Omelie 2014 di don Giorgio: Ottava Domenica dopo Pentecoste

3 agosto 2014: Ottava domenica dopo Pentecoste
1Sam 3,1-20; Ef 3,1-12; Mt 4,18-22
Stavolta i tre brani della Messa hanno un evidente tema in comune: la vocazione. La prima lettura parla della vocazione di Samuele, nella sua lettera agli Efesini san Paolo parla della propria vocazione, mentre il brano del Vangelo narra la vocazione dei primi quattro discepoli: i due fratelli Simone e Andrea, e altri due fratelli, Giacomo e Giovanni.
Vocazione è un termine ricorrente nel mondo ecclesiastico, e anche nel mondo sociale e politico, benché con sfumature diverse. Vocazione deriva dal latino “vocatio”, che significa “chiamata”. Una chiamata che avviene attraverso la voce (“vox”, in latino).
Nell’ambito ecclesiastico, la “vocatio” fa riferimento alla chiamata da parte di Dio alla vita religiosa o ad una particolare missione a servizio della Chiesa o del prossimo. Per i latini, la “vocatio” assumeva significati differenti in rapporto al contesto sociale, in cui tale vocabolo veniva usato. La “vocatio” poteva significare una citazione in giudizio (da qui, il termine “ad-vocatio”, vale a dire la consultazione legale centrata sulla figura professionale dell’”ad-vocatus”, il cui termine greco corrispondente è “paràcletos”, o paraclito), inoltre “vocatio” significava un invito a pranzo (suggestivo il riferimento alla chiamata, rivolta da Dio a tutti gli uomini, a partecipare al banchetto celeste della fine dei tempi); la “vocatio” poteva indicare una convocazione (o “con-vocatio”, ossia la chiamata in riunione di un gruppo di persone per trattare un argomento di interesse comune); infine, “vocatio”  indicava un’invocazione o appello (“in-vocatio”) ad agire per il bene comune.
Nella lingua italiana, la vocazione o chiamata è arricchita da sinonimi, che, di volta in volta, chiariscono ulteriormente il significato di questo vocabolo: inclinazione, attitudine, disposizione, tendenza, predisposizione, propensione, passione, capacità, dote. Nessuno di questi sinonimi, però, chiarisce del tutto il significato profondo della vocazione nella sua accezione religiosa e biblica, laddove la chiamata è frutto di una libera iniziativa di Dio e di una libera accettazione da parte dell’uomo, chiamato per l’appunto da Dio a svolgere una missione a favore dell’umanità. Qui bisogna chiarire.
Il nostro rapporto con Dio è sempre asimmetrico. Vuol dire che c’è un’infinita sproporzione tra l’amore di Dio per la sua creatura e la pur libera iniziativa dell’essere umano, che si rivolge al suo Creatore per invocarlo o per rispondere alla sua chiamata.
Solitamente l’uomo si rivolge al suo Signore per ottenerne l’aiuto, l’attenzione, il sostegno nella prova, la compassione, il perdono e la benevolenza. Siamo tutti precari di fronte a Dio: bisognosi di Lui. Notate: il termine precario, oggi così di moda, deriva dal latino “praecarius”, il quale deriva da “prex”, che significa preghiera. Dunque, precario e preghiera hanno lo stesso significato.
E Dio come risponde alla nostra preghiera? Risponde con la sua grazia, che va sempre al di là della nostra domanda. Ma attenzione: “al di là” non significa che ciò che Dio mi dà è sovrabbondante. Io chiedo uno, Dio me ne dà due; io chiedo due, il Signore me ne dà tre. No. Dio non si limita a rispondere alle nostre richieste: capisce ciò che è il nostro vero bene, che non sempre corrisponde alla  nostra richiesta, che secondo Dio può essere un male. Ecco il senso delle parole, che diciamo quando preghiamo con il Padre nostro: “sia fatta la tua volontà”. Dio, dunque, va oltre le nostre domande.
Quando Dio “chiama” l’uomo, non si comporta mai allo stesso modo: la sua chiamata è sempre originale, unica, personale e personalizzata. Ogni chiamata ha una sua storia. Sono diverse la chiamata di Abramo e la chiamata di Mosè. Certo, il fine era lo stesso: mettersi al servizio di un popolo, che doveva incarnare il disegno di Dio nella storia. Così diverse sono le chiamate di Samuele e dei singoli profeti. Ogni profeta ha una sua storia particolare. La Bibbia, in fondo, non ci stanca mai. Non è monotona: è un insieme di storie tutte diverse. Ogni chiamata è affascinante, misteriosa, comunque sempre da incarnare in un contesto storico. Oggi Dio chiama in un modo completamente diverso, perché diverse sono le situazioni storiche. La finalità è la stessa, ma i modi sono diversi. Mi viene da ridere quando sento dire che bisognerebbe tornare alle origini del cristianesimo, come se ciò significasse tornare indietro nel tempo. Se Cristo fosse qui oggi, agirebbe in un modo del tutto diverso: altri nemici, altre difficoltà, probabilmente non sarebbe messo su una croce, ma, come ha scritto Kierkegaard nel suo Diario: «Se Cristo ritornasse al mondo, forse non sarebbe messo a morte, ma in ridicolo. È questo il martirio dei tempi dell’intelligenza; essere messi a morte è quello del tempo della passione e del sentimento». Sento talora dire che bisognerebbe tornare ai tempi di San Francesco. In che senso? Dimentichiamo una piccola parola, ed è “spirito”. Spirito significa il cuore del messaggio, il messaggio nella sua purezza originaria, ma da incarnare nella realtà dell’oggi. I tempi cambiano: bisogna tener conto del progresso. E allora diciamo pure che dobbiamo tornare allo spirito evangelico o allo spirito francescano.
