“Destinazione universale dei beni”: che significa?

giovani-campi[1]

di don Giorgio De Capitani
Non metto in dubbio la validità di questi messaggi ecclesiali. Le cose dette sono anche belle e interessanti. Il problema è che da anni li sentiamo e li leggiamo, ma rimangono per lo più lettera morta. Per due motivi: non vengono presi in seria considerazione neppure dai mass media italiani, così attenti alle parole di questo papa e dei suoi gesti più banali. Le notizie mediatiche non hanno radici, e non vogliono radici, altrimenti come potrebbero volare così velocemente? Ma soprattutto a sottovalutare questi messaggi è la stessa Chiesa gerarchica, che ne parla un giorno o due, e poi si preoccupa d’altro. Men che meno i preti si soffermano a leggerli e a rifletterci sopra. E pensare che viviamo magari in zone ancora aperte all’agricoltura, o baciate dalla bellezza divina.
Le stesse comunità cristiane si dimenticano che il creato è da amare e da proteggere. Ho mai sentito qualcuno durante un Consiglio pastorale tirar fuori il problema ambientale. Difficilmente nei Consigli pastorali si affrontano tematiche relative al rispetto della natura, magari con qualche presa di posizione contro speculazioni o altro. Mai! Anzi, se un prete dovesse parlarne, verrebbe accusato di fare l’ambientalista, mentre il suo dovere sarebbe fare il prete, e basta. E che significare fare il prete?
Proprio vero: si predica bene, e poi si razzola male. Ma neppure si predica bene, visto che noi preti nelle omelie festive parliamo sempre di tutto, tranne che di problemi reali. Se parli di ambiente, ti guardano male.
Un appunto sul Messaggio. Quando si usano certe espressioni, ad esempio “destinazione universale dei beni”, si deve poi tirarne le conseguenze. Buttate lì, certo fanno effetto, ma dicono poco o nulla, se non si ha il coraggio di applicarle nella vita reale. Che significa allora “destinazione universale dei beni”, e perciò anche della terra? Non possiamo non toccare anche il problema dei limiti della proprietà privata. Ancora oggi, basta avere soldi, e si compera tutta la terra che si vuole. La domanda non è: questo è lecito? La vera domanda è: questo è giusto?
La destinazione universale dei beni implica la giustizia, e non tanto la generosità o la solidarietà. I diritti sono fondati sulla giustizia, e non viceversa. Tutti hanno diritto a un pezzetto di terra, per il fatto che la terra è di tutti ed è di nessuno in particolare. Se la destinazione universale dei beni è una questione di giustizia, se tu, ricco, hai più del tuo necessario, porti via a me (ovvero, rubi!) ciò che mi spetta per giustizia.
Come porre questi limiti alla proprietà privata? Bella domanda! In ogni caso, mettiamocelo almeno nella testa: nessuno può prendersi ciò che vuole! La terra non è del primo occupante! La terra non è di coloro che hanno soldi per acquistarla. Forse qui dovremmo rifarci alla concezione sociale degli ebrei, che era più avanti della nostra moderna. Anche il giubileo era una maniera per tornare sempre daccapo nelle proprietà terriere, per evitare che pochi avessero troppo, e troppi avessero poco o nulla. Si tornava all’antico proprietario.
Se qualcuno volesse approfondire l’argomento, ho scritto un opuscolo. Si può leggerlo in pdf qui 
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Messaggio per la 64ª Giornata Nazionale

