsi, e decidono unanimi: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».
Qui troviamo una decisione veramente storica, e da qui dipenderà le sorti di una Chiesa istituzionale, che successivamente lungo i millenni si allontanerà dando priorità a quell’assistenzialismo che farà perdere la scelta intrapresa dagli apostoli.
Lo sto dicendo da tempo, ovvero che la Chiesa istituzionale ha abbandonato la sua prioritaria ed essenziale missione, che è quella anzitutto di annunciare il Vangelo o la Buona Novella di Cristo. Non sto dicendo che la Chiesa non debba impegnarsi anche nella assistenza ai poveri, ma per questo dovrebbe delegarla ai laici, lasciando i suoi ministri liberi di dedicarsi alla preghiera e all’annuncio evangelico.
E qui non posso non fare una considerazione di fondo, e parto da una domanda: basta assistere materialmente i bisognosi, quando oggi il vero bisogno è di qualcosa di ancor più profondo, che è quella ricchezza spirituale che, se nessuno ne sente il bisogno, è perché la Chiesa non fa quello che è nel suo compito fare, ovvero dire alla gente, poveri o ricchi, analfabeti o colti, che siamo fatti anche e anzitutto di spirito.
E lo spirito è proprio dell’essere umano: gli animali hanno un corpo e magari anche un po’ di psiche (diciamo anche che il nostro cane è intelligente), ma non hanno lo spirito che è intelletto. E allora come possiamo distinguerci dagli animali, se non usiamo l’intelletto?
Noi siamo intelletto, in quanto essere, in quanto spirito.
E l’inganno della religione e della Chiesa istituzionale in quanto religione dove sta? Nell’aver identificato lo spirito con l’anima o psiche, eppure basta leggere attentamente le parole di Cristo per evitare di cadere in questo equivoco. Cristo infatti ha detto: “Chi ama la propria anima (in greco τὴν ψυχὴν), la perde e chi odia la propria anima (in greco τὴν ψυχὴν) in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25).
Da notare che la Chiesa, nella versione della Cei, ha tradotto “anima” con “vita”, intendendo vita nei suoi beni materiali, ecc., mentre predica ancora che bisogna salvare le anime, equivocando sui termini vita, anima e spirito.
Proviamo a chiederci: c’è una differenza tra spirito e anima o psiche? Magari a stento capiamo la differenza tra corpo e anima, sì perché non è forse vero che si parla di idolatria del proprio corpo? Idolatria non è forse rendere idolo il proprio corpo come se fosse qualcosa di divino?
Provate a chiedere anche ai preti che cosa intendono per anima, e vi diranno che è l’immagine stessa di Dio o che è la realtà immateriale, immortale, che resterà, dopo il disfacimento del proprio corpo con la morte. Quando parlano di spirito pensano allo Spirito santo, e che cosa è allora quella scintilla divina, di cui parlavano i Mistici medievali?
Oggi, in cui tutto è omologato sul corpo e sulla psiche, come si fa a parlare di spirito, tanto più se si dice alla gente che è la realtà più importante, come un atto di accusa?
Ed è qui la domanda cruciale: perché non si parla di spirito, ovvero di ciò che in realtà siamo? E a chi spetta parlare di spirito, se non alla Chiesa, che ha ricevuto l’ordine dal suo fondatore, Gesù Cristo, di annunciare la Buona Notizia, che è nella sua sostanza: riscoprire ciò che siamo, nella nostra realtà interiore.
Pensando al terzo brano della Messa, tratto dal quarto Vangelo, come si può parlare del Buon Pastore, senza pensare alla Buona Novella o Vangelo? Dunque, una Notizia che è buona, perché ci tocca nella essenza di quel bene che è il nostro essere. Noi in quanto essere divino (l’essere è divino in sé) veniamo dal Bene Assoluto che è Dio e a lui tendiamo per tornare alla Sorgente. È l’essere che torna al Bene Sommo, e non il corpo, che con la morte sarà consumato nella tomba. Già Platone parlava della filosofia come un “esercizio di morte”, nel senso che la filosofia aiuta a far morire tutto ciò che blocca il nostro essere interiore: un esercizio che non avviene una volta sola o solo qualche volta, ma ogni giorno.
E allora ecco la domanda: chi è il buon pastore? E quando si pensa al buon pastore si pensa solitamente al vescovo a capo di una diocesi. E qual è il mio sogno, che è anche il sogno di tanti? Avere un pastore che ribaldi la solita pastorale pragmatista che vorrebbe mettere insieme un po’ di autentico Vangelo con tanto fumo di iniziative che alla fine producono un vuoto interiore. È proprio così difficile per la Chiesa cambiare rotta e puntare verso quel Pozzo, in cui poi scendere per entrare nel Mistero divino?

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