Dio mi chiama oggi, e la sua chiamata non mi fa rifiutare il progresso. Ma attenzione: c’è progresso e progresso. Si tratta di conciliare il progresso con l’umanità. Dio mi chiama a realizzare i valori umani. E chiama tutti. Ognuno di noi nasce con la chiamata di Dio, che è già nel nostro essere. Il grosso difetto di ogni religione, e anche della Chiesa cattolica, è consistito nel ritenere la chiamata di Dio come qualcosa di esclusivo di una certa categoria di persone, e questo difetto è resistito fino ai nostri giorni. È vero che oggi la parola vocazione si è estesa ai vari campi, anche educativi e politici. Perché no? Anche i politici dovrebbero sentire la vocazione a servire il bene comune. Sono chiamati a svolgere una missione. Talora preferiamo il termine “professione” o “professionalità”. Sembra più laico e moderno. Ma la parola professione non dice quanto la parola vocazione: la professione riguarda la capacità o preparazione a svolgere un certo compito, mentre dicendo vocazione s’include anche la convinzione, la passionalità, la dedizione.
Vorrei insistere sul fatto che ognuno di noi ha una particolare vocazione, che non è né laica né religiosa: è semplicemente umana. Prima parlavo del grosso difetto di ogni religione: aver relegato la vocazione ad un ambito ristretto, quello prettamente ecclesiastico o gerarchico. La vocazione è passata poi a indicare un potere, un incarico, dimenticando una piccola parola essenziale, che è il servizio. Dio non ha mai chiamato ad assumere dei ruoli di potere, ma di servizio. Il potere non rientra nella vocazione o nella chiamata di Dio.
Per il fatto che chiamata e potere sono diventati la stessa cosa, il popolo di Dio è sempre stato escluso dalla cosiddetta vocazione. Chiamati erano solo i privilegiati, gli appartenenti al mondo ecclesiastico, nella sua variegata gerarchia.
Oggi la Chiesa parla anche di responsabilità del Popolo di Dio, il quale è chiamato a far parte della Chiesa, in piena coscienza. Ma qual è la sua parte in questo nuovo regno? Non è facile capire fino a che punto la Chiesa lasci spazio ai cosiddetti laici. Questo sì, questo no. Questo è ancora parte della gerarchia, mentre tu, semplice laico, non invadere il mio campo. Certo, i laici si stanno sempre più impegnando nella Chiesa, anche perché, venendo meno le vocazioni, si è costretti a ricorrere a loro per occupare gli spazi lasciati vuoti. Siamo sempre al solito punto. La Chiesa sembra mollare il potere: la necessità diventa poi virtù.
Don Primo Mazzolari ha scritto due opuscoli, di poche pagine, sulla parrocchia. Il primo risale al 1937, titolo: “Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione”, mentre il secondo è stato scritto vent’anni dopo, nel 1957, titolo “La parrocchia”. I due testi si possono trovare su internet. Due opuscoli ancora attuali: ci fanno capire quanto le parole di don Primo siano state profetiche, e quanto siano ancora ben lontane dalla realtà. Don Primo tocca il tasto della maturità dei laici e del loro posto nella Chiesa.
Vedete: la cosa più paradossale mi sembra questa. La Chiesa non fa altro che ripetere: col Battesimo tutti entrano a far parte del sacerdozio di Cristo. Il Concilio Vaticano II ha insistito su questo aspetto. Ma nella realtà che cosa succede? Ci si chiede ancora oggi: qual è in effetti la partecipazione dei laici alla Chiesa di Cristo? Qual è la loro vocazione?
Il nostro compito di preti non doveva consistere nel tenere ben stretti spazi di potere, chiedendo ai laici una collaborazione puramente pragmatistica, ma dovevamo da tempo stimolare i laici ad prendersi le loro responsabilità, in forza di quella vocazione universale che non richiede tanto spazi di potere, ma amore disinteressato per il bene comune.
C’è una frase di don Primo che mi ha sempre fatto riflettere: «Il parroco deve guardarsi dal fabbricare brutte o belle copie del prete, quando l’originalità è una delle condizioni perché la parrocchia sia viva e vitale. Egli deve aver fiducia nei laici, non pretendere di manovrarli quasi fossero dei fanciulli, ma guadagnarsi piuttosto il diritto di guidarli con autorità paterna, con presenza amorevole e rispettosa». Don Mazzolari cita una frase del cardinale Saliège: “Sarebbe un errore fatale per l’avvenire della Chiesa voler conservare i laici nella vita di feto”.

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