del Ringraziamento

9 novembre 2014

Benedire i frutti della terra e nutrire il pianeta

«Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva, per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (Sal 104, 14-15).
La Giornata del Ringraziamento 2014 precede di alcuni mesi l’apertura di Expo Milano 2015 dedicato a “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”, un tema di particolare rilevanza per il nostro Paese e non solo.
Esso invita a dedicare un’attenzione speciale al tema del cibo, quale dono di Dio per la vita della famiglia umana. Così, nel ringraziare il Padre per i frutti della terra, ci rendiamo consapevoli di coloro che patiscono la fame. Papa Francesco richiama spesso “la tragica condizione nella quale vivono ancora milioni di affamati e malnutriti, tra i quali moltissimi bambini”(1). La fame è minaccia per molti dei poveri della terra, ma anche tremendo interrogativo per l’indifferenza delle nazioni più ricche. Infatti, alla sottonutrizione di alcuni, si affianca un dannoso eccesso di consumo di cibo da parte di altri. È uno scandalo che contraddice drammaticamente quella destinazione universale dei beni della terra richiamata – quasi cinquanta anni or sono – dal Concilio Vaticano II nella Costituzione pastorale Gaudium et spes (cf. n. 69). È una questione di giustizia, che pone gravi interrogativi in merito al nostro rapporto con la terra e con il cibo.
In questa Giornata del Ringraziamento guardiamo dunque all’agricoltura, che – attraverso i suoi frutti – è fonte della vita.
La terra, il lavoro, i frutti
Potremmo muovere da un’immagine biblica molto bella e dolce: quella della felicità dell’uomo che coltiva la terra, per poi mangiarne i frutti nella pace, benedicendo il Creatore per i suoi doni. Già il racconto della creazione in Gen 2 disegna, in effetti, quest’alleanza dell’uomo con la terra. Nel versetto 2,15, Adam è chiamato a coltivarla e a custodirla. Il testo ebraico rimanda ad una sorta di servizio verso la terra, tramite la dignità del lavoro, che si fa subito anche custodia, affinché essa a sua volta serva l’uomo, donandogli il cibo per la vita. Ma il peccato spezza tale alleanza, associando il lavoro della terra al peso di una fatica che appare insostenibile. Il sogno del Dio creatore resta invece quello di una sorta di reciprocità: ad un lavoro umano rispettoso della terra che si fa giardino, essa corrisponde con la generosa e vivificante produzione di frutti.
Il sistema agricolo contemporaneo appare però spesso distante da tale immagine: la sua complessità esige considerazioni ben più articolate. Infatti, nelle zone agricole di grande vastità, l’attività tende spesso a coinvolgere sempre più reti di imprese e comporta l’uso di tecniche anche complesse (si parla di “agricoltura industriale”). La finanza poi, purtroppo, si comporta con il cibo come una pura merce, su cui scommettere per trarne profitto, a prescindere dal destino di chi di esso vive. E sulla terra si specula! La sua stessa disponibilità è a rischio: spesso essa è destinata ad altri scopi o diviene oggetto di una lotta commerciale tra le economie più forti. E non mancano le pressioni crescenti sul piano della legalità: la salubrità dei prodotti è minacciata da abusi e forme di inquinamento che talvolta neppure percepiamo.
Una situazione complessa, dunque, che mette a rischio la capacità dell’agricoltura di garantire sicurezza alimentare, per avere un cibo che possa nutrire gli abitanti del pianeta e che sia affidabile per chi lo consuma. Come uscire da tale situazione? Come far sì che anche nella complessità contemporanea trovi espressione la realtà costitutiva di un’agricoltura che sia collaborazione all’azione del Dio provvidente, datore di vita?
Prospettive
Forse il primo dato da tenere presente è che anche il nostro rapporto con la terra è un fatto culturale; come ogni realtà sociale, esso disegna modelli di organizzazione della società in cui anche la dimensione tecnica esprime valori e dà forma alla stessa relazione tra le persone. Si tratta, dunque, di educarci a pensare l’agricoltura come spazio in cui la giusta ricerca della remunerazione del lavoro si intrecci con la solidarietà, l’attenzione per i poveri, la lotta contro lo spreco, con un’attiva custodia della terra.
Si tratta però anche di operare per dar forma ad un sistema agricolo che dia corpo a tali istanze, sviluppando e promuovendo un modello di produzione agricola che sia attento alla qualità e alla salvaguardia dei terreni, in modo da garantire effettiva sostenibilità. La terra, in altre parole, va custodita come un vero e proprio bene comune della famiglia umana, dato per la vita di tutti. Essa deve mantenere come primaria la sua destinazione fondamentale – quella di essere, appunto, fonte di cibo per i suoi abitanti, facendo in modo che il rispetto e la ricerca della qualità dei beni salvaguardi la capacità della terra stessa di produrre per la generazione presente e per quelle future.
Occorre presidiare il territorio contro il degrado e la cementificazione, che lo rendono inospitale per la vita e sottraggono aree alla produzione di cibo. Occorrerebbe pure evitare l’installazione di pannelli solari sul terreno, collocandoli piuttosto sugli edifici. L’agricoltura poi non è solo produzione finalizzata a nutrire la famiglia umana, ma anche custodia del territorio, che lo cura e lo riqualifica. Quando esso è privato della presenza del lavoro agricolo, è anche meno curato, più esposto a fenomeni di erosione, tanto più in un tempo di mutamento climatico, segnato da eventi meteorologici di vasta portata, che richiedono – insieme ad un’adeguata impostazione etica e ad un necessario cambio culturale – “un grande impegno politico-economico da parte della comunità internazionale”, attuando “una risposta collettiva basata su quella cultura della solidarietà, dell’incontro e del dialogo, che dovrebbe essere alla base delle normali interazioni all’interno di ogni famiglia e che richiede la piena, responsabile e impegnata collaborazione da parte di tutti, secondo le proprie possibilità e circostanze” (2).
