Omelie 2013 di don Giorgio: Giornata Mondiale della Pace
1 gennaio 2013: Ottava del Natale
Nm 6,22-27; Fil 2,5-11; Lc 2,18-21
La prima giornata mondiale della pace risale al 1968, indetta da Paolo VI. Dunque sono passati 45 anni. Mi sembra interessante, forse anche doveroso, risalire a quel primo messaggio di Paolo VI dove troviamo le indicazioni per le successive giornate della pace. Papa Montini dice esplicitamente che tale giornata non deve essere rivolta esclusivamente ai credenti, ma a “tutti gli uomini di buona volontà”. La pace, in altre parole, accomuna le aspirazioni di tutti i popoli, di qualsiasi fede politica e religiosa. Dice testualmente Paolo VI: «La proposta di dedicare alla Pace il primo giorno dell’anno nuovo non intende perciò qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa cioè cattolica; essa vorrebbe incontrare l’adesione di tutti i veri amici della pace, come fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme, congeniali all’indole particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto importante sia la consonanza d’ogni voce nel mondo per l’esaltazione di questo bene primario, che è la pace, nel vario concerto della moderna umanità. La Chiesa cattolica, con intenzione di servizio e di esempio, vuole semplicemente “lanciare l’idea”, nella speranza ch’essa raccolga non solo il più largo consenso del mondo civile, ma che tale idea trovi dappertutto promotori molteplici, abili e validi a imprimere nella “Giornata della Pace”, da celebrarsi alle calende d’ogni anno nuovo, quel sincero e forte carattere d’umanità cosciente e redenta dai suoi tristi e fatali conflitti bellici, che sappia dare alla storia del mondo un più felice svolgimento ordinato e civile».
In questi 45 anni, i messaggi del Papa sono stati tra loro differenti, con temi inerenti anche alla reale situazione storica (in 45 anni quanti mutamenti nel campo socio-politico e anche in quello religioso!), ma talora si è verificato il rischio di deviare dalle intenzioni originarie di Paolo VI, che ha esplicitamente voluto che questa giornata mantenesse sempre un carattere universalistico, evitando di sfruttare l’occasione per lanciare messaggi strettamente religiosi.
La pace è un bene comune. Lo dice anche il messaggio di Benedetto XVI per l’inizio di questo nuovo anno. È un bene cioè che riguarda l’essere umano in quanto tale indipendentemente dalla razza o dalla religione. Un bene che deve coinvolgere l’attenzione e gli impegni di tutti. È chiaro che ognuno attinge alle sue migliori risorse intellettuali e spirituali per far sì che questo bene comune prevalga sugli interessi o sugli egoismi di parte.
Sinceramente però avrei preferito che il Papa, nel suo recente messaggio, non avesse toccato argomenti scottanti che hanno subito scatenato forti reazioni. Sia ben chiaro: nessuno contesta il fatto che la Chiesa possa dire la sua anche nel campo bioetico. Ma non tutti sono d’accordo sulle motivazioni per cui la Chiesa condanna ad esempio il matrimonio degli omosessuali. Ora dire che è la stessa natura umana, e non tanto la rivelazione di fede, a stabilire il fondamento della famiglia significa chiudere ogni discussione, creando un muro con quel mondo che, in buona fede, in buona volontà, la pensa diversamente.
Nei giorni scorsi, dopo le polemiche apparse sui giornali che, come al solito, hanno evidenziato solo una frase di un lungo discorso, e cioè che, in sintesi, l’aborto, l’eutanasia e il matrimonio tra gay sono “una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”, mi sono chiesto se le parole del Papa non potevano essere indirizzate ad altri argomenti, su cui raccogliere il consenso di tutti gli “uomini e donne di buona volontà”, ma su cui purtroppo esiste una grande confusione e talora una grande indifferenza.
Inoltre, a parte le affermazioni che hanno suscitato una forte ribellione tra i cosiddetti “laicisti” e non solo, anche negli stessi ambienti cattolici più aperti, man mano leggevo il Messaggio notavo poca omogeneità, con continui passaggi da un tema all’altro: temi interessanti quali il lavoro, il mercato, la persona.
Avrei preferito che quest’anno il Papa si soffermasse sulla grave crisi, non solo di tipo economico, che sta attraversando l’intera umanità, magari suggerendo qualche alternativa, ad esempio la via della decrescita felice, puntando quindi alla essenzialità, alla qualità, all’essere, al contesto ambientale da rivalutare e da privilegiare sul profitto di un mercato folle che ha contaminato anche la massa dei cittadini. Perché parlare in questo Messaggio ancora di aborto, di eutanasia, di matrimonio tra gay, quando invece ciò che sta attanagliando l’Umanità è la violenza sulla Coscienza universale, quando la Politica è strapazzata da partiti corrotti con visuali meschine di Società, quando tutto è visto e imposto come se fosse una questione puramente economica? I veri crimini contro l’Umanità sono le ingiustizie sociali, la distribuzione squilibrata dei beni, sono lo sfruttamento delle terre dei poveri a vantaggio di una tecnologia disumana, sono le guerre d’interessi nazionali, sono le ferite inferte al creato, sono i veleni prodotti da fabbriche di morte.
Non bastano degli accenni. Occorre una insistenza quasi ossessiva, tanto da scuotere le coscienze dei violenti e le coscienze addormentate.
Vorrei concludere, citando un testo di don Tonino Bello che sulla pace ha scritto e ha predicato con calore e con insistenza.
“La pace come cammino”
A dire il vero non siamo molto abituati a legare il termine PACE a concetti dinamici.
Raramente sentiamo dire:
“Quell’uomo si affatica in pace”,
“lotta in pace”,
“strappa la vita coi denti in pace”…
Più consuete, nel nostro linguaggio, sono invece le espressioni:
“Sta seduto in pace”,
“sta leggendo in pace”,
“medita in pace” e,
ovviamente, “riposa in pace”.
La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera che lo zaino del viandante.
Più il comfort del salotto che i pericoli della strada.
Più il caminetto che l’officina brulicante di problemi.
Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli.
Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato.
Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.
Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma una conquista.
Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno.
Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.
La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia.
Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.
Rifiuta la tentazione del godimento.
Non tollera atteggiamenti sedentari.
Non annulla la conflittualità.
Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”.
Sì, la pace prima che traguardo, è cammino.
E, per giunta, cammino in salita.
Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni.
Forse anche le sue soste.
Se è così, occorrono attese pazienti.
E sarà beato, perché operatore di pace,
non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte.
Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai – su questa terra s’intende – pienamente raggiunta.
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