Omelie 2016 di don Giorgio: UNDICESIMA DOPO PENTECOSTE

31 luglio 2016: UNDICESIMA DOPO PENTECOSTE
1Re 21,1-19; Rm 12,9-18; Lc 16,19-31
Ci sono nelle letture della Messa spunti di riflessione, che però meritano un’approfondita attenzione, per evitare il rischio di cadere nel tranello, per me gravissimo, di chi parte presupponendo una perlomeno discutibile e strana idea di giustizia e di carità.
La storia di una vigna desiderata e rapinata
Partiamo dalla prima lettura. Acab, re d’Israele (o del Nord), con capitale Samaria, regnò nel IX sec. a.C. Sua moglie, Gezabele, figlia del re di Tiro, dunque pagana, fece di tutto per propagare il culto di Baal e di Astarte e di contrastare la voce del profeta Elia. Che cosa succede? Il re desidera la vigna di un contadino, Nabot, che confina col suo palazzo. È disposto a tutto pur di averla. Nabot si rifiuta. Non dimentichiamo che a quei tempi la terra, ricevuta in eredità dai padri, dava diritto di cittadinanza e custodiva, spesso, la sepoltura degli antenati. Quindi, aveva un valore che andava oltre il fattore economico.
La destinazione universale delle terra
Che qualcuno desideri, anche pagandola, la terra del suo vicino, non ci sarebbe niente di male, così almeno la pensa ancora oggi la maggior parte della gente. Pago, e compro, dunque dove sarebbe il male? Ed è già qui l’idea sbagliata della giustizia. A parte il fatto che non è necessario ricorrere ai metodi violenti del re Acab che tutti condanniamo: ci sono altri metodi che non condanniamo, ma che sono molto più riprovevoli, quando ad esempio approfittiamo delle disgrazie altrui per prendersi i loro beni, passando anzi per benefattori.
Quindi, attenzione: il brano di oggi va oltre l’atto criminale del re Acab, il quale, su suggerimento della moglie Gezabele, scredita quel contadino accusandolo di bestemmia verso Dio, per poi lapidarlo e così prendersi gratis la sua vigna. Certo, questo atto è da condannare, tanto più che, ancora una volta e lo diventerà una moda lungo i secoli, il nome di Dio viene tirato in ballo. Basta poco dire: “Tu hai maledetto Dio o il re (ovvero il potere costituito)”, dunque meriti la morte. Quante volte è successo anche nella storia della Chiesa?
Ripeto, il vero problema è di fondo ed è il concetto che si ha della giustizia nei diritti e nei doveri nei riguardi della terra, che, essendo un bene universale, è di tutti e non può essere in balìa del primo occupante o di chi ha più soldi. Non dobbiamo condannare solo chi usa la violenza per prendersi un pezzo di terra, ma anche chi la compera con i propri soldi, senza tener conto che la proprietà privata ha dei limiti e che questi limiti sono stabiliti dal diritto di ciascuno ad avere il suo pezzo di terra. Dunque, insisto: se la terra è un bene universale, andrebbe in teoria divisa tra tutti i suoi abitanti, e nessuno, anche pagandola, ha il diritto di prendersi un pezzetto, oltre il suo necessario.
Un concetto errato di giustizia
Ancora oggi sento dire, e lo dicono tutti, anche la legge dello Stato e la legge della Chiesa: ciò che è da condannare sono i soprusi, le violenze, le prevaricazioni. Certo, siamo d’accordo. Ma il vero problema è di fondo, e precede i soprusi, le violenze e le prevaricazioni. Il problema sta nel non rispettare la destinazione universale della terra.
E tale destinazione può essere violata anche usando la legge o rispettando ciò che riteniamo di dominio comune: ho i soldi, dunque posso comperare ciò che voglio. No! Anche se tu avessi i soldi per comperarsi un intero paese, non puoi farlo: è un crimine contro la destinazione universale della terra. Se tu prendi un pezzetto di terra e non permetti ad un altro di avere il suo, tu sei un ladro. Più hai oltre il tuo necessario, più aumenta il tuo crimine: rubi il diritto ad un altro di avere ciò che gli spetta per la destinazione universale della terra.
E allora, attenzione: anche il solo desiderio del re di volere la vigna del suo vicino, privandolo del suo diritto, è da condannare. Il resto, ovvero ciò che poi farà per riuscire a ottenerla con l’inganno e la menzogna, non sarebbe successo, se il re avesse rispettato la destinazione universale della terra. Le violenze, i soprusi, le vendette, ecc. sono la conseguenza di una concezione sbagliata di giustizia. La giustizia non la stabilisce il re o la struttura statale o religiosa: la giustizia sta nel nostro interiore, che è inviolabile nella sua dignità di essere umano.
Amministratori, non proprietari
C’è di più. Benedetto XVI, nel suo messaggio quaresimale del 2008, aveva scritto: «Non siamo proprietari, bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo». Siamo affittuari, non proprietari della terra che possediamo, ed è giusto che paghiamo una tassa di affitto che dovrà essere destinata per il bene comune.
Giustizia e carità
Il brano del Vangelo racconta la parabola del ricco, a cui la tradizione ha dato un nome, “epulone” (che significa ghiottone, mangione), anche se in realtà Gesù non dà alcun nome. I ricchi perdono il loro nome, perché vengono classificati con il criterio dell’avere o della pancia. I poveri, invece, mantengono il loro nome, come Lazzaro che, nella parabola, stava alla porta del ricco mangione ad aspettare qualche briciola che cadeva dalla tavola sontuosamente imbandita.
E qui entra in scena la carità, vista come generosità di chi offre qualche briciola del suo troppo avere, ricevendo magari riconoscimenti, ringraziamenti e targhe o monumenti. Scriveva Sant’Ambrogio: «Quando tu dai qualcosa al povero, non gli offri ciò che è tuo, ma gli restituisci soltanto ciò che è già suo, perché la terra e i beni di questo mondo sono di tutti, non dei ricchi».
La carità non solo ci tocca nel nostro di più o nel nostro superfluo (che, in ogni caso, è un dovere morale restituire ai più bisognosi o al bene comune), ma ci tocca nel nostro stesso essere umano. Don Primo Mazzolari diceva che la misura per stabilire il di più da donare agli altri dipende dal nostro cuore e che perciò più si ama, più si dona, fino al gesto di Cristo che ha ritenuto la sua stessa esistenza un di più da offrire al mondo intero.
Siamo sempre al solito punto: l’amore nasce dal nostro interiore, dove a contrastare l’azione dello Spirito d’amore è quell’ego che, esteriorizzato nel nostro agire, produce quella società di tanti egoismi, che stanno frantumando ogni concetto di giustizia e di fratellanza universale.

 

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