Inoltre, la stessa agricoltura è anche un sistema di relazioni umane, che si sviluppano in stretto contatto con la terra ed i suoi ritmi. Riteniamo doveroso ringraziare in profondità i contadini e tutti coloro che, lavorando con amore e passione la terra, ci forniscono un cibo buono e sicuro. Non dimentichiamo, in questo senso, il grande contributo offerto dai lavoratori immigrati presenti sul nostro territorio. Da sottolineare in particolare la grande rilevanza delle famiglie rurali, testimoni concrete di un’alleanza con la terra che esse sono chiamate a rinnovare nelle pratiche produttive. Sono tante le imprese che considerano tale rapporto come parte di una forma di esistenza che si tramanda di padre in figlio, di madre in figlia, nella quale la continuità si intreccia con l’innovazione. Come già ricordava Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del mondo agricolo, occorre educarci a coniugare tradizione ed innovazione: questa è la strada per far fronte ai gravi problemi che investono il mondo agricolo e più in generale l’intera società. Così egli affermava incisivamente: “Camminate nel solco della vostra migliore tradizione, aprendovi a tutti gli sviluppi significativi dell’era tecnologica, ma conservando gelosamente i valori perenni che vi contraddistinguono. È questa la via per dare anche al mondo agricolo un futuro di speranza” (3). Papa Francesco – nella sua recente visita in Molise, parlando al mondo rurale – ha chiesto di maturare vocazioni per la terra, onde essere contadini per vocazione e non per costrizione! Non solo, deve farci riflettere un altro passaggio di quel discorso: “Il restare del contadino sulla terra non è rimanere fisso, è fare un dialogo, un dialogo fecondo, un dialogo creativo. È il dialogo dell’uomo con la sua terra che la fa fiorire, la fa diventare per tutti noi feconda. Questo è importante” (4).
Consumatori corresponsabili
La custodia della terra per nutrire il pianeta è impresa che richiama anche la responsabilità delle singole persone e delle famiglie: siamo consumatori, ma anche cittadini attivi e responsabili. Educarci alla custodia della terra significa altresì adottare comportamenti e stili di vita in cui l’uso del cibo e dei prodotti alimentari sia più attento e lungimirante. Con le nostre scelte di acquisto del cibo possiamo offrire sostegno alle produzioni locali. Spesso è il modo di acquistare di ognuno di noi che decide il futuro di una piccola cooperativa locale, come a decidere del futuro dei nostri territori è anche – in prospettiva nazionale – il dato in aumento degli studenti che frequentano le scuole agrarie e il crescente dato di occupazione in agricoltura. Sono segnali positivi che spingono a privilegiare le coltivazioni biologiche e sostenibili, dedicando anche più attenzione a cosa mangiamo. È saggezza privilegiare la qualità rispetto alla quantità, sapendo che – nei prodotti a forte impatto ambientale e sociale – la qualità aiuta la sostenibilità.
Altrettanto importante è agire nelle nostre famiglie, per ridurre ed eliminare lo spreco alimentare, che nelle società agiate raggiunge livelli inaccettabili. Papa Francesco ha più volte denunciato la “cultura dello scarto”, cultura che “tende a diventare mentalità comune che contagia tutti”, rendendoci “insensibili anche agli sprechi e agli scarti alimentari, che sono ancora più deprecabili quando in ogni parte del mondo, purtroppo, molte persone e famiglie soffrono fame e malnutrizione. [… ] Il consumismo ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo, al quale talvolta non siamo più in grado di dare il giusto valore, che va ben al di là dei meri parametri economici. Ricordiamo bene però che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero, di chi ha fame!”(5).
Ecco dunque alcune scelte che indichiamo alle nostre comunità, frutto della benedizione del cibo:
1. coltivare la terra in forme sostenibili, per nutrire il pianeta con cuore solidale;
2. adottare comportamenti quotidiani basati sulla sobrietà e la salubrità nel consumo del cibo;
3. soprattutto, rendere grazie a Dio e ai fratelli umilmente (da humus) per il dono che ogni giorno riceviamo dalla terra e dal lavoro dell’uomo, in modo tale da tutelarli anche per le prossime generazioni.
Ci sarà prezioso, nel compiere questo percorso di speranza, rileggere il piccolo Libro di Rut. Così è scritto: “il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Rt 1,16). È una storia di persone fragili che – operando in solidarietà e condivisione – giungono a costruire vita buona, basata sull’istituto della spigolatura, al fine di coniugare l’attenzione per il povero e il contrasto allo spreco. Così, quella vicenda di dolore diventa una storia di speranza, che riesce a trovare vie d’uscita anche dalle situazioni difficili e disperate: “È nato un figlio a Noemi!” (Rt 4, 17).
Roma, 7 ottobre 2014
Memoria della Beata Vergine Maria del Rosario
La Commissione Episcopale
per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace

(1)  FRANCESCO, Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, 16 ottobre 2013, n. 1.
(2) Intervento del Segretario di Stato, Card. Pietro Parolin, al Vertice Onu sul clima, 23 settembre 2014.
(3) GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Giubileo del mondo agricolo, 11 novembre 2000, n. 9.
(4) FRANCESCO, Discorso all’incontro con il mondo del lavoro e dell’industria, 5 luglio 2014.
(5) ID., Udienza generale, 5 giugno 2013.

5 Commenti

  1. dioamore ha detto:

    Ho letto il tuo opuscolo “Il prete e la politica” e l’ho trovato bello, interessante e condivisibile.

    A pagina 80 richiami una affermazione di Benedetto XVI: “noi non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che possediamo”.

    Io avrei detto: “noi non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che non possediamo e che non ci appartengono”.

    Poi dici: “Certo, Benedetto XVI non ha condannato la proprietà privata. Ma secondo me ha dato alcuni spunti per porvi dei paletti.”

    A parte il fatto che la Proprietà Privata trova già i suoi paletti nella Legge, la Proprietà Privata non riguarda solo i beni materiali mobili e immobili, regolamentati dalla Legge, ma riguarda anche i beni immateriali come la proprietà intellettuale e industriale regolamentata dalla legge del Copyright e da quella del marchio e del brevetto.

    Brevetto: “Attestato amministrativo della paternità di un’invenzione e del diritto ESCLUSIVO di godere, per un periodo di tempo determinato, degli utili economici che ne derivino”.

    Perché continuare a prenderci in giro rivendicando paternità che non ci spettano?

    La Proprietà è l’origine del peccato. Non ha senso condannare il peccato e poi legittimare la Proprietà Privata, anche se circoscritta da paletti, perché sono proprio i paletti fissati dalla Legge a definire e a circoscrivere nello spazio e nel tempo i confini della Proprietà. Basta pensare anche al concetto di eredità, di locazione, di usufrutto e di nuda proprietà.

    La Proprietà va condannata in tutto e per tutto come va condannato il peccato, perché è la Proprietà ad espropriare l’uomo, visto che non c’è Proprietà senza l’esproprio di qualcuno.

  2. Antonio ha detto:

    Grazie a don Giorgio, per la sua attività politico-culturale e per gli stimoli che offre – a chi lo segue con animo aperto e privo di convinzioni aprioristiche – per meglio comprendere il mondo in cui viviamo. E grazie per i contenuti dell’aureo libretto “Il prete e la politica”, che potrebbe essere utilmente letto e commentato nelle scuole superiori: una volta c’era una materia che si chiamava “educazione civica”. Ebbene io penso che tale libretto potrebbe costituire, di tale materia, un eccellente sostituto.
    Cari saluti a tutti. Antonio

  3. don ha detto:

    Aggiungo inoltre, vivendo in un paese contadino, che il rispetto della natura chiama in causa anche il discorso della proprietà privata: porre dei limiti precisi è un dovere, se non si vuole lo scempio totale! Più di una volta ho organizzato qualche gruppo oratoriale di ragazzi volontari per pulire fossi e strade di campagna. Qualcuno obietta: “Perchè devo pulire ciò che hanno sporcato gli altri?”. La mia riposta è sempre la stessa: “perché quella terra è anche tua!”

  4. Giuseppe ha detto:

    Il mondo, inteso come umanità e istituzioni, non ha certo come punto di riferimento il messaggio evangelico. Anzi potremmo dire che le sue regole sono quasi sempre in contrasto con l’insegnamento di Gesù Cristo, forse perché originate principalmente da compromessi e patti stabiliti per dirimere conflitti, spesso pretestuosi, dovuti al desiderio di sopraffazione e ad un eccesso di ambizione, volta soprattutto alla conquista di ricchezze materiali e al raggiungimento di una posizione di potere, costi quel che costi. Tutto il contrario, insomma, dello “spirito di servizio” che dovrebbe essere alla base di qualsiasi incarico, sia esso politico, sociale o religioso. Non per niente il papa tra i titoli che gli vengono riconosciuti ha quello di “servo dei servi di Dio” e, come ci ha ricordato don Giorgio, le parole che indicano posizioni di rilievo e di prestigio hanno tutte una etimologia che mette in risalto questo aspetto. Sappiamo bene come stanno le cose nella realtà, purtroppo anche in seno alla chiesa, dove le beatitudini sono spesso dimenticate e/o sacrificate sull’altare di interessi essenzialmente mondani e materiali. È ovvio, perciò, che se coloro che sono chiamati a governare ed amministrare la cosa pubblica, anche in ambito ecclesiastico, pensano prima di tutto al proprio tornaconto, non potranno mai prestare la giusta attenzione ai problemi dell’ambiente e del territorio, che finiscono per essere usati esclusivamente come strumenti per raggiungere il successo.

  5. GIANNI ha detto:

    Il diritto, come tale, è un mero strumento che può realizzare cose positive, ma anche negative.
    Dipende come lo usiamo, anche nei confronti della terra.
    Si tratta talora di abusare della terra, e da qui derivano talora norme che consentono di costruire dove diviene pericoloso, ad esempio, oppure lasciano realizzare il fenomeno della cosiddetta manomorta nei fondi rustici.
    Un buon sfruttamento delle risorse terriere, fondato su equità e rispetto ambientale, non lo troviamo molto spesso.
    Forse, maggiormente nelle forme di impresa cooperativa, che consentono lo sfruttamento a chi la terra intende coltivarla realmente.
    Personalmente, sarei favorevole ad introdurre norme che si avvicinino maggiormente al concetto di equità, come è avvenuto per il cosiddetto equo canone degli immobili.
    Nel senso che anche in contratti di affitto agrario, i cosiddetti fondi rustici, già ora la normativa prevede l’equo canone, solo che mancano i criteri per determinarlo.
    Era intervenuta anche la COnsulta, invitando il legislatore ad intervenire fissando criteri ammodernati, ma finora tutto è sospeso.
    Altri interventi normativi sarebbero richiesti in materia di controllo e prevenzione ambientale ed idrogeologica.
    Qui le leggi ci sono, ma spesso non vengono fatte rispettare.
    Basti pensare alla terra dei fuochi, o all’assurdità, per altro verso, di quelle norme e concessioni che hanno permesso il disastro di Genova.
    Va anche detto che noi italiani, ma anche europei, abbiamo una mentalità caratterizzata dalla permanenza nei luoghi.
    Intendo dire che, una volta creata una città, poi le generazioni future tendono a viverci ancora.
    Va però ricordato che molte città, di antica creazione (Genova nel suo nucleo storico essenziale nel 1500) non erano state create per sostenere oltre una certa mole di abitanti nonchè di trasporti.
    SI pensi che all’epoca la città era stata progettata per 50000 abitanti.
    Forme di rispetto del territorio vorrebbero quindi che si creino nuovi centri satellite, o altri ancora, piuttosto che portare certe infrastrutture ( ed anche le città lo sono) oltre il loro limite naturale di sopportabilità.
    In altri termini, bisognerebbe fissare dei limiti, oltre i quali le infrastrutture urbanistiche non possono andare, a rischio di disastri in caso di inosservanza.

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